giovedì 22 ottobre 2020

It’s Only A Paper Moon (Miles Davis)

 «Dig» di Miles Davis è una pietra angolare dell’hard bop e anche della carriera di Miles, che nel disco non sviluppa soltanto il suo stile individuale ma anche il gusto per una sonorità complessiva stratificata, dotata di profondità, grazie all’uso in front line di sax contralto e tenore, come pochi anni dopo nel sestetto di «Kind of Blue». Nel pezzo che sentiamo oggi, però, il contralto (Jackie McLean) non c’è.

 It’s Only A Paper Moon contiene un assolo di Sonny Rollins che forse è il suo primo grande assolo su disco. Sonny qui riesce in una intimo e autorevole, astratto e colloquiale. La sua sonorità giovanile, Stanley Crouch l’ha definita «ghostly» e qui si capisce perché, fischi d’ancia, soffi e tutto il resto. 

 It’s Only A Paper Moon (Arlen-Harburg-Rose), da «Dig», Prestige. Miles Davis, tromba; Sonny Rollins, sax tenore; Walter Bishop, Jr., piano; Tommy Potter, contrabbasso; Art Blakey, batteria. Registrato il 5 ottobre 1951.

martedì 20 ottobre 2020

Jordu – Groovin’ High – I’ll Remember April (Hampton Hawes)

 Hampton Hawes, quando si parla di piano jazz, mi provvede la soddisfazione più completa. Sulle circostanze di questo disco famoso, accolgo per una volta i truismi di Allmusic: «This studio session contained many elements associated with a live gig: the work took place during regular nightclub performing hours, the improvisations were mostly extended, and there were no alternate takes. A remarkable freshness and spontaneity prevailed throughout the session».

 Jordu (Jordan), da «All Night Session!», Contemporary C3545. Hampton Hawes, piano; Jim Hall, chitarra; Red Mitchell, contrabbasso; Eldridge «Bruz» Freeman, batteria. Registrato il 12 novembre 1956.

 Groovin’ High (Gillespie, ib.

 I’ll Remember April (Raye-De Paul), ib.

venerdì 16 ottobre 2020

Sullivan’s Universe – Rain In Web (Marilyn Crispell & Angelica Sanchez)

 Di tanto in tanto pubblico un duetto di pianisti, sempre deprecando il genere; quando ne pubblico, infatti, rimarco sempre l’eccezione a una regola che per me è di confusione, esibizionismo, frastuono.

 Questo disco è molto bello. Marilyn Crispell, che hai sentito anche su Jnp, esegue tutte composizioni di Angelica Sanchez, che suona l’altro pianoforte; non conoscevo la Sanchez e mi pare eccellente.

 Non dico di più perché in queste settimane, come avrai forse notato dal rallentamento del blog, sono affaticato, meglio così per tutti. Abbandònati a questa musica complessa ma incalzante, che sente l’urgenza di dirti qualcosa e che manca del tutto di quel sinistro carattere proprio dei piano duets, la volontà di un pianista di sopraffare l’altro. Questo si deve, forse, al fatto che i pianisti qui sono due donne.

 Sullivan’s Universe (Sanchez), da «How To Turn The Moon», Pyroclastic. Marilyn Crispell e Angelica Sanchez, piano. Registrato il 28 settembre 2019.

 Rain In Web (Sanchez), ib.

venerdì 9 ottobre 2020

I Want To Hold Your Hand – At Long Last Love (Grant Green)

 Pensa te, mettere insieme un quartetto del genere per poi fargli fare la cover di I Want To Hold Your Hand a bossa nova (absit iniuria, io per i Beatles vado matto; per la bossa nova, proprio no).

 Manco male che poi hanno fatto anche dell’altro, certo, ma è lecito rimanere un po’ delusi per questo light fare da simili pesi massimi. Appena sette mesi dopo, Larry Young ed Elvin Jones avrebbero registrato sempre per la Blue Note «Unity», con Woody Shaw e Joe Henderson, che sembra venire da un altro pianeta.

 I Want To Hold Your Hand (Lennon-McCartney), da «I Want To Hold Your Hand», Blue Note 4202. Hank Mobley, sax tenore; Grant Green, chitarra; Larry Young, organo; Elvin Jones, batteria. Registrato il 31 marzo 1965.

 At Long Last Love (Porter), id.

martedì 6 ottobre 2020

You Don’t Know What Love Is (Fred Hersch)

 Una versione concettosa, virtuosistica e intensa del consunto standard da un trio di Fred Hersch di tanti anni fa, qui al Village Vanguard di New York per la prima volta.

 You Don’t Know What Love Is (Raye-De Paul), da «Trio ’97», Palmetto. Fred Hersch, piano; Drew Gress, contrabbasso; Tom Rainey, batteria. Registrato il 18 luglio 1997.

lunedì 5 ottobre 2020

My Romance – ’Round About Midnight – Skylark (Scott Hamilton)

 Scott Hamilton, nella mia quasi remota giovinezza, non lo tenevo in grande considerazione: in nessuna, anzi. Costui aveva solo dieci anni più di me e voleva suonare come Coleman Hawkins, come Chu Berry, al massimo come Don Byas, passando, se proprio del caso, per Lester Young! Con tutto che conoscevo già benissimo tutti quei saxofonisti, e li veneravo, la cosa mi andava contropelo, per pregiudizio storicistico. L’arte deve progredire, e la direzione di quel progresso è… è ovvia. Cioè, è ovvia, no?

 La verità, poi, è che Hamilton suonava e suona il sax tenore benissimo, con sensibilità autentica per lo stile che aveva scelto, ed eletta musicalità, a somiglianza di quanto aveva fatto, per dire, Ruby Braff, un coetaneo di Davis e Coltrane (e per inciso: Sun Ra era quasi coetaneo di Art Tatum).

 Oggi non so dire che valore abbia l’essere, come dice quel mio caro amico, contemporanei di se stessi. Anzi, non so proprio che cosa significhi questa espressione, che mi pare poter avere un senso solo se non essere contemporanei di se stessi fosse possibile. Una cosa che finalmente intuisco, con una certa mestizia, è la legittimità dell’arte come difesa contro le offese della vita (Cesare Pavese). 

 Che risieda qui li fascino consolatorio dell’arte di Scott Hamilton?

 My Romance (Rodgers-Hart), da «Ballad Essentials», Concord. Scott Hamilton, sax tenore; Norman Simmons, piano; Dennis Irwin, contrabbasso; Chuck Riggs, batteria. Registrato nel febbraio 1995.

 ’Round About Midnight (Monk), ib. Hamilton; John Bunch, piano; Chris Flory, chitarra; Phil Flanigan, contrabbasso; Chuck Riggs, batteria. Registrato nel marzo 1989.

 Skylark (Mercer-Carmichael) ib. Registrato nel gennaio 1986.

giovedì 1 ottobre 2020

Medley (Paul Bley) RELOADED

Reload dal 31 gennaio 2016. Il post includeva un quiz

 Paul Bley a Milano nel 1979, in una primavera di quei musicalmente infiniti e insondabili anni Settanta, colto in una delle insondabilmente, infinitamente rimpiante stagioni jazzistiche milanesi di quegli  anni e dei subito successivi. Qui si era al teatro Ciak. A differenza di Paul Bley,  lui – esso – c’è ancora, a Città Studi, ma, ma. Non ricordo dove io abbia pescato questa registrazione, c’è da scommettere che sia stato su Inconstant Sol.

 Bley quella sera attaccò a suonare con quella che la scarna nota d’accompagnamento identifica come All The Things You Are; in realtà, tre minuti dentro l’esecuzione si era già stufato dell’immortale melodia e sequenza armonica di Kern. Resuscito solo per oggi quell’antica consuetudine di Jazz nel pomeriggio, il quiz, che veniva vinto quasi sempre dal Lancianese, e ti sfido a identificare le altre canzoni che Bley suona in questa medley e a scriverle nei commenti. Sfida da poco, non sono difficili per niente, tant’è che per aver indovinato non vincerai un corno.

 Medley. Paul Bley, piano. Registrato il 23 maggio 1979.

lunedì 28 settembre 2020

Someday My Prince Will Come – Mother of Earl (Bill Evans)

 Bill Evans si giovava di un batterista autorevole o addirittura autoritario, che gli serviva da sprone e ne arricchiva l’espressione per complemento o contrasto, ampliando inoltre le dinamiche del trio. Andò così con Philly Joe Jones, suo grande amico e compagno di malefatte, il batterista preferito con cui lavorò e incise diverse volte lungo tutta la sua vita musicale, e in uno sporadico incontro con Shelly Manne («Empathy», 1962).

 Nel 1968 Evans ebbe con sé brevemente Jack DeJohnette, che nel trio succedeva a un grande, molto discreto batterista come Larry Bunker e all’inglese Arnold Wise, che si sente nel disco della Town Hall del 1966 dove non fa molto più che segnare il tempo. Il live a Montreux attesta uno dei momenti più estroversi della discografia del pianista.

 Qui, se ti interessasse, c’è un articolo sul periodo Verve di Bill Evans che ho scritto qualche anno fa.

 Someday My Prince Will Come (Churchill-Morey), da «At The Montreux Jazz Festival», Verve 539 758-2. Bill Evans, piano; Eddie Gomez, contrabbasso; Jack DeJohnette, batteria. Rergistrato il 15 giugno 1968.

 Mother of Earl (Zindars), id.

sabato 26 settembre 2020

Mule Walk (James P. Johnson)

 Stride piano!

 Mule Walk (Johnson), da «The Complete Edmond Hall, James P. Johnson, Sidney De Paris, Vic Dickenson Blue Note Sessions», Mosaic. James P. Johnson, piano. Registrato il 15 dicembre 1943

giovedì 24 settembre 2020

Stars Fell on Alabama – Moonlight in Vermont (Ella Fitzgerald & Louis Armstrong)

 Stars Fell on Alabama (Parish-Perkins), da «Ella and Louis», Verve. Ella e Louis con Oscar Peterson, piano; Herb Ellis, chitarra; Ray Brown, contrabbasso; Buddy Rich, batteria. Registrato il 16 agosto 1956.

 Moonlight in Vermont (Blackburn-Suessdorf), id.

mercoledì 23 settembre 2020

E Flat Tuba G - Norwegian Wood (Ira Sullivan) RELOAD

Reload dal 23 marzo 2011. Ira Sullivan è morto, ottantanovenne, due giorni fa.  

Conosci Ira Sullivan?
  «Mi è sempre piaciuto suonare il mio strumento, i miei strumenti. Voglio solo suonare i miei strumenti come meglio posso e spero, facendolo, di riuscire a dire qualcosa. Ho e ho sempre avuto un’unica ambizione nella vita: suonare il mio strumento. Non compongo, non arrangio, non leggo nemmeno bene la musica. Io voglio solo suonare».
Ira Sullivan, questionario per The Encyclopedia of Jazz, circa 1959
  E Flat Tuba G (Sullivan), da «Horizons», Collectables COL-CD-6619. Ira Sullivan, tromba & sax tenore; Lon Norman, trombone; Dolphe Castellano, piano; William Fry, contrabbasso; Jose Cigno, batteria. Registrato il 2 marzo 1967.    

 Norwegian Wood (Lennon-McCartney), ibid., ma Sullivan suona il sax soprano, Norman l’euphonium e Castellano una tastiera elettrica. 

martedì 22 settembre 2020

(re)new – (over)taken (Alister Spence)

 Con me devi avere pazienza in questo periodo: ricevo questo disco doppio del pianista e compositore australiano Alister Spence (n. 1955). Non so di lui e certo dovrei, ma a una ricerca corsiva su Google trovo ben poco. Del disco doppio, che lo Spence pubblica da se stesso, leggo nella press release che i più di venti pezzi in cui è frammentato, tutti dal nome ancipite, sono completamente improvvisati. I quattro o cinque che ho ascoltato presentano tutti un carattere agogico di vortice o mulinello, giusta la suggestione del titolo generale. Mi piacciono davvero. 

 Per cui, in ispirito improvvisativo o di cronaca, te ne propongo due così, senz’altro dire e senza elaborare, quasi li ascoltassimo insieme per la prima volta. Forse ci ritornerò.

 (re)new (Spence), da «Whirlpool», Alister Spence Music. Alister Spence, piano. Registrato nell’autunno del 2019.

 (over)taken (Spence), id.

domenica 20 settembre 2020

I’m Beginning To See The Light – Blues In The Closet (Oscar Pettiford)

 Uno dei maggiori contrabbassisti del jazz (arriverei a dirlo il più grande) e un pioniere del jazz moderno, Oscar Pettiford cominciò sul finire degli anni Quaranta a pizzicare anche il violoncello, perfezionando su quello strumento il fraseggio di respiro saxofonistico che dimostrava in assolo sul contrabbasso. Quest’uso del cello come «contrabbasso piccolo» sarebbe stato ripreso da altri grandi bassisti come Doug Watkins e Ron Carter, mentre altri – Fred Katz, Calo Scott, Diedre Murray, Abdul Wadud – , violoncellisti di formazione ed esclusivi, lo avrebbero suonato con l’arco.

 Tuttavia non fu Pettiford il primo jazzista a incidere con il violoncello, come mi è capitato di leggere (lo adoperò per la prima volta in quartetto con Duke Ellington nel 1950); credo che il primato spetti a Harry Babasin con Dodo Marmarosa nel 1947, lo stesso Babasin che senti qui duettare con Oscar in Blues In The Closet.

 I’m Beginning To See The Light (Ellington), da «In A Cello Mood», Fresh Sound Records FSR-CD 452. Oscar Pettiford, violoncello; Billy Taylor, piano; Charles Mingus, contrabbasso; Charlie Smith, batteria. Registrato il 16 ottobre 1952.

 Blues In The Closet (Pettiford), ib.; Pettiford, Harry Babasin, violoncello; Arnold Ross, piano; Joe Comfort, contrabbasso; Alvin Stoller, batteria. Registrato il 14 maggio 1953.

giovedì 17 settembre 2020

Glass Bead Games – Prayer To The People – John Coltrane (Clifford Jordan) RELOAD

Reload dal 6 dicembre 2011.

«Glass Bead Games»
, del 1973, è considerato
il disco più rappresentativo di Clifford Jordan, che vi si presenta alla testa di due formazioni ferratissime, proponendo una musica che risente dell’afflato spirituale coltraniano e di quello che, sulla sua scia, in quei primi anni Settanta qualcuno aveva definito spiritual jazz. L’omaggio a Coltrane è esplicito nel terzo dei pezzi che pubblico qui. La musica ha comunque la trasparenza e la pulizia di segno caratteristica di questo insigne saxofonista. 

 Non so bene che relazione ci sia fra questa musica e il romanzo di Hermann Hesse da cui il disco prende il nome (Il gioco delle perle di vetro). C’è da dire anche che io quel libro non l’ho mai letto. 

 Glass Bead Games (Jordan), da «Glass Bead Games», [Strata East] Harvest Song Records #HS2006-1. Clifford Jordan, sax tenore; Cedar Walton, piano; Sam Jones, contrabbasso; Billy Higgins, batteria. Registrato il 29 ottobre 1973

 Prayer to the People (Jordan), id

 John Coltrane (Jordan), id. ma Stanley Cowell, piano; Bill Lee, contrabbasso, al posto di Walton e Jones.

martedì 15 settembre 2020

Tone Field (Gary Peacock)

 Questo disco di Gary Peacock del 1977 presenta per la prima volta la formazione che sarebbe diventata il trio di Keith Jarrett. 

 Tone Field (Peacock), da «Tales Of Another», ECM. Keith Jarrett, piano; Gary Peacock, contrabbasso; Jack DeJohnette, batteria. Registrato nel febbraio 1977.

lunedì 14 settembre 2020

Warm Valley – Maimoun (The Heath Brothers)

 È il primo LP degli Heath Brothers, inciso nel 1975 per l’impavida Strata-East, editrice nella prima metà dei Settanta di una sessantina di dischi di jazz e dintorni (Gil Scott-Heron, per esempio) vari, eterodossi, a volte sconcertanti per i benpensanti come me, interessanti sempre, e parecchi sono molto belli, utili quando non essenziali per dare conto della storia del jazz di quel periodo soprattutto in una prospettiva culturale e anche politica nera, multiforme e non banale. Ti invito a cercare «Strata-East» con la funzione di ricerca nel blog, qui a fianco, e a leggerne quanto già ne ho detto in passato.

 Stanley Cowell era stato pianista nella band di Jimmy Heath e con Charles Tolliver aveva fondato la Strata-East. Nell’occasione funse da produttore, da pianista e da esecutore di m’bira, il lamellofono africano-occidentale noto in dimensioni e tagli diversi come sanzakalimba, ashiwa e con altri nomi ancora. Percy adopera anche un contrabbasso piccolo, Jimmy il flauto, soprattutto, e i sax tenore e soprano, e Albert «Tootie» si cimenta in un paio di pezzi anche al flauto.


 Il disco, d’ispirazione sorprendente, è Strata-East al suo meglio ed è al meglio di quegli anni straordinari per il jazz, i primi Settanta, che io non sono certo abbiano avuto la ricognizione critica complessiva che meritano, compositi e disinibiti come si sono trovati a essere, quindi di definizione complicata. Gli Heath Brothers non hanno mai più suonato niente di simile, a mia scienza; la musica, timbricamente caratterizzata dalla m’bira e dai flauti, ha più di un contatto con il coevo cosiddetto spiritual jazz senza nulla ritenerne di certa brodosità, e nella Smilin’ Billy Suite (a cui dedicherò un post separato e se tardassi, ricordamelo tu) assume accenti spontaneamente funky e soul che consuonano con la temperie di quegli anni e che infatti sono stati in tempi recenti oggetto di sampling da parte di artisti dell’hip hop.

 Warm Valley, con due flauti, m’bira e contrabbasso piccolo suonato con l’arco, ha un cachet afro-cameristico che la rende unica e affascinante, un esempio di musica diasporica cosmopolita.

 Warm Valley (Ellington), da «Marchin’ On», Strata-East SES-19766. Jimmy Heath, Albert «Tootie» Heath, flauto; Stanley Cowell, m’bira; Percy Heath, contrabbasso piccolo. Registrato nel 1975.

 Maimoun (J. Heath), ib., Jimmy Heath anche sax tenore; Albert Heath anche batteria; Stanley Cowell, piano; Percy Heath, contrabbasso.

domenica 13 settembre 2020

Albert (Jenny Scheinman)

 Interessante e obliquo omaggio ad Ayler di Jenny Scheinman. Scrivevo quindici anni fa, recensendo per Musica Jazz questo disco della Scheinman: 

«La tenuità bucolica della palette nessuno l’assocerebbe a quel grande. Ma, pensandoci dopo, la melodia di Albert ha gli stessi accenti e anche gli stessi intervalli delle marce ayleriane, spogli della loro spaventosa vitalità vociferante, non del loro evocativo arcaismo; il suono irreale che insieme creano la chitarra, la fisarmonica e il violino sono stranianti e “memoriosi” come quello dell’assurdo clavicembalo di Call Cobbs».

 Con Bill Frisell alla chitarra. 

 Albert (Scheinman), da «12 Songs», Cryptogramophone CG 125. Jenny Scheinman, violino; Ron Miles, cornetta; Doug Wieselman, clarinetto; Bill Frisell, chitarra; Rachel Garniez, fisarmonica; Tim Luntzel, contrabbasso; Dan Rieser, batteria. Registrato il 14 dicembre 2004.

sabato 12 settembre 2020

Nesuih’s Instant (Lee Konitz)

 Lee Konitz si è cimentato di rado con il blues, che tuttavia, a mio giudizio, entrò nel suo lessico almeno un po’ dalla seconda metà degli anni Sessanta per il tramite di Ornette (le note calanti).

 Qui, 1956, quartetto di tristaniani di osservanza stretta, il giro di blues di fatto a-tematico è attribuito nei credit al bassista Peter Ind. «Nesuhi» è ovviamente uno dei due fratelli Ertegun dell’Atlantic. Lee usa il tenore e Sal Mosca, allievo dei più séduli di Lennie Tristano, si sforza in modo commovente di suonare bluesy, e noi apprezziamo lo sforzo.

 Nesuih’s Instant (Peter Ind), da «Inside Hi-Fi» [Atlantic] Koch Records CD8502. Lee Konitz, sax tenore; Sal Mosca, piano; Peter Ind, contrabbasso; Dick Scott, batteria. Registrato il 26 settembre 1956.

giovedì 10 settembre 2020

O-Go-Mo – Oh Kai (Kai Winding)

 Cinque musicisti bianchi, tre (Winding, Safranski, Manne) freschi freschi dall’orchestra di Stan Kenton, al principio del 1947 fanno del bebop in una maniera, pare a me, particolare e interessante, almeno storicamente: con l’eccezione di Allen Eager appena diciottenne, tutti gli altri mi sembrano impegnati in quella che, senza intenzione, è una parodia del bebop, certi caratteri del quale, come sentirai soprattutto in O-Go-Mo, appaiono enfatizzati fino alla caricatura. 

 Marty Napoleon, pur essendo della generazione dei bopper, svolse tutta la sua carriera in un ambito tardo-swing o proto-mainstream e il suo momento di maggior splendore ebbe con la All-Stars di Louis Armstrong, dove aveva sostituito Hines; qui suona in un stile premoderno e non è a suo agio; la sezione ritmica, pur con un padreterno come Manne, è molto middle of the road. Kai Winding è forse con Eager, qui tuttavia devotamente lesteriano, il più disinvolto ma la sua caratteristica sonorità rasposa rimanda piuttosto a trombonisti classici come Dicky Wells o Jimmy Harrison.

 Un confronto con il bebop che in quel medesimo torno di tempo suonavano i bopper neri è, come suol dirsi, istruttivo, soprattutto quanto alle differenze di concetto ritmico.
 

 Insomma, come notavo qualche mese fa, si fa presto a dire «bebop».

 O-Go-Mo (Winding), da «In the Beginning… Bebop!», Savoy SV 0169. Kai Winding, trombone; Allen Eager, sax tenore; Marty Napoleon, piano; Eddie Safranski, contrabbasso; Shelly Manne, batteria. Registrato il 22 gennaio 1947.

 Oh Kay (Winding), id.

martedì 8 settembre 2020

Dead Man Blues (Jelly Roll Morton) RELOAD

Reload dal 19 febbraio 2013. 

 Questo pezzo del 1926 dei Red Hot Peppers di Jelly Roll Morton s’inizia con alcune battute di dialogo da vaudeville, non troppo divertenti ma che immagino servano a JRM per ambientare il pezzo, a beneficio di chi non conosca le peculiari tradizioni funebri di New Orleans.

 Sentiamo quindi dapprima otto battute di un classico inno-marcia funebre, Flee As A Bird To The Mountain, dal quale attacca, senza soluzione, un blues nella tipica eterofonia di New Orleans, con le tre voci di cornetta, clarinetto e trombone in contrappunto libero. Seguono, con un nuovo tema, un chorus solistico del clarinetto e due della cornetta.

 E poi… a 2:00 qualcosa d’inaudito – siamo, ricorda, in pieno clima New Orleans – succede: un trio di clarinetti sviluppa una trasfigurante, estatica variazione in armonia, tutta scritta, che quindi si ripete accompagnata da una contromelodia del trombone il cui sol bemolle (blue note) confligge con l’armonia diatonica-maggiore dei clarinetti. Segue un chorus di chiusura nuovamente polifonico, come il primo. Ma a chiudere è un tag dei clarinetti, che citano la prima battuta del loro chorus.

 Capolavoro, serve puntualizzarlo?, e uno di quei pezzi in cui è possibile osservare il jazz proprio nell’attimo in cui sta compiendo un passo innanzi.

 Dead Man Blues (Morton), da «Jelly Roll Morton», JSP Jazzbox 309. Jelly Roll Morton’s Red Hot Peppers: George Mitchell, cornetta; Kid Ory, trombone; Omer Simeon, Barney Bigard, Darnell Howard, clarinetto; Jelly Roll Morton, piano; Johnny St. Cyr, banjo; John Linsday, contrabbasso; Andrew Hilaire, batteria. Registrato il 21 settembre 1926.

lunedì 7 settembre 2020

Parisian Thoroughfare – Bouncing With Bud (Claude Williamson)

 Claude Williamson (1926-2016) viene identificato senza residui dai pochi che se ne ricordano con il West Coast Jazz, et pour cause; fu fra l’altro il pianista dei Lighthouse All Stars, istituzione di quella corrente, in sostituzione di Russ Freeman. 

 In questo disco del 1995 Williamson ripaga il debito che tutti i pianisti di jazz moderni hanno con il primo e il più grande di tutti loro, Bud Powell, suonando tutte sue composizioni o composizioni a lui legate. Williamson suona benissimo ma si sarebbe giovato di una sezione ritmica appena meno routinière e disossata di quella costituita da questi due bravi session men californiani.

 Io credo, e l’ho scritto qui sopra anche più di una volta e più di due, che il West Coast Jazz, così in apparenza sereno e perfino solare anzi assolato, nasconda un’anima, se non nera, di certo inquieta.

 Parisian Thoroughfare (Powell), da «Hallucinations», V.S.O.P. #95. Claude Williamson, piano. Registrato nel 1995.

 Bouncing With Bud (Powell), ib. Williamson con Dave Carpenter, contrabbasso; Paul Kreibich, batteria.

domenica 6 settembre 2020

The One That Makes The rain Stop – Destiny Is Yours (Billy Harper)

 In luglio (come ha corso questa strana estate) presentavo Billy Harper in uno standard e annunciavo che sarei tornato su quel disco che all’ascolto mi aveva esaltato.

 Adempio a quella mezza promessa oggi, visto che l’entusiasmo non è calato ma per fortuna lo ha fatto la temperatura esterna. Nel quintetto di Harper del 1989 l’unico altro di buona notorietà è Eddie Henderson, il cui eloquio intenso ma controllato provvede una bella alternativa espressiva al fervore del leader.

 Le composizioni di Harper, soprattutto da un certo momento in poi, hanno avuto titoli di carattere sapienziale, ora profetico ora omiletico; musicalmente, il carattere oratoro delle melodie è rilevato da metri e lunghezze delle frasi irregolari che ne accentuano l’energia vocale, adagiate su semplici armonie chiesastiche, sovente scandite in vamp.

 The One That Makes The Rain Stop (Harper), da «Destiny Is Yours», SteepleChase SCCD 312260. Eddie Henderson, tromba; Billy Harper, sax tenore; Francesca Tanksley, piano; Clarence Seay, contrabbasso; Newman Baker, batteria. Registrato nel dicembre 1989.

 Destiny Is Yours (Harper), id.

venerdì 4 settembre 2020

There’s No Greater Love (Wynton Kelly)

 Wynton Kelly è stato secondo me uno dei musicisti più spontaneamente eleganti del jazz moderno e credo che sia uno dei non pochi artisti che ha dato al jazz ben più di quanto abbia ricevuto. Quest’esecuzione del bellissimo standard di Isham Jones la trovo entusiasmante, nell’ascoltarla mi sembra di essere lì in quel club di Seattle, a centellinare una camomilla al seltz.

 There’s No Greater Love (Jones-Syme), da «Smokin’ in Seattle - Live at the Penthouse», Resonance. Wynton Kelly, piano; Ron McClure, contrabbasso; Jimmy Cobb, batteria. Registrato nell’APRILE 1966.

giovedì 3 settembre 2020

[Comunicazione di servizio] Un articolo su Horace Silver

 Oggi anzi ieri era il compleanno di Horace Silver (1928-2014). Qui c’è un mio pezzo su Silver che uscì nel 2008 sulla rivista «Musica Jazz» (.pdf).

Movement C (Jerome Cooper)

 Jerome Cooper (1946-2015) l’abbiamo sentito qui sopra l’anno scorso con il Revolutionary Ensemble e prima con Braxton (suonava nel famoso «New York Fall ’74»).

 Così si esprime Cooper nelle succinte note di copertina di questo disco in solo del 1979
«Questo disco non è destinato ai soli batteristi… lo può apprezzare chiunque sia interessato alla musica. Gli appassionati di musica classica perché è strutturato, gli appassionati del rock per il ritmo marcato, gli appassionati del jazz per l’aspetto improvvisativo, e quelli interessati alla musica etnica per lo strumentario adoperato».
 Movement C (Cooper), da «The Unpredictability Of Predictability», About Time AT-1002. Jerome Cooper, batteria, percussioni. Registrato il 6 luglio 1979.

martedì 1 settembre 2020

After Hours (Dizzy Gillespie, Sonny Stitt, Sonny Rollins) RELOAD

Reload dal 4 aprile 2011Da allora, appena pochi giorni fa, chi ha lasciato il grande batterista Charlie Persip.

 Ah, come mi piace questo disco. Riunisce parecchie cose che mi vanno a genio: il blues, la jam competitiva ma cavalleresca, Sonny Stitt, Sonny Rollins e Ray Bryant, oltre naturalmente a Dizzy, che è il lievito che fa sollevare la seduta impedendo che si afflosci in una tenzone muscolare (anche se con Rollins non ce n’era veramente il pericolo), e Potter e Persip, due dei più duttili e classici rhythm men moderni. C’è anche uno di quei titoli alimentari a cui ho fato cenno più volte: le uova sunny side up (qui sonny per omaggio ai due tenoristi), cioè con il sole rivolto verso l’alto, sono le uova fritte con il tuorlo intero.

  After Hours è uno standard jazz del pianista Avery Parrish, che lo incise nel 1941 in un disco popolarissimo dell’orchestra di Erskine Hawkins. Horace Silver ha raccontato di aver trascritto e imparato l’assolo di Parrish in quel disco, e David H. Rosenthal (in Hard Bop. Jazz & Black Music, 1992), ha ricordato che «frasi tolte dall’assolo di Parrish e dal repertorio standard di frasette funky (funky licks) del blues e del boogie-woogie emergono in pezzi che pure non sono blues: un elemento dello stile di Silver, questo, che ebbe un impatto incalcolabile su altri pianisti alla fine degli anni Cinquanta. Incorporando materiale delle radici del jazz nella sua musica, [Silver] tramandò molte delle sue frasi preferite, che a tutt’oggi sono parte costitutiva del vocabolario del jazz».

  After Hours (Parrish), da «Sonny Side Up», Verve MGV-8262. Dizzy Gillespie, tromba; Sonny Rollins, Sonny Stitt, sax tenore; Ray Bryant, piano; Tommy Potter, contrabbasso; Charli Persip, batteria. Registrato nel dicembre 1957.

lunedì 31 agosto 2020

Don’t Blame Me – Well, You Needn’t (Thelonious Monk)

 Ecco una brillantissima Don’t Blame Me dall’inedito dell’anno, il live di Monk & quartetto a Palo Alto, nella South Bay di San Francisco, nell’autunno del 1968. Segue Well, You Needn’t in cui Larry Gales, quel giorno veramente ispirato, prende un lungo assolo con l’arco; qui il microfono dell’improvvisata ripresa, opera di un bidello della scuola superiore in cui ebbe luogo il concerto, coglie il sommesso canticchiare del contrabbassista all’unisono con lo strumento, con un effetto involontariamente simile a quello che otteneva Slam Stewart o più ancora Major Holley.

 Monk e i suoi sembrano di buon umore e in vena di suonare quei caposaldi di repertorio a tempo piuttosto spedito.

 Ad ogni modo, voglio ricordare quell’episodio del 1968 nell’interezza delle sue circostanze avventurose e delle sue imprevedute conseguenze, così come l’ha ricostruito con acribìa Robin D. G. Kelley nella monumentale biografia di Monk che ho io stesso tradotto anni anni fa. «Jules Colomby» era in quegli anni l’agente di Monk.
 A questo punto entra in scena Danny Scher, un sedicenne ebreo nato e cresciuto a Palo Alto in una famiglia di borghesia medioalta. Fanatico appassionato di jazz, era un promettente scolaro della Palo Alto High School durante quell’estate del 1968, così calda dal punto di vista delle relazioni razziali. Tutti conoscevano Danny, perché un anno prima aveva organizzato tutto da solo il primo concerto jazz della Palo Alto High School, a cui aveva invitato nulla meno che il pianista Vince Guaraldi e il trio vocale Lambert, Hendrick & Ross. Inoltre, ogni mercoledì all’ora di pranzo conduceva un “programma radiofonico” sul jazz diffuso nel campus, anche se la “stazione radio” altro non era che un microfono, qualche altoparlante collocato strategicamente e un giradischi. Fuori dalla scuola, aveva cominciato a lavorare per alcuni promoter della Bay Area e aveva conosciuto Darlene Chan, che aveva prodotto la prima serie di concerti jazz alla U. C. a Berkeley e aveva lavorato per il critico Ralph J. Gleason. “Il mio sogno era quello di portare alla Palo Alto High School Thelonious Monk e Duke Ellington”, ha ricordato Scher. “Monk era la mia prima scelta, così chiesi a Darlene [Chan] come potessi mettermi in contatto con lui, e lei mi diede il numero di Jules Colomby. Io chiamai Jules, gli dissi che volevo scritturare Monk per la mia scuola. Mi pare che lui mi disse che mi sarebbe costato più o meno cinquecento dollari. Alla fine mi mandò un contratto, delle foto di Monk e delle copie di Underground. Dovetti chiedere al preside della scuola di firmare il contratto”. 
 Dal momento che Monk aveva già un ingaggio di tre settimane al club Both/And di San Francisco per la fine di ottobre, Scher prenotò l’auditorium per la domenica pomeriggio del 27 ottobre, e con il quartetto di Monk scritturò altre due band: il Jimmy Marks Afro Ensemble e Smoke, con Kenny Washington. Con il quartetto di Monk come band di cartello e la destinazione dei proventi all’International Club, Scher era sicuro di avere in tasca il tutto esaurito. Si sbagliava. La vendita dei biglietti da due dollari si rivelò problematica, tanto che dovette persuadere alcuni dei negozianti davanti ai quali passava distribuendo giornali a comprare degli spazi pubblicitari nel programma e a mettere in vetrina manifesti del concerto. Visto che anche così il botteghino restava lento, Scher decise di pubblicizzare il concerto a East Palo Alto. “Così andai ad appendere manifesti a East Palo Alto e in un attimo si diffuse la voce: ‘Ma come, Monk viene a suonare per i visi pallidi di Palo Alto? Se non lo vediamo non ci crediamo’. I neri che incontravo erano scettici, allora io gli dissi: trovatevi domenica nel parcheggio della scuola; se vedete arrivare Monk, comprate un biglietto”. 
 Adesso non gli restava che assicurarsi che Monk e i suoi giungessero a destinazione. Qualche giorno prima del concerto, Scher telefonò a Monk in albergo tanto per ricordargli dove fosse il posto. Monk rispose: “Ma io non ne so niente”. Venne fuori che non aveva mai visto il contratto e che la band non aveva modo di andare da San Francisco a Palo Alto e poi di tornare a San Francisco in tempo per il primo set. Monk fu però favorevolmente colpito dalla faccia tosta del ragazzo e acconsentì a suonare, soprattutto dopo che Scher offrì suo fratello come autista per portare tutti avanti e indietro. Quella domenica pomeriggio, ragazzi di Palo Alto, sia neri che bianchi, si radunarono nel parcheggio per verificare se Monk si sarebbe fatto vivo. Quando il furgone si fermò e Monk, Charlie Rouse, Larry Gales e Ben Riley ne scesero, tutti si misero in fila per comperare il biglietto. Così, ora della fine, il quartetto di Monk diede un eccellente concerto per un pubblico misto che quasi esaurì i posti in sala. Suonarono per oltre un’ora. Fu richiesto tumultuosamente un bis: Monk suonò da solo “Sweethearts od All My Dreams”, avendo poi la delicatezza di scusarsi perché non ne concedeva un secondo: “Stasera devo suonare in città”. 
 Thelonious si congedò dal pubblico, Danny lo pagò in contanti e suo fratello riportò la band al club Both/And con largo anticipo. Un paio di giorni dopo, Jules chiamò Danny chiedendogli i soldi. “Gli dissi che li avevo dati a Monk. Lui mi chiese, ‘Ma la mia commissione?’ e io gli risposi, ‘Beh, mr. Colomby, io non ho mai ricevuto un contratto. Se vuole la sua commissione, è meglio che la chieda a mr. Monk”. Scher sarebbe diventato uno dei maggiori organizzatori di concerti della West Coast. 
 Né Thelonious né il sedicenne Danny Scher compresero che cosa quel concerto avesse significato per le relazioni razziali nella zona. Per un solo bellissimo pomeriggio, neri e bianchi, Palo Alto ed East Palo Alto avevano sotterrato l’ascia di guerra e si erano trovati insieme ad ascoltare “Blue Monk”, “Well, You Needn’t” e “Don’t Blame Me”. Nove giorni più tardi, il referendum per cambiare il nome di East Palo Alto in Nairobi fu bocciato sonoramente, con un margine di più di due contro uno.
 Don’t Blame Me (Fields-McHugh), da «Monk – Palo Alto», Impulse! Thelonious Monk, piano. Registrato il 27 ottobre 1968.

 Well, You Needn’t (Monk), ib. Monk più Charlie Rouse, sax tenore; Larry Gales, contrabbasso; Ben Riley, batteria. 

domenica 30 agosto 2020

Jelly Roll (Gil Evans & Steve Lacy)

 Gil Evans non era un pianista; si ritiene che suonasse al massimo «arranger’s piano», cioè che se la cavasse alla meno peggio nel compitare bassi, accordi e rivolti. Giudica tu.

 A Steve Lacy, che aveva cominciato nell’ambito del Dixieland revival e aveva suonato con Hot Lips Page, Gil Evans offrì una delle prime occasioni di suonare «moderno» in un contesto d’alto bordo. Sia Lacy sia Evans erano musicisti incapaci di suonare una frase musicale che venisse dettata loro non dalla fantasia, ma dall’abitudine delle dita, come succede sovente perfino ai migliori.

 Jelly Roll (Evans), da «Paris Blues»OWL 049. Steve Lacy, sax soprano; Gil Evans, piano. Registrato il primo dicembre 1987.

sabato 29 agosto 2020

Fragmented Suite for Piano and Bass (Duke Ellington)

 «La musica bella non ha tempo» è un luogo comune frusto e poco vero, perché tutte le espressioni artistiche sono del loro tempo, da cui prendono significato; diciamo piuttosto che la musica più bella è quella che continua a parlare del proprio tempo in maniera comprensibile e avvincente anche attraverso gli anni, a volte i secoli.

 Nel jazz è sicuramente questo il caso di tanta musica di Duke Ellington. Come pianista, in particolare, si può dire avesse uno stile che attraversava il tempo. Formatosi alla scuola del regtime prima e poi dei pianisti stride di New York, lo si sentì fare della musica con tratti atonali già nel 1947, nelle celebrate intro e outro pianistiche di The Clothed Woman. Nel 1963, nel disco in trio con Mingus e Roach, il maestro appare più spregiudicato dei colleghi di quasi trent’anni più giovani, in particolare nel pezzo che intitola il disco e in una sconcertante, brutale Summertime.

 Nel 1972 il Duca registrò un omaggio a Jimmy Blanton, l’inventore del contrabbasso moderno che brillò di viva luce nella sua orchestra per meno di due anni; con Ray Brown rifece con scrupolo di fedeltà quattro dei sei duetti che nel 1939-40 aveva registrato con Blanton. Il risultato è felice, Brown era un grande bassista e sentire Duke al piano è sempre una gioia; ma qui interessa la Fragmented suite for Piano and Bass in quattro movimenti, il pezzo forte del disco e secondo me uno dei risultati maggiori dell’Ellington tardo, in particolare a considerarlo nel contesto di questo disco.

 I quattro movimenti vedono piano e basso duettare sulla base, più che di temi o di sequenze armoniche, di sintetici gesti musicali, suggestioni sonore: nel primo movimento, su un vamp variato e mobile del basso, Ellington improvvisa lungo un modo frigio di do, con licenze, con effetto di colore mediorientale, in una sospeso e perentorio. 
 Il secondo movimento, memore più degli altri dei duetti con Blanton ricreati appena sopra nel disco, sviluppa un «quattro» swingante intorno a una batteria di accordi di settima di seconda specie che ricorrono al mezzo e alla fine. Anche qui Ellington è ora facondo, ora aforistico, ora citazionista, sempre suonando a tutta tastiera in un modo che amplia eccezionalmente l’orizzonte sonoro e dinamico della musica, con senso infallibile della diversa risonanza del pianoforte nelle diverse ottave. Brevi e virtuosistici break del basso servono a conferire ulteriore respiro al pezzo. 
 Il terzo movimento si avvolge e svolge intorno a una piccola figura cromatica ascendente e discendente dell’armonia, otto battute, sormontate da un temino a riff e corredate da un ponte; il livello espressivo dominante è qui nel «quattro» implacabile di Brown, che chiude con una cadenza virtuosistica.
 L’ultimo movimento è astratto, sonicamente spostato verso l’acuto fin dai piccoli cluster di Ellington sulla settima ottava del piano che aprono il pezzo, il quale riprende, con ben maggiore rilievo del basso e con più libertà, l’atmosfera modale del primo movimento. Poco dopo la metà, Ellington ripete una cupa figura ad accordi sulla seconda ottava, contrastata da figure spiraliformi alla mano destra e da figurazioni ora in ostinato, ora libere di Brown. Il pezzo si conclude su un dissonante accordo di do minore con quarta eccedente, ribattuto per cinque volte con definitiva risolutezza.

 In retrospettiva, il disco «This One’s for Blanton» è una commemorazione musicale, ed è l’intento dichiarato; è una celebrazione e una riconsiderazione in forma di critica poietica di un momento della storia musicale di Ellington a cui Jimmy Blanton diede un contributo importante; nella sua parte finale, la Fragmented Suite, è una dimostrazione in vivo della perenne attualità di un linguaggio e di una poetica.

 Fragmented Suite for Piano and Bass, 1st Movement (Ellington), da «This One’s for Blanton», Pablo. Duke Ellington, piano; Ray Brown, contrabbasso. Registrato nel dicembre 1972.

 Fragmented Suite for Piano and Bass, 2nd Movement, id.

Fragmented Suite for Piano and Bass, 3rd Movement, id.

Fragmented Suite for Piano and Bass, 4th Movement, id.

giovedì 27 agosto 2020

Love, the Mystery Of… (Art Blakey)

 L’interplay fra jazz e Africa, o sia fra America e Africa, che cominciò alla metà degli anni Cinquanta, è questione complessa e in fondo poco dibattuta, per quanto alcuni anni fa se ne sia occupato estesamente con un saggio-réportage impegnativo e problematico l’etnomusicologo Steven Feld. 

 In quegli anni la questione si poneva sul crinale fra consapevolezza culturale e razziale e relativi conflitti, e un gusto diffuso, non solo a livello pop, per l’exotica e il primitivo. Dall’Africa cominciavano ad arrivare in America, attratti dal jazz ma con un bagaglio distinto e originale, musicisti africani: Babatunde Olatunji, nigeriano, fu quello che avrebbe avuto il successo più grande; ma Guy Warren, dal Ghana, avanzava pretese di maggiore autenticità. L’uno e l’altro, fra il 1956 e il 1966 circa, pubblicarono per case importanti (Decca, Columbia) dischi che cercavano un incontro fra jazz e musiche dell’Africa: e parliamo degli anni in cui il massimo successo di musica «africana», via i Caraibi, era il calypso all’acqua di rose di Harry Belafonte, che di un LP con quel titolo, uscito nel 1956, vendette più copie di quante un singolo artista avesse mai venduto: a milioni, letteralmente

 La disposizione crossover di Olatunji oscurò il relativo maggior rigore di Warren, che patì un paradosso: la sua composizione più famosa, Eyi Wala Dong, pubblicata in origine nell’LP «Africa Speaks, America Answers» (1957), diventò qualche anno dopo una vera hit nell’esecuzione del tedesco Bert Kaempfert, il compositore di Strangers in the Night, rititolata That Happy Feeling e in un divertente arrangiamento dotato di tutti i crismi più smaccati del genere exotica.

 Per essere presa sul serio, l’Africa avrebbe dovuto attendere una temperie culturale più propizia, coincidente con l’ultima fase dei processi di decolonizzazione. Tuttavia in quel periodo di mezzo più di un jazzista di nome sviluppò un interesse almeno superficiale per la musica africana, identificata interamente coi tamburi, e più di tutti Art Blakey e Randy Weston. 

 Ora, vale riportare quanto Guy Warren raccontò anni dopo, una volta tornato in Ghana, assunto il nome di Ghanaba («figlio del Ghana») e diventato una figura fondante del c.d. afrojazz. A suo dire, l’interesse e l’apertura maggiore verso la musica dell’Africa li dimostrarono i musicisti bianchi; gli africani-americani, viceversa, erano tutti presi (parole di Warren) dal «voler diventare le nuove stelle del bebop». Il suo LP più famoso, il succitato «Africa Speaks, America Answers», Warren lo registrò con dei jazzisti italoamericani di Chicago. Sempre Warren-Ghanaba, intervistato nel 1994 dal musicista ghanese Nii Noi Nortey: «Ho impiegato dei collaboratori bianchi perché sono in grado di imparare e di farsi insegnare cose diverse dalle loro; hanno la preparazione che gli consente di assorbirle. Noi neri non siamo così» (questa affermazione, che io prenderei con un grano di sale come tutte quelle dalla stessa fonte, viene da domandarsi se sia più offensiva per i musicisti neri o per i bianchi).

 In questo «The African Beat» del 1962, Art Blakey, alla testa di un suo Afro-Drum Ensemble, esegue Love, the Mystery Of…, un’altra composizione di Warren. Ecco che cosa Warren ne ha avuto da dire: 
Art Blakey mi annoia a morte, due minuti e sono pronto per andare a dormire. (…) In quella canzone è orrendo, rumoroso, stupido. La parte di Lateef è l’unica del disco che valga qualcosa.
 (Warren-Ghanaba ha trovato una parola buona anche per Randy Weston: «La sua versione della musica africana ha avuto successo, ma i suoi bassi sono tutti sbagliati»).

 Love, the Mystery Of… (Warren), da «The African Beat», Blue Note BLP 4097. Art Blakey And The Afro-Drum Ensemble: Yusef Lateef, oboe; Ahmed Abdul-Malik, contrabbasso; Art Blakey, batteria, timpani, gong; Montego Joe, James Ola Folami, Chief Bay, Curtis Fuller, Robert Crowder, Garvin Masseaux, percussioni; Solomon Ilori, canto, penny whistle, talking drum. Registrato il 24 gennaio 1962.

mercoledì 26 agosto 2020

Idle Moments (Grant Green) RELOAD

Reload dal 28 dicembre 2014. 

 Il fascino di questo pezzo, che dà suono all’inerzia un po’ stuporosa un po’ malinconica evocata dal titolo, si deve, non meno che all’esecuzione, alla semplice composizione di Duke Pearson, sedici battute in forma AB. Tutti vi suonano bene, e ci mancherebbe, ma Joe Henderson benissimo, con sorprendente libertà.

 Idle Moments (Pearson), da «Idle Moments», Blue Note ST-84154. Joe Henderson, sax tenore; Bobby Hutcherson, vibrafono; Grant Green, chitarra; Duke Pearson, piano; Bob Cranshaw, contrabbasso; Al Harewood, batteria. Registrato il 4 novembre 1963.

martedì 25 agosto 2020

My Spanish Disguise (Wolfgang Dauner)

 Disinvolta avanguardia pan-europea, con batterista americano, del 1967. Musica che è invecchiata bene, a opera di musicisti di alto livello «al comando» di Wolfgang Dauner.

 My Spanish Disguise (Dauner), da «Free Actions», MPS. Gerd Dudek, clarinetto; Jean-Luc Ponty, violino; Eberhard Weber, violoncello; Wolfgang Dauner, piano; Jürgan Karg, contrabbasso; Fred Braceful, batteria. Registrato il 2 maggio 1967.

lunedì 24 agosto 2020

Manhattan Cry (Don Cherry)

 Don Cherry nel 1966 registra questo disco che ricorda le grandi imprese di Ornette soprattutto, come dire, per la letizia sonora e spirituale che lo pervade. Un disco, soprattutto nella seconda parte che ti presento qui oggi, di New Thing, certo, era il 1966, ma d’ininterrotta piacevolezza, proprio com’era Free Jazz, pur con le intemperanze sonore di Pharoah Sanders.

 Si tratta fra l’altro di una pionieristica istanza di collaborazione americana ed europea nell’ambito del jazz d’avanguardia, per la presenza di Karl Berger e di Jean-François Jenny-Clark. 

 Un documentario su Don Cherry della tv svedese, 1978.

 Manhattan Cry (Cherry), da «Symphony For Improvisers», Blue Note BST 63823. Don Cherry, cornetta; Gato Barbieri, Pharoah Sanders, sax tenore; Karl Berger, piano e vibrafono; Henry Grimes, Jean-François Jenny-Clark, contrabbasso; Ed Blackwell, batteria. Registrato il 19 settembre 1966.

domenica 23 agosto 2020

Dixie’s Dilemma (Ethan Iverson & Mark Turner) RELOAD


Reload dal 17 settembre 2018. 

Rieccoci. Dixie’s Dilemma è la contraffazione di All The Things You Are praticata nel 1956 da Warne Marsh e Ted Brown in un loro famoso disco di ispirazione prettamente tristaniana. 

 Nel disco recentissimo di duetti per la ECM registrato negli studi della radio della Svizzera italiana, Iverson, finalmente scioltosi dai Bad Plus, e l’antico sodale Turner lo riprendono, citando il tema (la parafrasi) alla fine. Iverson è autore di un’esegesi sottile di Tristano e Turner è notoriamente inlfuenzato da Warne Marsh.

 Il titolo dell’album, ne sono quasi certo, si deve a Ethan Iverson; è il titolo di uno dei romanzi del ciclo «A Dance to the Music of Time» di Anthony Powell.

 Dixie’s Dilemma (Marsh), da «Temporary Kings», ECM 2583. Mark Turner, sax tenore; Ethan Iverson, piano. Registrato nel 2018.

sabato 22 agosto 2020

Topsy – Lady Be Good (Jimmy Rowles)

 Jimmy Rowles fa il suo omaggio a Count Basie suonando due canzoni strettamente associate a quel grande (grande anche come pianista, infatti). Il bello è come lo fa, ma come lo faccia io non sono certo di sapertelo dire. Ci provo. Rowles, uno dei pochi pianisti originali del jazz moderno, non è un pianista basiano e non si diverte qui a semplicemente inserire qualche stilema di Basie nel suo eloquio come, per dire, aveva fatto un altro grande pianista, Johnny Guarnieri, in certi dischi famosi di Lester Young.

 In Lady Be Good e soprattutto in Topsy, Rowles «interpreta» Basie come un grande attore interpreterebbe Amleto od Osvald, senza scrupoli di verosimiglianza fisica, ma individuando i connotati e ciò che circonda il personaggio e che lo caratterizza nel dramma per farlo aderire a sé: fuor di metafora, Rowles isola alcuni usi ritmici e timbrici, pianistici, di Basie, e ha poi cura di inserirli nel proprio discorso che è collocato a sua volta in una cornice ritmica e in un ambiente sonoro – la sezione ritmica impeccabile, con l’immenso Red Mitchell – che alla ritmica di Basie si rifà espressamente: un quattro leggero, elastico, come quello della leggendaria All American Rhythm Section di Basie, Green, Page e Jones.

 In Topsy il primo chorus d’improvvisazione, liquido e astratto, si direbbe quanto di più lontano dallo stile di Basie: ne è invece un’affettuosa ricreazione quasi per rifrazione, come un oggetto noto visto attraverso un acquario.

 Topsy (Battle-Durham), da «Rare – But Well Done», [Liberty] EMI Japan TOCJ 50022. Jimmy Rowles, piano; Red Mitchell, contrabbasso; Art Mardigan, batteria. Registrato nel 1954.

 Lady Be Good (Gershwin-Gershwin), id.

venerdì 21 agosto 2020

Detour Ahead (Irene Kral)

 Ho un debole per le cantanti jazz bianche, in questo periodo in particolare per Irene Kral (1932-1078) che giudico la migliore interprete di questa stupenda canzone, che pure è stata cantata perfino da Billie Holiday.

 La Kral l’ha registrata più di una volta.

 Detour Ahead (Ellis-Frigo-Carter), da «The Band And I + Better Than Anything», Solar 4569930. Irene Kral con Jack Wilson, piano; Jimmy Bond, contrabbasso; Bill Goodwin, batteria. Registrato nel 1962.

giovedì 20 agosto 2020

Chelsea Bridge – After The Rain (John Hicks, Cecil McBee, Elvin Jones)

 John Hicks & c. suonano Chelsea Bridge di Billy Strayhorn, che abbiamo ascoltato una settimana fa da Roland Hanna, il quale la eseguiva da solo e in spirito concertistico. Questo è un cosiddetto «supertrio», anzi powertrio (uff) e come tutti i superqualcosa è turgido, sovraccarico e prevaricante, ma per uno o due pezzi può anche andare, considerando che Elvin Jones e Cecil McBee sono due grandi e Hicks è un pianista che si fa ascoltare quasi sempre volentieri, di norma più come sideman che come leader. 

 Qui, data la compagnia, è in vena perfino più tyneriana del suo solito; Chelsea Bridge riceve un trattamento vigoroso e devotamente hard bop, vivace anche se un po’ sommario e che insomma non gli si addice troppo, soprattutto quando la ritmica passa dal tempo tagliato al 4/4. After The Rain di Coltrane, da Hicks te l’avevo fatta sentire anni fa (resta il post, la musica è svanita) in piano solo alla Maybeck Hall; qui l’esecuzione ne è doverosamente requisita da Elvin Jones.

 Chelsea Bridge (Ellington-Strayhorn), da «Power Trio», Novus 3115-2-N. John Hicks, piano; Cecil McBee, contrabbasso; Elvin Jones, batteria. Registrato nel novembre 1990.

  After The Rain (Coltrane), id.

mercoledì 19 agosto 2020

So What (Gerry Mulligan)

 So What non ha niente a che vedere con «Kind of Blue»; è una cosa di Gerry Mulligan men che ventitreenne ma già lanciatissimo, che una settimana prima di questa seduta di registrazione aveva partecipato all’ultima delle tre del Nonet di Miles Davis («Birth of The Cool»), nelle quale vennero incise fra altre una sua composizione, Rocker, e il suo arrangiamento di Darn That Dream.

 Per il tramite di Miles in absentia, dunque, questa So What ha un legame spurio con quella famosa di nove anni dopo; si tratta in realtà di un trasparente travisamento di Love Me Or Leave Me, di cui due anni dopo Mulligan darà una versione con il quartetto senza pianoforte

 Qui è orchestrata sommariamente per un ottetto dalla composizione bislacca, con front line di tre sax e due tromboni, che sono poi Jay & Kai. Ma l’head è solo pretesto a un vivace scambio di fours fra Gerry e Zoot Sims.

 So What (Mulligan), da «Conception», Prestige UCCO-5213. JJ Johnson, Kai Winding, trombone; Charlie Kennedy, sax alto; Zoot Sims, sax tenore; Gerry Mulligan, sax baritono; Tony Aless, piano; Chubby Jackson, contrabbasso; Don Lamond, batteria. Registrato il 15 marzo 1950.

martedì 18 agosto 2020

She Rote (Charlie Parker)

 Mi piace anche ogni tanto pubblicare qualcosa che non abbia necessità di presentazione; in realtà non c’è musica che abbia bisogno di essere preceduta da parole, figuriamoci quindi questo pezzo notissimo di Charlie Parker, fra gli ultimi che Bird registrò con Miles Davis, che all’epoca (1951) già non era più un membro del suo quintetto.

 Una cosa però c’è da dire, uno scrupolo filologico. Si è ripetuto per anni che She Rote fosse un contraffatto di Out of Nowhere, canzone amata dai bopper, ma all’orecchio attento non sfugge come la simiglianza si limiti alle prime otto battute. 

 In realtà, come hanno più di recente confermato anche autorevoli studiosi parkeriani come Porter (Bob) e Koch, Bird qui riesumò la sequenza armonica di una canzone popolare una ventina d’anni prima, Beyond The Blue Horizon, che fu cantata da Jeannette MacDonald nel film Monte Carlo di Ernst Lubitsch, del 1930. Del resto, Parker eseguì spesso Out Of Nowhere ma mai nella tonalità di si bemolle maggiore, quella appunto di Beyond e di She Rote.

 Come altre volte, Bird apre e chiude i chorus d’improvvisazione con otto battute di un sardonico, lievemente sibillino unisono di sax e tromba su un pedale si si bemolle.

 She Rote (Parker), da «The Complete Charlie Parker On Verve», Verve 983 3382. Miles Davis, tromba; Charlie Parker, sax alto; Walter Bishop Jr, piano; Teddy Kotick, contrabbasso; Max Roach, batteria. Registrato il 17 gennaio 1951.

lunedì 17 agosto 2020

They Can’t Take That Away From Me – I Got A Crush On You (Joe Bushkin)

 Ieri ti ho fatto sentire (in realtà non l’ha ascoltato quasi nessuno, shame on you) Jess Stacy, oggi un altro pianista bianco della generazione pre-moderna, Joe Bushkin (1916-2004). 

 Bushkin cominciò giovanissimo con Bunny Berigan, poi fu con Tommy Dorsey e in seguito lavorò con Louis Armstrong, Benny Goodman e un sacco d’altri, anche fuori dal jazz. Era un pianista di grande facilità tecnica, in qualche modo a mezza strada fra Teddy Wilson e Al Haig, che metteva la piacevolezza sopra ogni cosa, com’è evidente in questo live del 1964 in cui Bushkin, con una ritmica di ottimo livello e costantemente defilata, si mostra premuroso prima d’ogni altra cosa del plauso del pubblico. Va riconosciuto che quel plauso se lo merita, il pianista e improvvisatore rifinitissimo che era, sia pure in un ambito che eccede di poco il cocktail piano e a volte per niente affatto (in I Can’t Get Started, che qui non senti, dà buona prova di sé anche come trombettista)

 Burt Bacharach da ragazzo ebbe la scelta fra prendere lezione da Teddy Wilson o da Joe Bushkin.  Scelse Bushkin, sa D*o perchè. Nella sua autobiografia, Anyone Who Had a Heart: My Life and Music, Bacharach racconta che dal Bushkin non ricevette mai una vera lezione di pianoforte; piuttosto gli insegnò a rollare le canne e gli diede consigli sulla pratica del sesso orale – Bushkin era progredito da quando aveva scritto per Frank Sinatra, in «Oh, Look At Me Now»: I never knew the technique of kissing

 They Can’t Take That Away From Me (Gershwin), da «Joe Bushkin In Concert - Town Hall», [Reprise] WEA WPCR-27430. Joe Bushkin, piano; Chuck Wayne, chitarra; Milt Hinton, contrabbasso; Ed Shaughnessy, batteria. registrato nel marzo 1964.

 I Got A Crush On You (Gershwin), id.

domenica 16 agosto 2020

Candlelights – A Good Man Is Hard To Find (Jess Stacy)

 Dei pianisti bianchi di epoca premoderna e di qualche distinzione – Johnny Guarnieri, Joe Sullivan, Art Hodes, Joe BushkinMel PowellJess Stacy (1904-1995) non fu l’ultimo. La sua testimonianza discografica più famosa è l’etereo, lievemente surreale assolo che prese in Sing, Sing, Sing nel concerto di Benny Goodman alla Carnegie Hall nel 1938

 Te lo presento qui, colto due giorni dopo quel concerto, in Candlelights, una delle piccole fantasie pianistiche debussyane di Bix Beiderbecke, e poi, l’anno dopo, con una bella formazione tutta bianca in un altro pezzo legato al nome di Bix.

 Candlelights (Beiderbecke), da «Jess Stacy 1935-1939», Classics 795. Jess Stacy, piano. Registrato il 18 gennaio 1938.

 A Good Man Is Hard To Find (Green), ib. Stacy con Billy Butterfield, tromba; Les Jenkins, trombone; Irving Fazola, clarinetto; Eddie Miller, sax tenore; Sid Weiss, contrabbasso; Don Carter, batteria. Registrato il 26 settembre 1939.