Oggi ti presento un pensatore musicale originale, che richiede qualche parola in più: Benoît Delbecq, parigino quarantaquattrenne.
Delbecq dispone dei cicli ritmico-meldici, di tipo africano, metri additivi che il battererista camerunese Biayenda interpreta con meravigliosa scioltezza e che informano delle melodie centripete, in ciò anch’esse di caratteristico stampo africano, prive di pulsazione ricorsiva e di divisioni strofiche. Segmenti ritmico-melodici di lunghezza irregolare e di modesta escursione, quasi «ritmi intonati», costituiscono una prosodia la cui liberissima accentuazione è lasciata al sax e al piano (la viola svolgendo un ruolo soprattutto armonico e coloristico), ai quali viene richiesto un impegno insolito di attenzione reciproca; al contrabbasso, Helias provvede un morbido ostinato.
Ma sta’ attento: l'ascolto di queste esecuzioni è assai meno laborioso della descrizione che ne ho dato, e ben più soddisfacente. Ti si trovi infatti attirato in un mondo sonoro a un tempo inaudito e ancestralmente famigliare, ipnotico senza partecipare in nulla della qualità narcotica di altre musiche odierne che adoperano semplici moduli ricorsivi a evocare stasi, laddove queste imprevedibili esecuzioni hanno quella propulsione in avanti che identifichiamo senz’altro con lo swing. I precedenti sono individuabili solo per analogie di processo: dal punto di vista compositivo, l’uso di serie come base per l’improvvisazione tematica (Zao Wou-Ki) richiama il Don Ellis di «…How Time Passes…», così come Ellis è richiamato da misure strane come il 14 (se ho contato bene) di Au Louvre, in entrambi i casi senza quello zelo dimostrativo e con molto maggiore libertà agogica. In altri momenti, semplici strutture polimodali (p.e. Fa e Fa# lidio alternati in Multikulta) riducono la dimensione armonica a favore di quella timbrica e ritmico-melodica.
Il suono complessivo è inconfondibilmente jazzistico, nutrito dalla sonorità glaciale e unica di Mark Turner e dalla batteria di Biayenda che integra metri e sonorità africani in una pulsazione schiettamente jazzistica e talora funky (The Elbow Room, Vancouver), ricordando Ed Blackwell. Delbecq è pianista influenzato nel timing e nell’uso dello spazio da Bley, Waldron e, precisa lui stesso, dagli Études di Ligeti, anche se in «Phonetics» si riconosce piuttosto la presenza della più remota Musica ricercata.
Delbecq dispone dei cicli ritmico-meldici, di tipo africano, metri additivi che il battererista camerunese Biayenda interpreta con meravigliosa scioltezza e che informano delle melodie centripete, in ciò anch’esse di caratteristico stampo africano, prive di pulsazione ricorsiva e di divisioni strofiche. Segmenti ritmico-melodici di lunghezza irregolare e di modesta escursione, quasi «ritmi intonati», costituiscono una prosodia la cui liberissima accentuazione è lasciata al sax e al piano (la viola svolgendo un ruolo soprattutto armonico e coloristico), ai quali viene richiesto un impegno insolito di attenzione reciproca; al contrabbasso, Helias provvede un morbido ostinato.
Ma sta’ attento: l'ascolto di queste esecuzioni è assai meno laborioso della descrizione che ne ho dato, e ben più soddisfacente. Ti si trovi infatti attirato in un mondo sonoro a un tempo inaudito e ancestralmente famigliare, ipnotico senza partecipare in nulla della qualità narcotica di altre musiche odierne che adoperano semplici moduli ricorsivi a evocare stasi, laddove queste imprevedibili esecuzioni hanno quella propulsione in avanti che identifichiamo senz’altro con lo swing. I precedenti sono individuabili solo per analogie di processo: dal punto di vista compositivo, l’uso di serie come base per l’improvvisazione tematica (Zao Wou-Ki) richiama il Don Ellis di «…How Time Passes…», così come Ellis è richiamato da misure strane come il 14 (se ho contato bene) di Au Louvre, in entrambi i casi senza quello zelo dimostrativo e con molto maggiore libertà agogica. In altri momenti, semplici strutture polimodali (p.e. Fa e Fa# lidio alternati in Multikulta) riducono la dimensione armonica a favore di quella timbrica e ritmico-melodica.
Il suono complessivo è inconfondibilmente jazzistico, nutrito dalla sonorità glaciale e unica di Mark Turner e dalla batteria di Biayenda che integra metri e sonorità africani in una pulsazione schiettamente jazzistica e talora funky (The Elbow Room, Vancouver), ricordando Ed Blackwell. Delbecq è pianista influenzato nel timing e nell’uso dello spazio da Bley, Waldron e, precisa lui stesso, dagli Études di Ligeti, anche se in «Phonetics» si riconosce piuttosto la presenza della più remota Musica ricercata.
Mi piacerebbe davvero sentire che cosa ti pare di questa musica.
The Elbow Room, Vancouver (Delbecq), da «Phonetics», Songlines SA1552-2. Mark Turner, sax tenore; Oene Van Geel, viola; Benoît Delbecq, piano; Mark Helias, contrabbasso; Emile Biayenda, batteria. Registrato nel 2004.
2 commenti:
bello bello bello. alla faccia di chi dice che il jazz non ha più niente da dire.
Oh bene, aspettavo di sentirti qui. Nel jazz le cose nuove sono venute sempre da chi ha esplorato il ritmo.
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