lunedì 4 novembre 2019

A Happy Frame Of Mind (Booker Ervin)


  Se dovessi dire un nome solo per significare quello che io intendo per «hard bop», io farei quello di Booker Ervin, di cui negli anni ho scritto diverse volte qui su Jazz nel pomeriggio, applicandogli aggettivi arbitrarî, forse anche un po’ sconsiderati come «coriaceo» e «gladiatorio». Era in realtà un saxofonista capace di molte sottigliezze musicali  ma sempre di espressione segnatamente terragna, esplicita, non incline alle mezze tinte come sono stati invece altri eroi del sax tenore dell’epoca quali, per dirne due diversissimi fra loro, Hank Mobley e Wayne Shorter. 

  Booker era diretto e in your face fin dalla sonorità asciutta, senza vibrato, legnosa e pure tornita a suo modo. Qui è nel 1963 in compagnia squisitamente Blue Note.

  A Happy Frame Of Mind (Ervin), da «Back From The Gig», Blue Note BN-LA488-H2. Johnny Coles, tromba; Booker Ervin, sax tenore; Grant Green, chitarra; Horace Parlan, piano; Butch Warren, contrabbasso; Billy Higgins, batteria. Registrato il 15 febraio 1963.


domenica 3 novembre 2019

Solitude (Sonny Rollins)


  Qui senti la creatività più pura e vorrei dire sfrenata a partire dalla forma la più tradizionale, la famosissima, suonatissima canzone di Duke Ellington. Fantasia, libertà, interplay autentico e non meccanico, impulso ritmico (swing) che non viene meno per un momento entro la più grande fluidità agogica: siamo in tutti i sensi ai piani alti del jazz e della musica improvvisata. 

  Solitude (Duke Ellington), da «Sonny Rollins Quartet With Don Cherry. Complete Live At The Village Gate 1962», Solar Records. Don Cherry, cornetta; Sonny Rollins, sax tenore; Bob Cranshaw, contrabbasso; Billy Higgins, batteria. Registrato nel luglio 1962.

giovedì 17 ottobre 2019

Flutist With Hat And Shoe – Ankunft (Gebhard Ullmann)


  Microtoni, scale non temperate, altezze fuori dal quadro di riferimento dell’orecchio occidentale: compositori e improvvisatori vi trafficano da tempo con alterni risultati e qui negli anni te ne ho fornito istanza del Rova Saxophone Quartet con Terry Riley e di Don Ellis, che addirittura aveva provvisto la sua sezione trombe di strumenti con il quarto pistone per l’esecuzione agevole dei quarti di tono.

  Fra chi a queste fumisterie si è dedicato con più costanza e con i risultati migliori io novero il tedesco Gebhard Ullmann, che l’ha fatto oltretutto  senza allontanarsi dalla sfera espressiva e ritmica del jazz, e Ullmann ha poi una bella sonorità di tenore, ricca e inflessa, pienamente jazzistica. Qui lo senti in due pezzi, il primo dei quali è una sua composizione che già ti ho presentato tempo fa; suo complice in queste scorrerie che sfidano la nostra comune percezione dei rapporti intervallari e della tonalità è il pianista Hans Lüdemann, che suona uno strumento appositamente accordato e uno strumento elettronico. 

  Laddove spesso questi esperimenti microtonali (di cui fu pioniere il saxofonista Joe Maneri) danno all’orecchio ingenuo l’impressione di sgradevoli stonature, qui le «note fra le note» cadono con naturalezza.

  Flutist With Hat And Shoe (Ullmann), da «MikroPULS», INT 34482. Gebhard Ullmann, sax tenore; Hans Lüdermann, piano e tastiere; Oliver Potratz, contrabbasso; Eric Schaefer, batteria. Registrato nel giugno 2017.

  Ankunft (Ullmann), id.

mercoledì 16 ottobre 2019

Handful Of Keys (Jason Moran)


  Jason Moran nel 2014 interpreta Handful Of Keys di Fats Waller, aggiungendovi qualcosa e togliendo quanto laggiunta non arriva a compensare, o almeno così pare a me. Dopo il primo minuto Moran comincia a sovrapporre un’altra parte di piano e verso la metà dell’esecuzione interviene un minaccioso disturbo sonoro, tipo un rombo di jet.

  Pettegolezzo: nelle note di copertina Jason Moran ringrazia tutti, come ormai nei dischi usa fare, dai famigliari antenati compresi al personale della casa discografica e, naturalmente, ai musicisti che suonano nel disco. Fra costoro cè «Stephen» Lehman, che mi figuro sia il noto Steve Lehman: è l’unico a non essere ricordato nei ringraziamenti.

  Handful Of Keys (Waller), da «All Rise. A Joyful Elegy For Fats Waller», Blue Note B001926102. Jason Moran, piano. Registrato nel 2014.

martedì 15 ottobre 2019

Nice Question (Gil Mellé) RELOAD

Reload dal primo giugno 2011.  

  È strano come negli anni Cinquanta certe cose apparissero progressive o addirittura avanguardistiche: Gil Mellé, per esempio. Sentilo qui (1956): musica elegante, piacevole e ingegnosa, figlia di due strani compagni di letto, i quartetti e sestetti di Mulligan e i gruppi di George Russell, senza avere la qualità amarognola e la sottile clownerie dei primi né la radicalità fra sardonica e asettica dei secondi. Bella musica, però, composta con attenzione, in un’epoca (se ricordi anche quanto ho pubblicato dei jazz workshop mingusiani) in cui si dava peso alla composizione. Ma la spinta in avanti al jazz, alla fine di quel decennio, l’avrebbero data gli improvvisatori, e una volta di più, come sempre nel jazz, la novità sarebbe venuta dal ritmo prima che da ogni altra cosa – e da musicisti neri.

  Gil Mellé mi sembra molto interessante come strumentista: prossimo a Serge Chaloff più che a Mulligan, con una sonorità sabbiosa, peculiari distorsioni sonore (tongue fluttering) e perfino premonizioni dei sheet of sound di Coltrane.

  Nice Question (Mellé), da «Patterns of Jazz», Blue Note 9581. Gil Mellé, sax baritono; Joe Cinderella, chitarra; Oscar Pettiford, contrabbasso; Ed Thigpen, batteria. Registrato il primo aprile 1956.

lunedì 14 ottobre 2019

San Francisco Holiday – Crepuscule With Nellie – Off Minor (Alexander von Schilppenbach)


  Ecco l’interpretazione data da nel 2003 da Alexander von Schlippenbach di San Francisco Holiday di Monk, a confronto diretto con quella data da Frank Kimbrough quindici anni dopo e presentata qui stesso tre giorni fa. Per buon peso, vista la brevità delle esecuzioni, aggiungo Crespuscule With Nellie e Off Minor.

  Elaboro quanto dicevo nel post correlato: le versioni monkiane dei tedeschi sono più soddisfacenti di quelle del quartetto americano perché più disinvolte e più vivaci ritmicamente e timbricamente. Sono in quintetto, con frontline di tromba e clarinetto basso che improvvisano spesso in simultanea, o che enunciano il tema in discanto. Inoltre, in persona, il complesso non impiegava amplificazione alcuna, generando così un suono asciutto e caldo che appariva spontaneamente «d’epoca», anche per un certo scrupolo filologico della sezione ritmica, dove Ulli Jennessen sembrava ispirarsi a Shadow Wilson.

  Giova infatti ricordare che quella tedesca era una working band, che per alcuni anni portò in giro il progetto «Monks Casino», eseguendo in una serata, ovviamente in scorcio come qui, tutte le composizioni di Monk. Rispetto ai dischi di Frank Kimbrough, qui è esplicito il valore di macrotesto dell'impresa – molto tedesca, devo dire, nella sua spropositatezza – e per conseguenza è più rilevato il lavoro di gruppo.

  Datosi che l’interpretazione della musica di Monk è un tema carsico del blog, su questo confronto (Kimbrough vs. von Schlippenbach) gradirei la tua opinione.

  San Francisco Holiday (Monk), da «Monk’s Casino», Intakt 100. Axel Dörner, tromba; Rudi Mahall, clarinetto basso; Alexander von Schlippenbach, piano; Jan Roder, contrabbasso; Ulli Jennessen, batteria. Registrato nel giugno 2003.


  Off Minor (Monk), id.

venerdì 11 ottobre 2019

San Francisco Holiday (Frank Kimbrough)


  Ieri sarebbe stato il centoduesimo compleanno di Thelonious Monk. Lo festeggiamo sfasato con questa sua composizione non delle più note, che s’inizia con un obbligato di batteria, come tante composizioni di Herbie Nichols: e un po’ a me Herbie Nichols ricorda.

  La esegue un quartetto con il quale Frank Kimbrough ha inciso poco tempo fa tutte le composizioni di Monk, così come fece una quindicina di anni fa Alexander von Schlippenbach in «Monk’s Casino». Le  interpretazioni di von Schlippenbach, che ascoltai anche dal vivo a Novara, le ho trovate decisamente più interessanti e monkiane in ispirito di queste, che sono giusto corrette (dirò anche che Scott Robinson qui mi piace poco).

  La versione d’autore di riferimento per questo pezzo, con il titolo completo San Francisco Holiday (Worry Later) è una ripresa dal vivo al Blackhawk di San Francisco mi pare nel 1959, con il quartetto di Monk più Harold Land e con Billy Higgins alla batteria, il quale scandisce l’intro summentovata in even eights e non in tempo di marcia, come fa qui Billy Drummond.

  San Francisco Holiday (Monk), da «Monk’s Dreams», Sunnyside 4032. Scott Robinson, sax tenore; Frank Kimbrough, piano; Rufus Reid, contrabbasso; Billy Drummond, batteria. Registrato il 23 maggio 2018.

giovedì 10 ottobre 2019

Call of the Delta (Buster Bailey and His Seven Chocolate Dandies) RELOADED

Reload dal 19 giugno 2010. A quasi dieci anni dalla pubblicazione originale, mi pare che il mio commento sulla diffusa ignoranza del jazz prebellico rimanga valido.

  Una formazione medio-piccola di studio a nome di Buster Bailey che nel 1934 ha riunito nella front line quattro grandi del jazz classico nessuno dei quali, oggi, noto come merita all’ascoltatore medio del jazz, ammesso che un’entità simile esista.

  L’interessante composizione di Bailey è impreziosita dall’arrangiamento di Fletcher Henderson, nientemeno, ma la gemma del pezzo è sicuramente l’assolo di Red Allen, forse l’unico trombettista che in quegli anni potesse tenere testa ad Armstrong.

  Call of the Delta (Bailey), da «Swing Street», TAX S-9-2. Henry «Red» Allen, tromba; J. C. Higginbotham, trombone; Buster Bailey, clarinetto; Benny Carter, sax alto; Charlie Beal, piano; Danny Barker, chitarra; Elmer Jones, contrabbasso; Walter Johnson, batteria; Fletcher Henderson, arrangiamento. Registrato il 28 dicembre 1934.

mercoledì 9 ottobre 2019

The Seagulls Of Kristiansund (Mal Waldron)

  Il titolo di questo disco, con i connotati marini e il riferimento a una città della Norvegia, autorizza a immaginare un disco di jazz scandinavo, magari di marca ECM. Si tratta invece di una all stars impressionante a leggerne i nomi, ripresa dal vivo al Village Vanguard di New York nel 1986 sotto la direzione di Mal Waldron, autore della scheletrica composizione, se così possa dirsi; in realtà è appena uno spunto svolto in carattere, più ancora che  nordico o malinconico, decisamente funebre (anche se in un paio di momenti in pedana si ridacchia). 

  Tuttavia di cose ne succedono, specialmente per opera di Reggie Workman e non solo perché fa il verso ai gabbiani titolari, e insomma non ci si annoia, benché l’esecuzione sfiori la mezz’ora. È fra l'altro una delle poche occasioni che ci si diano per ascoltare Charlie Rouse post Monk.


  The Seagulls Of Kristiansund (Waldron), da «The Seagulls Of Kristiansund», Soul Note. Woody Shaw, tromba; Charlie Rouse, sax tenore; Mal Waldron, piano; Reggie Workman, contrabbasso; Ed Blackwell, batteria. Registrato il 16 settembre 1986.

lunedì 7 ottobre 2019

Confirmation (Charlie Parker)


  Confirmation è una delle composizioni più famose di Charlie Parker e a mio parere è anche la più bella. In forma AABA, il tempo è al più un medium fast ma la sequenza armonica, sotto un melodia attorta, è impegnativa per l’improvvisatore, che è messo a cimento, nell’head cioè nelle prime otto battute, dal dover costruire un linea filante su una serie discendente di successioni II-V-I dalla tonica alla sottodominante (batt. 1-4), e da lì (batt. 5-8) di nuovo alla tonica.

  Anche il suo compositore doveva giudicare Confirmation piuttosto impervia: la incise in studio una volta sola, per la Verve, ed è la versione che ascolti oggi. Tutte le altre sue versioni note sono dal vivo, e tutte, a eccezione di quella della Carnegie Hall del 1947 con la ritmica della big band di Dizzy, impiegano il quintetto regolare di Parker.

  Questa versione, che nell’integrale è preceduta da due false partenze, è stupenda, come il resto dei pezzi creati in quella seduta (fra l’altro un brillante Now’s The Time). A momenti, per esempio da 00:50 a 00:57, pare di sentire Eric Dolphy con dieci anni d’anticipo.

  Confirmation (Parker), da «The Complete Charlie Parker On Verve», Verve 983 3382. Charlie Parker, sax alto; Al Haig, piano; Percy Heath, contrabbasso; Max Roach, batteria. Registrato il 30 luglio 1953.

sabato 5 ottobre 2019

Take the «A» Train (Shelly Manne) RELOADED

Reload dal 21 settembre 2011.  

  Con la batteria del leader in primissimo piano, Take the «A Train» viene contratta e stirata in almeno quattro tempi diversi: quello scorciato e parodico della notissima intro e outro, quello dell’assolo a locked hands di Hank Jones, umoristico e quasi grottesco, quello uptempo degli assoli di Coleman Hawkins e George Duvivier e quello strascinato della ripresa.

  In tutto ciò, Shelly Manne divide il tempo e lo colora in un’infinità di maniere diverse senza mai allentare le redini della pulsazione, quando serve anche tacendo: il batterista impareggiabile che era.

  Take the «A» Train (Strayhorn), da «2 3 4», Impulse/Analogue Productions CIPJ 20 SA. Coleman Hawkins, sax tenore; Hank Jones, piano; George Duvivier, contrabbasso; Shelly Manne, batteria. Registrato nel febbraio 1962.

giovedì 3 ottobre 2019

The Second Time Around – Drag ’Em Out (Shirley Scott)


  Shirley Scott è una dei miei organisti preferiti, il che non è dire molto perché l’organo nel jazz mi piace poco; mi pesa sulle orecchie, mi frastorna, sovente mi annoia e mi dispiace e mi rende dispiacevole e noioso di riflesso. Shirley non frastornava, se non altro, e riusciva tuttavia, alla necessità, a esprimere uno swing bruciante. 

  Qui, per disdegnoso gusto, te la presento prima in un pezzo veramente cheesy, del genere che gradisco soltanto allorché, per meglio addormentarmi, lascio accesa la radio sul comodino e mi auguro che ne fuoriesca appunto una melassa narcotica come questa esecuzione di The Second Time Around (l’organo Hammond, infatti, quando non batta i timpani come testa di martello, evoca il luna park ovvero réclame di tisane).

  Poi te la faccio sentire nel blues, dove le cose vanno un po’ meglio, sebbene direi che anche qui vi sia piuttosto da dormire, se non quando Major Holley prende un assolo alla sua maniera, con l’arco e raddoppiando dalle voce all’unisono. Quella maniera era ispirata a Slam Stewart, che il contrabbasso raddoppiava all’ottava superiore.

  The Second Time Around (Cahn-Van Heusen), da «Drag Em Out», Prestige PR 7305. Shirley Scott, organo; Major Holley, contrabbasso; Roy Brooks, batteria. Registrato il 27 maggio 1963.

  Drag ‘Em Out (Scott), id.

martedì 1 ottobre 2019

Celebration – Angel Eyes (Joe Bonner)


  Joe Bonner (1948-2014), pianista, si è illustrato come sideman soprattutto in parecchi dischi di Pharoah Sanders lungo tutti gli anni Settanta, poi, su disco, con Woody Shaw, Richard Davis e Billy Harper, fra gli altri. Qui negli anni te l’ho fatto sentire con Davis e Harper, in due dischi che lo mettono in luce come discepolo non pedissequo, anzi estroso e colorito, di McCoy Tyner. Bonner era a suo completo agio – teste la lunga collaborazione con Sanders – in quella corrente che nei primi anni Settanta si volle etichettare di spiritual jazz e in questo disco inciso fra il 1974 e il ’76 lo si sente bene, anche nelle sue dichiarazioni nelle note di copertina.

  Te ne faccio ascoltare due pezzi. Il primo, Celebration, è tipicissimo di quella temperie e conosce una climax impetuosa che culmina, verso il settimo minuto, in un’apice informale, diciamo free. Sentiamo Billy Harper e Leroy Jenkins in un ruolo per lui poco consueto. Un tocco molto d’epoca è dato dal canto di Linda/Lynda Sharrock, che io, almeno qui, trovo orribile e antimusicale per giunta. 

  Angel Eyes è la nota canzone, affrontata da Bonner in solitudine con piglio bluesy e powelliano. Versione bellissima.

  Celebration (Bonner), da «Angel Eyes», Muse MR 5114. Billy Harper, sax tenore; Leroy Jenkins, violino; Joe Bonner, piano; Juni Booth, contrabbasso; Jimmy Hopps, batteria; canta Linda Sharrock. Registrato nel gennaio 1976.

  Angel Eyes (Dennis), ib. Bonner, piano. Registrato nellottobre 1974.

domenica 29 settembre 2019

The Muted Melody (Keith Tippett)

  Tour de force, o studio, di Keith Tippett in questo maestoso disco da poco ristampato. La melodia, non che muted, sommessa, può dirsi inesistente, o forse no. Nell'ultimo mezzo minuto, il piano è preparato con un pezzo di legno.

  The Muted Melody (Tippett), da «The Unlonely Raindancer», Discus 81CD. Keith Tippett, piano. Registrato il 21 aprile 1979.

sabato 28 settembre 2019

I Cover The Waterfront (Woody Herman)


 «I Cover The Waterfront» è una bellissima canzone del 1933 di Johnny Green ed Edward Heyman; è stato uno standard ma non so se lo si possa ancora dire tale, perché mi pare che pochi lo suonino più. 

  A dire il vero, stando alle parole dell’annunciatore di questa esecuzione del Second herd di Woody Herman (è l’orchestra dei Four Brothers), la canzone doveva essere alquanto démodé già in quel 1948. L’arrangiamento è di Ralph Burns e il lead è eseguito al sax alto da Woody stesso, nella sua vena hodgesiana.

  I Cover the Waterfront (Green-Heyman), da «Woody Herman ‘Live’ With The First And Second Herds», Mr. Music MMCD-7021. Woody Herman Orchestra: Stan Fishelson, Bernie Glow, Marky Markowitz, Shorty Rogers, tromba; Earl Swope, Ollie Wilson, trombone; Bob Swift, trombone basso; Woody Herman, Sam Marowitz, sax alto; Al Cohn, Stan Getz, Zoot Sims, sax tenore; Serge Chaloff, sax baritono; Fred Otis, piano; Jimmy Raney, chitarra; Walt Yoder, contrabbasso; Don Lamond, batteria. Registrato il 7 marzo 1948.


venerdì 27 settembre 2019

Jitterbug Waltz (Woody Shaw & Anthony Braxton)


  Anthony Braxton ha registrato diversi dischi di standard, progressivamente più strani e incomprensibili, a mio sommesso parere. 

  Ma eccolo nel 1977, con Woody Shaw e Muhal, e con il clarinetto, strumento che ha sempre suscitato i suoi estri più quieti.

Jitterbug Waltz (Waller), da «Iron Man», Muse MR 5160. Woody Shaw, cornetta; Anthony Braxton, clarinetto; Muhal Richard Abrams, piano; Cecil McBee, contrabbasso; Victor Lewis, batteria. Registrato nell’aprile 1977.

giovedì 26 settembre 2019

Bogalousa Strut – Steppin’ On The Gas – Everybody’s Talking About Sammy (Sam Morgan)


  Ieri ho ricordato Sam Morgan parlando di Jimmie Noone, e l’ho detto «misconosciuto», che insieme con «sottovalutato» è l’aggettivo del cuore dagli appassionati di jazz che scrivono sull’internet: quando parlano di un loro amore, fosse anche John Coltrane o Coleman Hawkins, questi è infallibilmente «sottovalutato», quasi lo riportassero loro alla luce in quel momento.

  Sam Morgan (New Orleans, 1895-1936) sottovalutato, anzi, misconosciuto lo è davvero e lo è a vero dire sempre stato, ma per buona parte è sua colpa: fu fra fra i pochi musicisti di valore che decisero di restare a New Orleans anziché trasferirsi sulle più prospere e ricche di futuro piazze musicali di Chicago e di New York. 

  Eppure le non tante matrici che incise per la Columbia con la sua band nel 1927 sono entusiasmanti; già è d’interesse l’organico, con due trombe e due saxofoni e il contrabasso in luogo del basso tuba, ma quello che più mi ha colpito la prima volta che le ho sentite è la scansione in 4, incalzante ed elastica, favorita appunto dall’uso del basso a corde: moderna. 

  Secondo lo storico Samuel Charters, gli otto pezzi della Sam Morgan Band sono le sole registrazioni che un complesso di New Orleans di prima classe e in piena forma abbia registrato negli anni Venti in quella città. Sull’effetto particolare che la strumentazione della band, con due cornette, due sax e trombone, sortisce sulla musica, ti invito a leggere quanto ne ha scritto in Early Jazz Gunther Schuller, che parla di «effetto quasi tridimensionale».

  Bogalousa Strut (Morgan), da «Oscar “Papa” Celestin / Sam Morgan. Recorded In New Orleans 1925-1928. The Complete Recordings», Jazz Oracle BDW 8002. Sam Morgan, Isaiah Morgan, cornetta; Jim Robinson, trombone; Earl Fouche, sax alto; Andrew Morgan, clarinetto e sax tenore; Tink Baptiste, piano; Johnny Dave, banjo; Sidney Brown, contrabbasso; Nolan Williams, batteria. Registrato nel 1927.

  Steppin’ On The Gas (Morgan), id.


mercoledì 25 settembre 2019

Apex Blues – A Monday Date – Sweet Lorraine (Jimmie Noone)


  Riapre Jazz nel pomeriggio, e vediamo per quanto, stavolta. Ma ormai si sarà capito che, pur in modo sussultorio, il mio affetto per questo blog è costante, almeno finché ci sarà chi ha voglia di ascoltare e di leggere.
  
  Si ricomincia con un musicista importante e qui inspiegabilmente trascurato, Jimmie Noone (New Orleans, 1895 - Los Angeles, 1944). 

  Come tanti musicisti ante-1945 che non siano proprio un Louis Armstrong o un Duke Ellington, anche Noone oggi è per gli appassionati «non specialisti» un puro nome, quando pure lo sia, e ciò malgrado sia stato uno dei clarinettisti preclari di New Orleans, dove suonò con bandleader leggendari come Freddie Keppard e Buddy Petit prima di trasferirsi, come tanti musicisti del Delta, a Chicago (lui vi arrivò con King Oliver nel 1918). 

  Dal 1926 ebbe una sua band all’Apex Club, locale al 330 della Trentacinquesima Est, chiuso nel 1930 in un raid proibizionista. Il complessino, che incise dischi per la Brunswick, la Vocalion e la Decca, presentava la singolarità di una frontline con clarinetto e sax alto, ma va ricordato che a New Orleans, negli stessi anni, il misconosciuto Sam Morgan sperimentava con un organico simile, più la tromba, e con un moderno contrabbasso al posto del basso tuba mantenuto invece da Noone; comunque i dischi di Noone influenzarono moltissimi clarinettisti, primo fra tutti Benny Goodman (che con Noone condivise anche un insegnante tedesco, Franz Schoepp) e furono un template per molti piccoli gruppi del primo Swing. Nel 1928, pianista della formazione fu Earl Hines. Due mesi prima di questa seduta, Hines aveva inciso con Armstrong West End Blues e Weather Bird, reinventando il pianoforte jazz. In Sweet Lorraine, con un assolo mozzafiato, si appropria dell’esecuzione.

  Apex Blues (Noone), da «Jimmie Noone. Apex Blues, The Original Decca Recordings Featuring Earl Hines», Decca Jazz-GRP Records. Jimmie Noone, clarinetto; Joe Poston, sax alto; Earl Hines, piano; Buddy Scott, banjo; Lawson Buford, tuba; Johnny Wells, batteria. Registrato il 23 agosto 1928.

  A Monday Date (Hines), id.

  Sweet Lorraine (Burwell-Parrish), id.

martedì 4 giugno 2019

The Way You Look Tonight - Park Avenue Petite (Blue Mitchell)


   L’hard bop di Richard Allen «Blue» Mitchell, che fu fra l’altro il quintessenziale trombettista silveriano, era distinto da un gusto melodico di grazia insolita, quasi delicata, pur senza che mancasse in nulla di nerbo e in funkiness; in questo mi ricorda il suo mentore Cannonball Adderley, originario come lui della Florida. 

  Questo disco Riverside del 1959 è una meraviglia e mette questa sua qualità nella luce migliore, particolarmente nelle due esecuzioni che ti presento, in cui fa una splendida figura Wynton Kelly. Anche Kelly a un solido impianto bluesy coniugava un’eleganza infallibile .

  The Way You Look Tonight (Fields-Kern), da «Blue Soul», Riverside RCD 30508. Blue Mitchell, tromba; Wynton Kelly, piano; Sam Jones, contrabbasso; Philly Joe Jones, batteria. Registrato nel settembre 1959.

  Park Avenue Petite (Golson), id.

giovedì 2 maggio 2019

A Portrait of Robert Thompson (as a Young Man) (Archie Shepp)


  Archie Shepp è una figura importante del jazz degli ultimi cinquanta e rotti anni e questo nessuno vorrà metterlo in dubbio: dischi come «New Thing at Newport», «On This Night»«Fire Music», «The Way Ahead», «Four for Trane», «Mama Too Tight», «Kwanza», «Attica Blues» non dovrebbe ignorarli chi voglia avere un’idea del jazz dell’ultimo mezzo secolo.

  Sempre consapevole delleredità del jazz a lui precedente (e del blues, e del r’n’b), a cominciare già dalla metà degli anni Sessanta Shepp ha frequentato il repertorio del jazz classico e ha reso esplicito il suo amore e il suo debito per i forefathers, primo fra tutti Duke Ellington, al punto che oggi, quando lo si ricorda, è il più delle volte come una sorta di rivoluzionario che è tornato sui suoi passi, quasi avesse qualcosa da farsi perdonare.

  In quella veste l’ho presentato anche qui, una volta addirittura intento a The Girl of Ipanema, e per questo, oggi, te lo propongo invece nella sua veste più scostante di freeman fegatoso in questo disco del 1966. Peraltro, la furia cacofonica dura fin verso l’ottavo minuto di A Portrait per includere poi delle apparizioni mantrugiate di Prelude to a Kiss e di due altre melodie popolari, The Break Strain-King Cotton e la marcia Dem Basses.

  A Portrait of Robert Thompson (as a Young Man) (Shepp), da «Mama Too Tight», Impulse! 051 248-2. Tommy Turrentine, tromba; Roswell Rudd, Grachan Moncur III, trombone; Perry Robinson, clarinetto; Archie Shepp, sax tenore; Howard Johnson, tuba; Charlie Haden, contrabbasso; Beaver Harris, batteria. Registrato il 19 agosto 1966.

mercoledì 1 maggio 2019

A Blooming Bloodfruit in a Hoodie (Ambrose Akinmusire)


  Su Jazz nel pomeriggio cerco di pubblicare sempre articolini magari molto succinti ma completi in sé, o se no solo musica, quando giudico che essa non richieda commento. 

  Più raramente adopero il blog per raccogliere appunti o promemoria per me stesso; è il caso di quest’oggi e un po’ m’inquieta che si dia per la seconda volta con un musicista che da una parte m’interessa, dall’altra in qualche modo scoraggia o rende arduo il mio ascolto. Qui, per esempio, c’è un rapper o forse spoken word artist, non so bene, che mi risulta deterrente o comunque mi disturba all’interno di un concetto musicale che mi appare viceversa personale e affascinante. È un memento a me stesso che il piacere immediato (cioè, a dirla chiara, il piacere del riconoscimento) non è che una parte del godimento estetico, quando non vi sia addirittura di ostacolo.

  Questa musica mi richiederebbe di scriverne qualcosa, di rifletterci. Prometto a me stesso di tornarci sopra, intanto qui sotto dica la propria chi si senta di farlo. Ambrose Akinmusire.

 A Blooming Bloodfruit in a Hoodie (Aalberg), da «Origami Harvest», Blue Note B002866202. Ambrose Akinmusire, tromba, tastiere; Sam Harris, piano; Marcus Gilmore, contrabbasso; quartetto d’archi MIVOS Quartet; Kool A.D., rap. Registrato il 16 febbraio 2017.

giovedì 25 aprile 2019

My Old Flame (Eddie «Lockjaw» Davis) RELOAD

Reload dal 10 dicembre 2015. Buon 25 aprile!

  Non so, ovviamente, che cosa passasse per la testa di Eddie Davis quel giorno del 1958, ma alle mie orecchie questa sua esecuzione di My Old Flame suona omaggio devoto a Don Byas: come nelle interpretazioni delle ballad di quell’altro grande sax tenore, l’esposizione del tema si stempera nell’improvvisazione per il tramite di un’ornamentazione (e di note di passaggio, di volta, di appoggiature etc) che l’avvolge come una vegetazione invasiva e armonicamente divagante.

  L’assolo di Shirley Scott ha un drive, un punch e insomma un’espressività fantastica. Come invece credo di avere già osservato presentando un altro pezzo dai «Cookbook», il flauto qui ci sta come la panna sulle cozze, e non perché Jerome Richardson non fosse bravo.

  My Old Flame (Johnston-Coslow), da «Cookbook Volume 3», [Prestige] OJCCD-756-2. Eddie «Lockjaw» Davis, sax tenore; Jerome Richardson, flauto; Shirley Scott, organo; George Duvivier, contrabbasso; Arthur Edgehill, batteria. Registrato il 15 dicembre 1958.

mercoledì 24 aprile 2019

Berlin Erfahrung – Rumi Tales (The Revolutionary Ensemble)

  Il Revolutionary Ensemble si presentò negli anni Settanta coma un precipitato cameristico della poetica chicagoana dell’AACM, di cui Leroy Jenkins faceva parte. Il gruppo fu attivo dal 1971 al ’77 e si riunì nel 2004 producendo anche questo disco (e forse altri), un po’ diffuso e non proprio emozionante; ma oggi mi andava di ricordarli. 

  Berlin Erfahrung (Sirone), da «And Now…», Pi Recordings 08713 00132. The Revolutionary Ensemble: Leroy Jenkins, violino; Sirone, contrabbasso; Jerome Cooper, «multi-dimensional drums». Registrato il 18 luglio 2004.

  Rumi Tales (Jenkins), id.

martedì 23 aprile 2019

Silence Is The Question – Boo-Wah – Silence Is The Question (The Bad Plus)


  Non mi sono accinto a questo blog, nel 2010, con l’idea che dovesse servire mai ad altro che a trovarmi la compagnia di qualche jazzofilo e a pungermi a scrivere qualche rigo tutti i giorni. Dopo quasi dieci anni, constato che una sua funzione, non dirò «utilità», l’ha svolta nel farmi riflettere su come una stessa musica mi dica nel tempo cose diverse, quando non smetta proprio di parlarmi, e anche come l’immagine che ho di me mi si rifletta, nella musica, cambiata. 

  Niente di nuovo, sicuro, ma, soprattutto da quando ho cominciato la pratica del reload con cui ti ripresento musiche pubblicate anni prima con il relativo commento as it was, mi sono trovato a rivedere opinioni che sul momento mi parevano, ed erano, solide e articolate. La revisione è stata per lo più nel senso dell’approfondimento o dell’ampliamento, laddove ho colto in una musica o in un musicista più di quanto non vi avessi sentito dapprima; altre volte qualche aspetto di quella musica mi è apparso diverso o di  qualità opposta, ed è successo anche (l’ultima volta pochi giorni fa con un disco di Dorothy Ashby) che una passata preferenza mi risultasse addirittura incomprensibile. 

  Ho sentito per la prima volta i Bad Plus nel 2002, quando erano nuovi e seguivo già da tre o quattro anni con molto interesse Ethan Iverson. Negli anni successivi mi capitò di ascoltarli più di una volta in persona, di scrivere di loro qui e là e anche di intervistarli per la rivista Musica Jazz nel 2005. Fu su Musica Jazz, se non ricordo male, che trovai un paragone alla loro musica in certa letteratura americana contemporanea, per un certo senso che l’una e l’altra mi comunicavano di «pericolo e disastro imminente»; pensavo in particolare a David Foster Wallace, all’epoca ancora vivo, a Jonathan Lethem, a Rick Moody…

  A mio giudizio, che non è cambiato negli anni, dopo il 2005 i BP hanno intrapreso una parabola discendente; in particolare Ethan Iverson si è mostrato via via sempre meno compatibile con quello che in fondo era sempre stato un progetto di Reid Anderson. Da ormai più di un anno Iverson ha lasciato il trio, a quanto pare con sollievo degli altri due membri oltreché proprio; Orrin Evans ha preso il suo posto e dei nuovi BP non so dirti niente perché non li ho sentiti.

  Dopo questi anni rileggo quanto ne ho scritto e riascolto le musiche dei Bad Plus che ho pubblicato su Jazz nel pomeriggio. Quella edge, quel margine rischioso, com’è naturale, non ce lo sento più, il senno di poi ne ha smussato gli spigoli, l’intraveduto disastro forse compiutosi per tutti. Oggi un disco come «These Are The Vistas» (2002), che forse li rappresenta meglio, per me ha un sapore molto «d’epoca» e mi dà la misura di come i primi anni Duemila siano per ogni verso lontani, e di come anch’io fossi in parte altruom da quel che sono.

  I primi due pezzi che ti propongo vengono da «These Are the Vistas»; Boo-Wah mostra un’affinità con il prog rock che all’epoca mi era sfuggita. Di Silence is the Question, una composizione di Anderson molto caratteristica del suo estro narcotico, segue una versione che il trio, per l’occasione aumentato da Joshua Redman, ha dato in uno dei suoi ultimi dischi nella formazione originale.

  Silence is the Question (Anderson), da «These Are The Vistas», Columbia CK 87040. The Bad Plus: Ethan Iverson, piano; Reid Anderson, contrabbasso; David King, batteria. Registrato nel settembre o ottobre 2002.

  Boo-Wah (Iverson), id.

  Silence is the Question, da «The Bad Plus & Joshua Redman», Nonesuch 548920-2. The Bad Plus, Joshua Redman, sax tenore. Registrato nel 2015.

domenica 21 aprile 2019

Royal Flush (Second Version) (Sonny Clark)


  Buona Pasqua!

  Royal Flush (Second Version) (Clark), da «My Conception», Blue Note 7243 5 22674 2 2. Donald Byrd, tromba; Hank Mobley, sax tenore; Sonny Clark, piano; Paul Chambers, contrabbasso; Art Blakey, batteria. Registrato il 29 marzo 1959.

venerdì 19 aprile 2019

Monk’s Mood (Thelonious Monk & John Coltrane)


  Che male ci potrà mai essere nel pubblicare per una volta una musica famosissima e perfettamente ovvia se essa musica è Monk’s Mood suonata da Thelonious Monk e John Coltrane?

  Monk’s Mood (Monk), da «Thelonious Monk Quartet with John Coltrane at Carnegie Hall», Blue Note. John Coltrane, sax tenore; Thelonious Monk, piano; Ahmed-Abdul Malik, contrabbasso; Shadow Wilson, batteria. Registrato il 29 novembre 1957.

giovedì 18 aprile 2019

Changing Keys – Monk’s Medley (Sullivan Fortner)


  Dopo Teddy Wilson due giorni fa, oggi un pianista jazz  che, a trentatré anni, cioè giovane per l’odierno standard, mi appare straordinariamente together: è Sullivan Fortner, dal vivaio inesauribile di New Orleans.

  Fortner, che si è dotato anche di una formazione classica prestigiosa (Oberlin Conservatory e MA alla Manhattan School of Music), si è affermato come sideman di Stefon Harris e di Roy Hargrove e, come puoi sentire, ha mezzi strumentali cospicui e un notevole senso della forma, nonché la maturità musicale e spirituale per affrontare non indegnamente le composizioni di Monk. Questo suo primo disco da titolare [NdR: non è il primo, v. commenti] è in trio, con Roy Hargrove ospite nella Monk Medley, ma Sullivan si dimostra ferrato anche nel piano solo, situazione che in tanti praticano senza sapere veramente come; in questo programma della Voice of America lo senti in quella veste e anche intervistato da Eric Felten. 

  Changing Keys [Wheel of Fortune Theme] (Griffin), da «Moments Preserved», Impulse! 6752301. Sullivan Fortner, piano; Ameen Saleem, contrabbasso; Jeremy «Bean» Clemmons, batteria. Registrato nel giugno 2017.

  Monk Medley [Monk’s Mood, Ask Me Now], ib. Fortner; Roy Hargrove, tromba.

martedì 16 aprile 2019

Oh, Lady Be Good – Air Mail Special – Nice Work If You Can Get It (Teddy Wilson)


  Teddy Wilson è il pianista di jazz che tutti i pianisti di jazz citano quando devono nominare i loro pianisti di jazz preferiti: l’hanno ricordato per tale Bill Evans e Lennie Tristano, Horace Silver, Cecil Taylor, Brad Mehldau e sicuramente molti altri prima e dopo. Capita che qualche originale esprima perplessità o peggio su Monk, trovi Earl Hines scomposto, Art Tatum eccessivo, James P. Johnson pesante, Bud Powell troppo drammatico, Evans svenevole, Jarrett magniloquente, Taylor insensato, ma che cosa c’è in Teddy Wilson che possa non piacere? 

  Messa così, uno potrebbe pensare a Teddy sito in un’aurea «middle of the road», sprovvisto di evidenti difetti come di pregi grandi, e invece il fascino eterno del suo pianismo è quello dell’equilibrio consentito da un dominio compiuto dello strumento e del linguaggio, è nella capacità di affrontare la musica con un vocabolario amplissimo (penso alla sua duttilità ritmica) al servizio di una sensibilità in realtà inquieta, incandescente. 

  Da questa raccolta dei primi anni Cinquanta scelgo praticamente a caso; mi limito ad attirare la tua attenzione su Air Mail Special, il classico goodmaniano del 1941 con la famosa armonia diminuita nel bridge, di cui la versione pianistica risulta una specie di controtipo in bianco e nero.

  Oh, Lady Be Good (G.-I. Gershwin), da «Intimate Listening», Verve UCCV-9616. Teddy Wilson, piano; John Simmons, contrabbasso; Buddy Rich, batteria. Registrato il 16 dicembre 1952.

  Air Mail Special (Goodman-Mundy-Christian), Wilson; Arvell Shaw, contrabbasso; J.C. Heard, batteria. Registrato il 4 settembre 1953.

  Nice Work If You Can Get It  (G.-I. Gershwin), id.

domenica 14 aprile 2019

Behind the 8 Ball - Song of the Universe (Baby Face Willette) RELOAD

Reload dal 14 dicembre 2012 

  Roosevelt «Baby Face» Willette (1933-1971), organista, ha una distinzione speciale e un po’ strana: sul mercato dei collezionisti, le cui quotazioni com’è noto non hanno a che vedere con i valori musicali, la stampa originale del suo primo Blue Note «Face to Face» (1961) è un pezzo ricercatissimo, il più raro dell’intero catalogo Blue Note e valutato di conseguenza.

  Figlio di un ministro e di una missionaria e originario non si sa se della Louisiana o dell’Arkansas, sparito nel nulla prima di morire a Chicago, come e più di altri musicisti meridionali Baby Face si formò nel seno musicale della chiesa metodista nera. Rispetto agli altri organisti che nell’ultimo paio di mesi abbiamo ascoltato insieme, Willette resta legato assai più alle sue radici gospel, tanto che, invertendo la relazione consueta, l’hard bop nella sua musica risulta più una spezia aggiunta che una base stilistica. La parte migliore della sua carriera si svolse sotto l’egida Blue Note, dove esordì in dischi di Lou Donaldson e Grant Green per firmare quindi tre LP a proprio nome con sidemen di lusso, fra cui proprio Green. Passò poi alla chicagoana Argo ed è qui che lo cogliamo noi oggi, nello scorcio finale del 1964.

  I dischi Argo di Willette, meno noti dei Blue Note e pour cause, sono tuttavia particolarmente interessanti. Il loro suono – intendo la qualità della ripresa sonora – è più grezzo e quasi crudo rispetto alle alchimie vangelderiane, lo spazio è compresso e questo si addice bene alla musica di Willette del periodo, che a confronto con quella dei contemporanei colleghi di strumento ha una dimensione di secchezza, quasi di violenza, che mi ha evocato l’aggettivo «punk». Behind the 8 Ball è infatti nient’altro che rock’n’roll; Song of the Universe, con il precedente il solo altro original del disco, è un tiratissimo 6/8 che sembra mettere in qualche ambascia i modesti accompagnatori dell’organista, che qui come nel resto del disco sfoggia un drive implacabile.

  Su Willette, in italiano, ho trovato questo bell’articolo di Nico Toscani, che pare averne avuto l’idea giusto un mese prima di me.

  Behind the 8 Ball (Willette), da «Behind the 8 Ball», Argo LP-749. Baby Face Willette, organo; Ben White, chitarra; Jerold Donavon, batteria. Registrato il 30 novembre 1964.

  Song of the Universe (Willette), id.

sabato 13 aprile 2019

The Song Is You (Art Blakey)


  Tutto bello, ma l’assolo di McCoy Tyner in The Song Is You

  The Song Is You  (Kern-Hammerstein II), da «A Jazz Message», Impulse! 4547 964-2. Sonny Stitt, sax alto; McCoy Tyner, piano; Art Davis, contrabbasso; Art Blakey, batteria. Registrato il 16 luglio 1963.

  Cafe (Blakey-Stitt), id.