giovedì 8 dicembre 2022

K-4 Pacific (Gerry Mulligan)

 Stimolato da un mio amico che l’ha nominato, ho riascoltato questo dimenticato da anni. Gerry Mulligan tornava alla discografia dopo un certo intervallo di tempo, con un jazz colorato di pop, molto 1971, molto piacevole.

 K-4 Pacific (Mulligan), da «The Age of Steam», A&M SP-3036. Harry “Sweets” Edison, Roger Bobo, tromba; Bob Brookmeyer, trombone a pistoni; Jimmy Cleveland, trombone; Ken Shroyer, trombone basso; Bud Shank, sax alto; Tom Scott, Ernie Watts, sax tenore, flauto; Gerry Mulligan, sax baritono; Roger Kellaway, piano; Howard Roberts, chitarra; Chuck Domanico, contrabbasso; Joe Porcaro, batteria. Registrato nel luglio 1971.

lunedì 5 dicembre 2022

Sin Street (Pete LaRoca Sims)

 Le turcherie, effetto collaterale nella musica, nell’arte e nel costume europei delle guerre contro i Turchi (e particolarmente della battaglia di Lepanto, 1571) sono arrivate a influenzare indirettamente il jazz, come riflesso di certe musiche sette- e ottocentesche da salon, e anche direttamente, come dimostra fra l’altro questo disco del 1967 del batterista Pete LaRoca Sims, molto bello e molto avanzato (peccato che PLRS, il batterista originale del quartetto di Coltrane, abbia di lì a poco abbandonato per molti anni la musica per mattersi a fare, go figure, l’avvocato…).

  In copertina il disco ha Le Bain Turc di Dominique Ingres, proprio come avrebbe avuto «Electric Bath» di Don Ellis, inciso nel settembre di quell’anno e contenente la famosissima turcheria Turkish Bath nell’allora esotico tempo di 7/4. Ma anche il tempo pari di questa sorta di blues turco di LaRoca cela una curiosa divisione interna, 2+4+2.

  Sin Street (Pete LaRoca Sims), da «Turkish Women at the Bath», 32 Jazz CD 32052. John Gilmore, sax tenore; Chick Corea, piano; Walter Booker, contrabbasso; Pete Laroca Sims, batteria. Registrato il 25 maggio 1967.

sabato 3 dicembre 2022

Night and Day (Vijay Iyer)

 Mi ha entusiasmato questa versione di Night and Day di Vijay Iyer, un musicista che mi sembra diventare via via più bravo (questo è uno dei suoi ultimi dischi); o almeno, a me piace sempre di più con tempo, laddove sulle prime non mi aveva persuaso.

 Bene alla sua altezza sono gli altri due; il batterista Sorey ha una carriera parallela, o forse convergente, di compositore «concertistico».

 Night and Day (Porter), da «Uneasy», ECM. Vijay Iyer, piano; Linda Oh, contrabbasso; Tyshawn Sorey, batteria. Registrato nel 2020.

venerdì 2 dicembre 2022

Love, Gloom, Cash, Love (Herbie Nichols) RELOAD

Reload dal 21 settembre 2011 

 Che disastro che Herbie Nichols non abbia potuto suonare e incidere di più con musicisti al suo livello. Con lui, anche gente come Roach, Blakey, Richmond, per tacere dei contrabbassisti, suonavano addirittura meglio del loro solito.

  Love, Gloom, Cash, Love (Nichols), da «Love, Gloom, Cash, Love», Betlehem/Rhino 76690. Herbie Nichols, piano; George Duvivier, contrabbasso; Danny Richmond, batteria. Registrato nel novembre 1957.

giovedì 1 dicembre 2022

Surrounding – Trees for the Forest – Trembling (Caleb Wheeler Curtis)

 Caleb Wheeler Curtis suona il sax alto e il soprano e compone le musiche che suona: ha trentasette anni, viene dal Michigan, è bianco. È un protetto del pianista Orrin Evans, che ha prodotto questo come i precedenti due dischi di Curtis per la sua casa discografica Imani.

 Da questo disco, Curtis esce un musicista riflessivo, poco sollecito di una musica e di un linguaggio solistico incalzanti e di immediata presa ritmica. La sua sonorità, quando non richiami Ornette (cosa che fa esplicitamente in Surrounding) è un po’ sfocata, sabbiosa, volutamente così poco autorevole fino a risuonare timida.

 Il disco si dichiara concepito nel corso di una residence che dev’essere stata bucolica a Peterborough, NH, come «MacDowell fellow» e ne porta secondo me gli indizi nel suo passo deliberato, ruminativo, in certo modo doveroso, quasi di chi senta di doversi attenere a un progetto, come da lui ci si aspetta. Musica ben fatta da musicisti competenti a dire poco, ma che mi ha dato l’impressione di marciare sul posto, un’impressione corroborata dal fatto che, della relativa larghezza delle maglie nell’armonia delle composizioni di Curtis, nessuno dei quattro si sente invogliato ad approfittare. La musica si sostiene alla fine sull’impalcatura robusta di una ritmica di pezzi grossi.

 Il programma si svolge sagacemente in pezzi brevi, e sono parecchi, dieci; sono arrivato in fondo non dirò stanchezza, ma con un piccolo sforzo dell’attenzione.

 Direi che mi vale la pena aspettare Curtis – che mi sembra più attrezzato come sopranista – al prossimo suo disco.

 Surrounding (Curtis), da «Heatmap», Imani. Caleb Wheeler Curtis, sax alto; Orrin Evans, piano; Eric Revis, contrabbasso; Gerald Cleaver, batteria. Registrato il 20 luglio 2021.

 Trees for the Forest (Curtis), id. ma Curtis suona il sax soprano.

 Trembling (Curtis), id.

martedì 29 novembre 2022

It Don’t Mean A Thing (If It Ain’t Got That Swing) – Don’t Blame Me – Snowy Morning Blues (Sammy Price)

 Sammy Price (1908-1992), texano, formatosi professionalmente a Kansas City come un altro musicista che gli è spesso accostato, Jay McShann, si affermò a New York come pianista accompagnatore in tante sedute di registrazione della Decca, conosciuto soprattutto per le sue capacità nel boogie e per la sua inclinazione blues.

 Price non era tuttavia un musicista folk come i classici pianisti del boogie woogie (Jimmy Yancey viene alla mente), ma un musicista di esperienze e orizzonti più vasti e di variate risorse strumentali, come dimostra questo tardo disco in assolo registrato in Canada nel 1979. Il blues nelle esecuzioni è sempre presente, se non come forma, certo come linguaggio. Snowy Morning Blues, il ragtime di James P. Johnson, si presenta qui radicalmente ristrutturato, in forma di canzone.

 It Don’t Mean A Thing (If It Ain’t Got That Swing) (Ellington-Mills), da «Sweet Substitute», Sackville 3024. Sammy Price, piano. Registrato il primo novembre 1979.

 Don’t Blame Me (Fields-McHugh), id.

 Snowy Morning Blues (Johnson), id.

lunedì 28 novembre 2022

Sunday (Coleman Hawkins)


 Sunday (Miller-Styne), da «Coleman Hawkins and Confrères», Verve. Roy Eldridge, tromba; Coleman Hawkins, sax tenore; Hank Jones, piano; George Duvivier, contrabbasso; Mickey Sheen, batteria. Registrato nel 1957.



sabato 26 novembre 2022

Keeping up with Time – In Moscow (Vagif Mustafazadeh)

 Jazz nel pomeriggio riapre dopo la pausa più lunga che abbia conosciuto in oltre dodici anni, interrotta soltanto da un generoso guest post di Alberto Arienti Orsenigo.

 Si ricomincia, tuttavia non a pieno regime. Per esempio, oggi ti propongo due pezzi di Vagif Mustafazadeh (1940-1979), pianista e compositore originario dell’Azerbaigian, padre della nota Aziza Mustafazedeh, pianista a sua volta e cantante: un musicista di grande talento e personalità su cui tanto ci sarebbe da dire, come puoi immaginare. Però oggi io non te ne dico niente, se non che Vagif Mustafazadeh qui si è sovraregistrato; per il resto, ti lascio appunto immaginare. 

 Prometto, a me stesso in primo luogo, di tornarci sopra in seguito, e intanto sarò lieto, anzi felice, se volessi dirne qualcosa tu, che probabilmente ne saprai già più di me.

 Keeping up with Time (Mustafazadeh), da «Hands over Hands», Azerbaijan International – AICD1401. Vagif Mustafazadeh, piano e tastiere. Registrato nel 1971.

 In Moscow (Mustafazadeh), id.

venerdì 25 novembre 2022

Move Over (Duke Ellington)

 Move Over, del 1928, mostra Duke Ellington men che trentenne già in possesso di una sagacia compositiva caratteristica, e illumina almeno in parte il suo rapporto non ovvio, non facile con il blues.

 Il pezzo è in forma AA'BA ed è preceduto da una intro di otto battute dalle armonie diminuite su un basso cromatico discendente; il primo tema A, nella misura insolita di 20 battute, si compone di due frasi, una di 8 battute e una di 12; di questa seconda, le ultime otto richiamano armonicamente due terzi del blues; su B, preceduto da un transizione di quattro battute, si svolgono poi tre chorus di blues effettivo con gli assoli di trombone, chitarra e clarinetto. 

 Ha osservato Benjamin Givan («Ellington and the Blues», in The Cambridge Companion to Duke Ellington, Cambridge University Press, 2014): «Dopo meno di dieci anni di carriera, Ellington aveva già trovato una maniera straordinariamente complessa per incastrare delle progressioni blues entro le norme fraseologiche della canzone popolare».

 Move Over (Ellington), da «The Original Edward “Duke” Elllington Hits, Vol. 1 - 1927/31», King Jazz KJ 144 FS.  Bubber Miley, Arthur Whetsol, tromba: Joe Nanton, trombone; Barney Bigard, clarinetto e sax tenore; Johnny Hodges, sax alto, clarinetto; Harry Carney, sax alto; Duke Ellington, piano; Lonnie Johnson, chitarra; Fred Guy, banjo; Wellman Braud, contrabbasso; Sonny Greer, batteria. Registrato il primo ottobre 1928.

sabato 1 ottobre 2022

[Guest post #76] Alberto Arienti Orsenigo & Blossom Dearie

 Com’è ormai, se non ancora tradizione, buona abitudine dopo che Jazz nel pomeriggio è rimasto chiuso a lungo, ad aprire le finestre per cambiare l’aria è Alberto Arienti Orsenigo, che, conforme al suo gusto, ha scelto una cantante e una bellissima versione di un amato classico dell’American songbook.

 Tea for two è una zuccherosa canzone scritta da Vincent Youmans (testo di Irving Caesar) inserita nel musical (e nel film) «No, No, Nanette». Scritta nel 1925, ha avuto successo per l’orecchiabilità del tema e per il testo ruffiano e civettuolo. Le versioni cantate sembrano voler perpetrare il misfatto e quella di Doris Day è forse quella perfetta per il traboccare di melassa. Le versioni jazzistiche solo suonate prendono il tema come fosse un’autostrada nel deserto, piatta e senza curve, e danno il gas (forse sperando di finire prima); famoso il virtuosismo mostrato da Art Tatum, che ne esce vincitore assoluto. 

 La canzone fu spremuta abbastanza ma ci fu ancora Tommy Dorsey che ebbe la sfrontatezza di eseguirla in versione cha-cha-cha, ottenendo uno dei suoi pù grandi successi.

 La popolarità un po’ ossessiva del tema spinse persino Dmitri Shostakovich a scrivere un suo arrangiamento, sebbene solo per scommessa col direttore d’orchestra Nikolai Malko: dopo averla ascoltata per radio, il compositore scommise di scrivere una nuova orchestrazione in mezz’ora, e ci riuscì.

 Io però vorrei parlare di una versione vocale che secondo me è perfetta perché rispetta lo spirito del testo ma contemporaneamente lo tradisce, trasformando il tutto in un giochino di alta sofisticazione. L’artista autrice di questa abile trasformazione è la cantante-pianista Blossom Dearie (1924 - 2009). 

 Dotata di un’aggraziata voce di ragazzina e di un notevole senso dello swing, nonché di un notevole humor molto garbato, ci propone le dolcezze della vita di coppia (legittima) con un'ingenuità fresca e affascinante. Lentamente, come lento è il tempo scelto, giocando su inflessioni, sospiri e ritardi, l’ingenuità del testo assume una sfumatura maliziosa che finisce per promettere molto di più dei pasticcini da tè, visto che poi alla fine lei vuole due bambini, la femmina per lui e il maschio per lei. Roba da non far dormire un’intera generazione di malintezionati!

 Ma l’eleganza della confezione, sobria nell’orchestrazione, alla fine vince su tutto e trasforma la canzone in un gioiellino, alla faccia anche degli autori.

 Tea for Two (Youmans-Caesar), da «Once Upon a Summertime», Verve. Blossom Dearie, canto e piano; Mundell Lowe, chitarra; Ray Brown, contrabbasso; Ed Thigpen, batteria. Registrato nel 1959.      

martedì 7 giugno 2022

Softly, As In A Morning Sunrise (Larry Young)

 L’organo nel jazz non mi piace (onde, per disdegnoso gusto, su Jazz nel pomeriggio negli anni te ne ho fatto ascoltare quasi tutti gli esponenti principali), con qualche sceltissima eccezione tuttavia; la più vistosa è Larry Young, che con «Unity» creò nel 1965 uno dei più bei dischi di jazz di quel decennio.

 La formazione è quella che è, e tutti suonano veramente come indemoniati.

 Softly, As In A Morning Sunrise (Romberg-Hammerstein II), da «Unity», Blue Note 56416-2. Woody Shaw, tromba; Joe Henderson, sax tenore; Larry Young, organo; Elvin Jones, batteria. Registrato il 10 novembre 1965.

domenica 5 giugno 2022

Blue Friday – Lotus Blossom – Old Folks (Kenny Dorham)

 Pochi jazzisti moderni hanno un CV come quello di Kenny Dorham (1924-1972), che fu presente alla nascita del bebop; fu membro delle big band di Billy Eckstine e della prima di Dizzy, trombettista di Charlie Parker nel 1948-49, dopo Miles Davis, poi negli originali Jazz Messengers cooperativi; che suonò e registrò con Monk, Coltrane, Andrew Hill e perfino con Cecil Taylor; che sostituì Clifford Brown nella band di Roach e fece esordire discograficamente Joe Henderson.

 Dicevo altrove parlando di Wynton Kelly di musicisti che hanno dato al jazz più di quanto abbiano ricevuto, almeno in termini di fama: eccone forse l’esempio più insigne.

 Formatosi dunque nel crogiolo del bebop, il suo stile incorporava con naturalezza quella sintassi: la sola influenza di cui chiarissimamente risenta è quella di Parker, per il resto si tratta di uno dei trombettisti più personali del jazz, al punto di essere anomalo per sonorità, che è inflessa e delicata senza essere milesiana, e per il fraseggio lunghissimo, concettoso, direi pianistico. Come compositore, ha dato al repertorio almeno due pezzi, Blue Bossa e Lotus Blossom, il quale ultimo senti qui oggi.

 Il setting di tromba con sezione ritmica non è dei più consueti ma a Kenny si addice più che a qualsiasi altro trombettista che mi venga in mente, con la parziale eccezione di Art Farmer in «Sing Me Softly Of The Blues». Ascolta, soprattutto in Blue Friday, l’intesa di tromba e batteria. In tutto il disco, Art Taylor è pari alla fama che, a paragone di altri batteristi, non ha (un altro).

 Blue Friday (Dorham), da «Quiet Kenny», [Prestige] VICJ-23574. Kenny Dorham, tromba; Tommy Flanagan, piano; Paul Chambers, contrabbasso; Art Taylor, batteria. Registrato il 13 novembre 1959.

 Lotus Blossom (Dorham), id.

 Old Folks (Hill-Robinson), id.

martedì 31 maggio 2022

I Surrender Dear (Lennie Tristano) RELOAD

                                      Reload dal 19 giugno 2014

 Già nel 1946 Lennie Tristano trattava la tonalità da sussiegosa distanza.

 I Surrender Dear (Gershwin-Duke), da «Intuition», Properbox 64. Lennie Tristano, piano; Billy Bauer, chitarra; Clyde Lombardi, contrabbasso. Registrato l’8 ottobre 1946.

lunedì 30 maggio 2022

If I Had You – Wild Man Blues – I Remember Harlem (Roy Eldridge)

 Provo rammarico per aver prestato poca attenzione, purtroppo non solo su Jazz nel pomeriggio, a uno dei solisti più grandi, originali e influenti del jazz, cioè Roy Eldridge.

 Eldridge era un uomo di particolare sensibilità e, carattere che sovente a questo si accompagna, orgoglioso e anche competitivo. Per questo patì l’ascesa dei beboppers e in particolare di Dizzy Gillespie il quale, come ebbe a confessare a Norman Granz, temeva suonasse «più tromba» di lui. Eppure Roy non poteva ignorare che senza il suo esempio Dizzy non sarebbe diventato il Dizzy che tutti conoscono, e il bebop stesso sarebbe forse stato diverso.

 Come che sia, dopo la guerra Roy preferì suonare fuori dagli USA e in Francia in particolare. Qui è colto appunto a Parigi, prima con alcuni connazionali (a eccezione del bassista Michelot) e poi con dei francesi.

 If I Had You (King-Shapiro), da «Roy Eldridge & His Orchestra», Dial. Roy Eldridge, tromba; Gerald Wiggins, piano; Pierre Michelot, contrabbasso; Kenny Clarke, batteria. Registrato il 29 marzo 1951.

 Wild Man Blues (Morton), id.

 I Remember Harlem (Eldridge), ib. Eldridge; Benny Vasseur, trombone; Albert Ferrari, sax tenore;  William Boucaya, sax baritono; Raymond Fol, piano; Barney Spieler, contrabbasso; Robert Barnet, batteria. Registrato il 28 ottobre 1950.

sabato 28 maggio 2022

I Can’t Get Started (Lester Young & Nat «King» Cole)

 Nel riascoltare dopo molti anni questo pezzo una cosa mi ha riempito di meraviglia: l’accompagnamento di Nat «King» Cole al tema e poi all’assolo di Lester Young: mi riferisco tanto alla disinvoltura delle scelte armoniche (siamo nel 1942) quanto alla sottigliezza e alla varietà dell’interazione con il solista

 I Can’t Get Started (Gershwin-Duke) da «The Complete Aladdin Recordings of Lester Young», Blue Note CDP 7243 32787 2 5. Lester Young, sax tenore; Nat «King» Cole, piano; Red Callender, contrabbasso. Registrato il 15 luglio 1942.

venerdì 27 maggio 2022

Interpret It Well – Mixed Metaphor (Ches Smith)

 Ches Smith, percussionista di jazz «e altre musiche» originario della California e attivo a New York (fra altri con Zorn, Berne, Douglas, Halvorson), è fuori da poco con questo disco di sue composizioni. Come per il disco con archi di Fred Hersch che ti ho presentato qualche settimana fa, anche qui le note che accompagnano il lavoro sottolineano come sia stato concepito in epoca di lockdown per il COVID-19.

 Il trio con Taborn e Maneri è una working band di Smith a cui qui si è aggiunto Bill Frisell, un ammiratore delle composizioni di Smith. Si può capire perché lo sia: minimali ma non narcotiche, «spaziose» e asciutte, esse consentono alla sonorità di Frisell di espandersi con calma, siccome suole, incoraggiando in lui anche una certa estroversione. Come sempre succede quando Frisell fa l’ospite in un disco, tutti gli altri finiscono attratti nella sua orbita espressiva.

 In Interpret It Well, che prende il titolo dal disegno di Raymond Pettibon che illustra la copertina del CD, Ches Smith suona uno sparuto vibrafono. L’ascolto di Craig Taborn ci rassicura del fatto che la jarrettizzazione adombrata in un suo recentissimo disco ECM non è irreversibile.

 Ecco qui il quartetto dal vivo a NY, giusto un anno fa.

 Interpret It well (Smith), da «Interpret it Well», Pyroclastic. Bill Frisell, chitarra; Mat Maneri, viola; Craig Taborn, piano; Ches Smith, vibrafono, batteria. Registrato nell’ottobre 2020.

 Mixed Metaphor (Smith), id.

giovedì 26 maggio 2022

Season In The Sun – When Sunny Gets Blue (Jeanne Lee & Ran Blake) RELOADED

 Reload dal 3 gennaio 2015. Per scrupolo filologico, ho lasciato intatti i riferimenti alla stagione e alle circostanze meteorologiche.

 In questi giorni del freddo più crudo, nelle settimane più fastidiose e torpide dell’anno, la voce di Jeanne Lee ha dentro di sé un sole non battente, ma che scalda fin nelle midolla, in particolare in queste due canzoni che trattano di sole o ce l’hanno nel titolo e in cui le note, parole, raggi di luce di Jeanne si fanno strada in mezzo alle brume create da quel bel tipo di Ran Blake, un pianista capace di offuscare tutte le funzioni armoniche in una progressione senza mai tradire il canto e lo swing.

 Season In The Sun (Landesman-Wolf), da «The Newest Sound Around», BMG International 174805. Jeanne Lee con Ran Blake, piano; George Duvivier, contrabbasso. Registrato nel dicembre 1961.

 When Sunny Gets Blue (Fischer-Segal), id., senza Duvivier. 

mercoledì 25 maggio 2022

Gee, Baby, Ain’t I Good To You – Out Of Nowhere (Tom Stewart & Steve Lacy)

 Tom Stewart, piuttosto oscuro esecutore di tenor horn (il flicorno tenore, simile all’euphonium, suonato spesso da Django Bates; nelle mani di Stewart sembra un trombone a pistoni), in questa simpatica seduta del 1956, organizzata da Creed Taylor, riunì un bel gruppo di cui faceva parte il suo amico Steve Lacy.

 Lacy, ventunenne, colto qui prima dei suoi dischi Prestige e delle collaborazioni con Gil Evans e ancora fresco di dixieland, è già di tutti il solista più disinvolto e interessante.

 Gee, Baby, Ain’t I Good To You (Redman-Razaf), da «Tom Stewart Quintette/Sextette», ABC-Paramount. Tom Stewart, flicorno tenore; Steve Lacy, sax soprano; Dave McKenna, piano; Whitey Mitchell, contrabbasso; Al Levitt, piano. Registrato nel 1956.

 Out Of Nowhere (Hyman-Green), id.

martedì 24 maggio 2022

Summit Ridge Drive (Artie Shaw) RELOAD

Reload dal 13 aprile 2011. Per scrupolo filologico, ho lasciato intatti i riferimenti all’ora e alle circostanze meteorologiche.

 Per augurarti la buonanotte di questo bel giorno di sole e vento, ecco un hit dei Gramercy Five, il gruppo composto da membri della big band di Artie Shaw che fungeva da intermezzo nelle esibizioni dell’orchestra, seguendo una tradizione dell’era dello Swing (facevano così anche Goodman, Basie, Lunceford). I Gramercy Five con Shaw erano sei e comprendevano il clavicembalo, suonato con molto gusto da uno dei grandi pianisti del jazz classico, Johnny Guarnieri.

  Summit Ridge Drive (Shaw), da «The Complete Gramercy Five Sessions», RCA 87637. Billy Butterfield, tromba; Artie Shaw, clarinetto; Johnny Guarnieri, clavicembalo; Al Hendrickson, chitarra; Jud DeNaut, contrabbasso; Nick Fatool, batteria. Registrato nel 1940.

lunedì 23 maggio 2022

Pannonica (Barry Harris)

 Come tutti sanno, anzi mi pare che ne abbiamo parlato anche qui, Barry Harris è stato fra gli interpreti meglio qualificati o, come si dice, più idiomatici della musica di Monk. L’aveva studiata a fondo e per giunta di Monk era stato amico intimo, per un certo periodo abitando con lui sotto il tetto della baronessa Nica.

 La quale è dedicataria di questa composizione, una delle più note di Monk. Nell’esecuzione, lontana da tutti i più ovvi monkismi, si sente bene la comprensione profonda che Harris aveva di questa musica.

 Pannonica (Monk), da «The Bird Of Red And Gold», Xanadu. Barry Harris, piano. Registrato il 18 settembre 1989.

domenica 22 maggio 2022

Catta (Bobby Hutcherson); un anniversario

 22 maggio, il blog compie gli anni: vide infatti la luce, perché mi annoiavo, un mattino di quel giorno nel 2010. Ecco qui il post inaugurale (fa’ clic per vederlo). 

 Di solito non mi curo dell’anniversario, che ho ricordato qui l’ultima volta nel 2015, non è una data importante, tuttavia mi fa meraviglia che, se pur in modo sussultorio, questa pubblicazione proceda da dodici anni con qualcuno che ancora viene a consultarla. 

 Dodici anni! Buon compleanno, Jazz nel pomeriggio, ora puoi salire in ascensore da solo. Il pezzo di musica che ti propongo è lo stesso oggi di quel 22 maggio di dodici anni fa, Bobby Hutcherson, e mi piace come e più di allora.  

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 Gli auguri sono graditi, naturalmente.

 Catta (Hutcherson), da «Dialogue», Blue Note BLP 4198. Freddie Hubbard, tromba; Sam Rivers, tenore; Bobby Hutcherson, vibrafono; Andrew Hill, pianoforte; Richard Davis, contrabbasso; Joe Chambers, batteria. Registrato il 3 aprile 1965.

sabato 21 maggio 2022

Do You Know What It means To Miss New Orleans – Royal Garden Blues (Bobby Hackett & Zoot Sims)

 «Musica per i vostri sogni».

 Do You Know What It means To Miss New Orleans (Alter- DeLange), da «Bobby Hackett & Zoot Sims Complete Recording», Lone Hill Jazz. Bobby Hackett, cornetta; Zoot Sims, sax tenore, con orchestra arrangiata e diretta da Bob Wilber: James Morreale, Rusty Dedrick, tromba; Bob Brookmeyer, trombone a pistoni; Bob Cutshall, trombone; Bob Wilber, sax soprano e clarinetto; Jerry Dodgion, sax alto; Pepper Adams, sax baritono; Wayne Wright, chitarra; Dave McKenna, piano; Buddy Jones, contrabbasso; Morey Feld, batteria. Registrato nel 1967.

 Royal Garden Blues (C. e S. Wlliams), id.

venerdì 20 maggio 2022

Theme From The Cool World – Enter, Priest – Duke’s Last Soliloquy (Dizzy Gillespie & Mal Waldron)

 Uno dei dischi più belli di Dizzy Gillespie, o almeno uno dei miei preferiti, non è propriamente un disco di Dizzy, anche se il suo nome figura grande sulla copertina; è di Mal Waldron, che non vi suona ma che lo compose e arrangiò come colonna sonora di un film di Shirley Clarke del 1964, The Cool World, appunto. 

 Shirley Clarke (1919-1997), figura eminente del cinema indipendente/sperimentale americano della generazione di Mekas e Pennebaker, si rivolse spesso al jazz per l’argomento dei suoi film a soggetto e documentari: nel 1961 filmò il famoso spettacolo The Connection e nel 1985 realizzò un documentario intitolato Ornette: Made in America.

 La musica del disco e del film è marcatamente waldroniana, con mood più del solito variati a seconda della necessità drammatica; il complesso di Dizzy, il medesimo di «Jambo Caribe» sempre del 1964, la interpreta benissimo e in primo luogo lo fa Dizzy stesso, che è in gran forma.

 Il Duke del terzo pezzo non è evidentemente quello a cui pensi tu ma il tragico protagonista del film.

 Theme from The Cool World (Waldron), da «The Cool World», Philips [Verve]. Dizzy Gillespie, tromba; James Moody, sax tenore; Kenny Barron, piano; Chris White, contrabbasso; Rudy Collins, batteria. Registrato nell’aprile 1964.

 Enter, Priest (Waldron), id.

 Duke’s Last Soliloquy (Waldron), id.

mercoledì 18 maggio 2022

Georgia On My Mind (Derek Bailey)

 Giusto vent’anni fa, dietro istigazione di John Zorn, Derek Bailey incise un disco tutto di standard, cavandosela benissimo, direi, anche se in modo piuttosto diverso da come l’avrebbe fatto – per dire – Joe Pass.

 La versione degli standard data da Bailey non era nel segno facile dell’ironia e nemmeno in quello della parodia; era una versione composita, in cui frammenti di esecuzione tradizionale si alternavano a frammenti, più lunghi, in cui i parametri soliti erano abbandonati e che restavano collegati ai primi da grumi o gesti motivici o ritmici che vi galleggiavano come relitti, oppure dal puro e semplice fatto di coesistere giustapposti.

 Georgia On My Mind (Carmichael), da «Ballads», Tzadik TZ 7607. Derek Bailey, chitarra. Registrato il primo febbraio 2002.

martedì 17 maggio 2022

Snowy Morning Blues – The Mule Walk (James P. Johnson)

 Su JP Johnson, uno dei primi e dei più grandi pianisti del jazz, ho da molto tempo in animo scrivere un post un po’ articolato, soprattutto dopo aver letto il bel libro di Riccardo Scivales Storie di vecchi pianisti jazz e di come funzionava la loro musica, ma in questi giorni me ne mancano tempo e tempra.

 Poco male, intendiamoci. Intanto eccoti due gemme dal repertorio di JPJ; in Snowy Morning Blues t’invito a notare, nel secondo tema, le walking tenths alla mano sinistra.

 Snowy Morning Blues (Johnson), da «Father of the Stride Piano», Columbia. James P. Johnson, piano. Registrato il 25 febbraio 1927.

 The Mule Walk (Johnson), ib., registrato il 14 giugno 1939.

lunedì 16 maggio 2022

Open, To Love – Nothing Ever Was, Anyway (Paul Bley) RELOADED

                                            Reload dal 27 aprile 2017 

Non è facile immaginare oggi che effetto dovesse avere sulle orecchie del 1973 «Open, To Love» di Paul Bley, perché la sua influenza su molto jazz successivo, soprattutto bianco ed europeo, è stata così pervasiva e insieme subliminare da rendere strano pensare che, prima che Bley la suonasse, una musica del genere non ci fosse. È questo disco ad aver tracciato le linee programmatiche dell’etichetta tedesca ECM di Manfred Eicher, nel bene e nel male una delle più importanti degli ultimi quarant’anni.

 Cresciuto su radici profonde nel blues, nel modernismo di Bud Powell e di Bill Evans e nutrito di una linfa ritmica senz’altro jazzistica, il pianismo-albero di Bley innalza e allarga i rami toccando l’impressionismo e il puntillismo e annuncia – aveva cominciato a farlo anni prima – la musica di Keith Jarrett in molti suoi caratteri peculiari. La dimensione del silenzio, le microdinamiche acquistano in «Open, To Love» un valore strutturale; nella lunghezza estenuata delle pause e dei valori e nel rilievo che vi assumono ogni singola nota e rumore (in Open, To Love si sente Bley agire direttamente sulle corde e cantare; non mugolare à la Jarrett, cantare proprio, anche se sottovoce), la musica vive in un eterno presente in cui diresti che qualunque cosa possa succedere.

 Questa apertura, annunciata dal titolo, la sottrae a un’epoca e a uno stile precisi ma anche alle tentazioni del sentimento squisito, dell’edonismo sonoro, non evitate invece da tanto jazz derivativo, in specie europeo. È musica che, presentandosi con lo stigma della contemplazione, cioè del distacco, risulta infine personale come poche; per questo non sembra fuori luogo osservare come, di sette pezzi del disco, cinque siano composizioni di due ex-mogli di Bley, Carla Bley (nata Borg) e Annette Peacock.

 Open, To Love (A. Peacock), da «Open, To Love», ECM 1023. Paul Bley, piano. Registrato nel settembre 1972.

 Nothing Ever Was, Anyway (A. Peacock), id.

domenica 15 maggio 2022

Roses Poses – Booda (Bobby Hutcherson)

 Buona domenica. C’è Bobby Hutcherson domenicale anche lui, rilassato e quasi spensierato, come spesso gli capitò dopo l’impegno insolito che per tutti gli anni Sessanta aveva profuso in un numero incredibile di dischi per la Blue Note, diversi fra questi esempi fra i più alti di jazz modernissimo pur senza potersi ascrivere alle avanguardie del tempo (di cui tuttavia Hutcherson era stato parte a fianco di Shepp e di Dolphy). Va detto anche che quando questo disco «Waiting» uscì, nel 1976, la Blue Note non era più da quasi dieci anni quello che era stata.

 L’atmosfera più leggera, ora esotica (Roses Poses) ora più funky (Booda), è sottolineata dall’uso da parte di Bobby della marimba.

 Roses Poses (Hutcherson), da «Bobby Hucherson», Mosaic Select 26 [«Waiting», Blue Note]. Oscar Brashear, tromba; Thurman Green, trombone; Harold Land, sax tenore; Bobby Hutcherson, marimba; Dwight Dickerson, piano; Kent Brinkley, contrabbasso; Larry Hancock, batteria. Registrato il 24 marzo 1975.

 Booda (Hutcherson), id.

sabato 14 maggio 2022

All The Things You Are (Billy Taylor)

 Una versione nulla meno che eccezionale, da tutti i punti di vista, dell’esausto standard da parte di Billy Taylor che, nel 1957, suona così tanto piano jazz, a momenti perfino a scapito dello swing, che di più è difficile anche immaginare di poterne chiedere; mi verrebbe da dire, è quasi troppo.

 Al contrabbasso, Mingus non si tiene indietro.

 All The Things You Are (Hammerstein-Kern), da «Taylor Made Piano», Roost. Billy Taylor, piano; Charles Mingus, contrabbasso; Marquis Foster, batteria. Registrato nel 1957.

venerdì 13 maggio 2022

Open Road – Lament (Pat Martino)

 Mi sono rivolto a questo disco di Pat Martino dopo aver ascoltato il disco appena uscito di uno dei più meritamente acclamati chitarristi jazz di oggi, disco in cui l’artista si accompagna da solo con sovraincisioni e loop per un risultato suadente alle orecchie e, a mio gusto, noioso.

 Martino nel 1976 era nel pieno delle forze, quattro anni prima dell’accidente che per poco non lo uccise e lo costrinse poi alla fatica eroica di re-imparare a suonare la chitarra. Io, forse lo ricorderai, non sono un appassionato della chitarra jazz, i cui praticanti mi sembrano troppo spesso solleciti o della pura velocità o, vedi supra, di una piacevolezza un po’ facile, pop (lo so che non c’è niente di male nel pop, ma io la penso così, ok?).

 Pat Martino mi sembra invece di quelli che non suonano una nota se non ne sono persuasi – e sì che di note ne fa anche lui parecchie. In compagnia di Gil Goldstein, che al piano elettrico gli fornisce un accompagnamento essenzialissimo e sommesso, quasi da harmonium, questa sua serietà espressiva è nella luce migliore, tanto nella tripartita Open Road quanto nei sei standard che completano il disco.

 Buon venerdì 13.

 Open Road [Olee, Variations and Song, Open Road] (Martino), da «We’ll Be Together Again», [Muse] 32Jazz. Pat Martino, chitarra; Gil Goldstein, piano elettrico. Registrato nel febbraio 1976.

 Lament (J. J. Johnson), id.

giovedì 12 maggio 2022

Around Again – King Korn (Paul Bley) – Smoke Rings (Earl Hines)

 Da un’intervista di Ethan Iverson a Carla Bley, 2018:

EI: È stata un’idea tua, quella di scrivere per Paul Bley?

CB: No, me l’aveva chiesto lui. La prima volta ricordo che mi ha detto: «Mi servono sei pezzi per domani», e io glieli ho dati. Avevo scritto delle cose per me, non destinate a lui, e fra queste Ida Lupino. L’ha suonata, ma non era quello il suo genere. Lui preferiva roba su cui si potesse suonare free; io gli scrivevo qualcosa per dare la spinta, l'impulso iniziale, magari poi con un piccolo rinforzo a metà e un finale con il tema ripetuto e per finire un accordo. Roba così, puramente funzionale.

 E questa è infatti la descrizione migliore delle composizioni di Carla (autrice in altra sede di melodie memorabili) suonate da Bley e dai suoi nel giustamente celebrato «Footloose», pietra miliare del piano trio moderno. A paragone delle composizioni di Paul stesso per il disco, quelle di Carla sono certamente più funzionali agli scopi del trio, primo fra tutti la libertà ritmica, oltreché più originali e, nella loro aforistica economia, più belle.

 A seguire, giusto perché non c’entra niente, almeno credo, c’è Earl Hines con una sezione ritmica mica male.

 PS Questa c’entra ancora meno ma è bella: più avanti nell’intervista, Iverson domanda alla Bley se abbia l’orecchio assoluto; lei risponde che l’aveva fino all’anno prima, ma l’aveva perso dopo essere andata dal dentista.

 Around Again (C.Bley), da «The Complete Footloose», Savoy. Paul Bley, piano; Steve Swallow, contrabbasso; Pete LaRoca, batteria. Registrato il 17 agosto 1962.

 King Korn (C. Bley), id. Registrato il 12 settembre 1963.

 Smoke Rings (Gifford-Washington), da «Here Comes Earl “Fatha” Hines», Flying Dutchman. Earl Hines, piano; Richard Davis, contrabbasso; Elvin Jones, batteria. Registrato il 17 gennaio 1966.

martedì 10 maggio 2022

The Rich (and The Poor) (Keith Jarrett) RELOAD

                                  Reloaded dal 25 gennaio 2011

 Ascoltavo questo disco del quartetto americano di Keith Jarrett degli anni Settanta e mi ha colpito quanto di quello che nei due decenni successivi è passato per jazz sia disceso da questa formazione: ascolta il pezzo che lo apre e dimmi se non ti sembra (finché non entra il sax, almeno) di sentire i Bad Plus, anche per il grande rilievo che la registrazione dà al contrabbasso. 

 Altrove, soprattutto quando interviene Sam Brown alla chitarra, si immaginano derivazioni meno qualificate, tipo Pat Metheny.

 The Rich (and The Poor) (Jarrett), da «Treasure Island», Impulse! MCA-39106. Dewey Redman, sax tenore; Keith Jarrett, piano; Charlie Haden, contrabbasso; Paul Motian, batteria; Guilherme Franco, percussioni. Registrato il 27 febbraio 1974.

lunedì 9 maggio 2022

Day Dream – The Duke (Bill Charlap)

 Oggi, senza tante elucubrazioni, ti servo prima una composizione di Billy Strayhorn, direi una delle sue più belle, e poi la dedica a Duke Ellington composta da Dave Brubeck, un pezzo di grande ingegnosità armonica.

 Suona un trio di magnifici jazzisti guidati da Bill Charlap, il quale oggi non ha forse pari in questo territorio, che sa estendere – senti l’ampia e divagante intro a The Duke – in direzioni inattese e fantasiose. 

 Day Dream (Strayhorn), da «Street of Dreams», Blue Note. Bill Charlap, piano; Peter Washington, contrabbasso; Kenny Washington, batteria. Registrato il 25 maggio 2021.

 The Duke (Brubeck), id.

sabato 7 maggio 2022

The Monster – Soft Touch (Buddy Collette) RELOADED

                               Reload dal 3 ottobre 2018.  

 Il jazz precisino di quel precisino di Buddy Collette. Jazz della West Coast, eppure non precisamente «West Coast Jazz», nemmeno attardata. Qui tira un’aria troppo volutamente asettica, quasi ricercatamente puerile, con niente dell’aria jaded e comunque sempre swingante del West Coast jazz.

 Questa musica sembra parodiare la West Coast, in quel momento in fase calante già da un pezzo. È vagamente inquietante, burattinesca e non è la prima volta che Buddy Collette (bravissimo, eh) mi fa questo effetto.

 The Monster (Collette), da «Jazz On the Bounce», Bel Canto SR/1004. Rolf Ericson, tromba; Buddy Collette, clarinetto; Al Viola, chitarra; Wilfred Middlebrooks, contrabbasso; Earl Palmer, batteria. Registrato il 17 febbraio 1958.

 Soft Touch (Collette), ib. ma Collette suona il flauto.

venerdì 6 maggio 2022

Little Honey – Late In The Evenin’ – Ocho Puertas – H. O. T (Helen Of Troy) (Milt Hinton & Jo Jones)

 Oggi jazz d’avanguardia con un duo d’improvvisazione radicale in quattro brevi composizioni istantanee, non preordinate.

 Little Honey (Hinton-Jones), da «Percussion And Bass», Everest. Milt Hinton, contrabbasso; Jo Jones,vibrafono. Registrato l’11 maggio 1960.

 Late In The Evenin’ (Hinton-Jones), ib., Jones suona la batteria.

 Ocho Puertas (Hinton-Jones), id.

 H. O. T. (Helen Of Troy) (Hinton-Jones), id.

giovedì 5 maggio 2022

Sweet Love – Same Ole Love (365 Days of the Year) (Jason Palmer)

 Jason Palmer, come Ambrose Akinmusire sentito ieri, è un trombettista afroamericano sulla quarantina e come Akinmusire è musicista di eccellenti studi sia jazzistici sia classici, come lui vincitore di concorsi, sideman di jazzisti di nome, impegnato nell’accademia.

 Le analogie non sono poche, tuttavia non mi riesce d’immaginare due jazzisti più diversi, tenendo conto che questo disco del 2019 è l’unico che io abbia sentito di Palmer, il quale non vi suona composizioni proprie (laddove Akinmusire è essenzialmente un compositore) ma tutte canzoni dal repertorio di Anita Baker, «contemporary soul, R & B singer/songwriter, eight-time Grammy winner», della quale tutto ignoro e che non ho avuto né tempo né voglia di approfondire.

 Jason Palmer è trombettista impeccabile, ovviamente, e anche fantasioso, il suo quartetto (la vivace pianista francese Domi Degalle è, vedo, rinomata per conto suo per tutt’altro) suona con drive, eleganza e coordinazione e più di ogni altra cosa è sollecito di piacevolezza, obiettivo che coglie infallibilmente.

 Non so se questo significhi qualcosa, probabilmente no, ma ci ho fatto caso e lo dico: Jason Palmer è l’unico afrodiscendente nel suo quartetto (non ho idea se occasionale o la sua working band).

 Sweet Love (Baker-Johnson-Bias), da «Sweet Love», Steeplechase. Jason Palmer, tromba; Domi Degalle, piano; Max Ridley, contrabbasso; Lee Fish, batteria. Registrato nel dicembre 2017.

 Same Ole Love (365 Days of the Year) (Roberts-McLeod), id.

mercoledì 4 maggio 2022

Moon (The Return Amplifies The Unity) – Roy – Blues (We Measure The Heart With A Fist) (Ambrose Akinmusire)

 A dimostrare una volta di più che di molto mi si può accusare, ma non di seguire l’attualità troppo da vicino, eccomi a parlare di questo disco di Ambrose Akinmusire uscito l’anno scorso.

 Dei tre o quattro dischi suoi che conosco, è quello che mi ha persuaso meglio (ma delle sue alte qualità non ho mai dubitato), credo anche perché vi è felicemente assente il rap, genere contro cui non ho nulla ma che per me restava estrinseco alla sua musica, e soprattutto vi manca la spoken word, che viceversa detesto con passione.

 La musica intelligentissima di Akinmusire continua a suscitarmi più ammirazione che amore, ma sento che mi ci sto avvicinando; il disco conosce una progressione espressiva avvincente dall’inizio alla fine, perché Akimmusire è un artista che, anche a costo di qualche lungaggine, cerca sempre di definire nel modo più preciso e onesto il focus emotivo della sua ispirazione, testimoni anche i suoi titoli lunghi e capziosi, e direi che sempre più spesso vi riesca: lo si sente proprio nel procedere di questo disco, che chiede molto all’ascoltatore, giustamente, e lo rimunera.

 Moon (The Return Amplifies  The Unity) (Akinmusire), da «On The Tender Spot Of Every Calloused Moment», Blue Note. Ambrose Akinmusire, tromba; Sam Harris, piano; Harish Raghavan, contrabbasso; Justin Brown, batteria. Registrato il 5 giugno 2020.

 Roy (Akinmusire), id.

 Blues (We Measure The Heart With A Fist) (Akinmusire), id.

martedì 3 maggio 2022

Begin Again – Awakened Heart – Breath By Breath (Fred Hersch)

 Quando l’ascolto di un disco mi lascia perplesso, faccio ricorso alle liner notes redatte dall’Autore, qualora siano presenti. Lo sono nel nuovo disco di Fred Hersch. Il pianista presenta il suo trio in tutte sue composizioni, affiancato da un quartetto d’archi.

 Hersch spiega succintamente di aver avuto sempre interesse per il quartetto d’archi fin da quando, bambino, studiava il pianoforte con la moglie del violoncellista del famoso LaSalle Quartet e gli piaceva ascoltarne le prove, disteso sul pavimento. Aggiunge: «Quando poi ho cominciato a studiare composizione, a otto anni, quasi tutta la mia musica si è concentrata sulla condotta delle quattro voci».

 Cosa anche più importante, Hersch ha concepito questo disco in periodo di lockdown dovuto al COVID-19, tempo in cui ha approfondito con vantaggio e salute la pratica per lui già consueta della meditazione: donde il titolo della composizione in otto movimenti che occupa il disco quasi per intero, Sati Suite, dove sati è la parola pali per «consapevolezza» (mindfulness).

 La mia perplessità è sempre la stessa, quando un jazzista vuole associare gli archi, qui poi nella loro espressione quintessenziale e per definizione classica, alla propria strumentazione e alle proprie composizioni: non vi trovo quasi mai una buona ragione musicale. Le parti migliori del disco, o quelle che io ho goduto di più, sono quelle dove il trio suona da solo. Le parti del quartetto d’archi mi sono parse sovrapposte e sommarie nella scrittura; al trio jazz altro non aggiungono che un accompagnamento, un tappeto, di cui si sarebbe con vantaggio fatto a meno.

 A parte queste considerazioni, «Breath By Breath» non contiene musica che mi abbia entusiasmato e non lo metterei fra i dischi migliori di Fred Hersch, anzi, è il suo che più mi ha deluso dai tempi di un suo malfatato tentativo di mettere in musica le poesie di Walt Whitman. Capirai a questo punto che mi sia rimasto difficile trascegliere dalla suite: te ne presento i primi tre movimenti.

 Begin Again (Hersch), da «Breath By Breath», Palmetto. Fred Hersch, piano; Drew Gress, contrabbasso; Jochen Rueckert, batteria; Crosby Street Quartet: Joyce Hamman, Laura Seaton, violini; Lois Martin, viola; Jodi Redhage Ferber, violoncello. Registrato il 24 e il 25 agosto 2021.

 Awakened Heart (Hersch), id.

 Breath By Breath (Hersh), id.

lunedì 2 maggio 2022

Blue Interval – Smooth Sailing (Edmond Hall)

 Al principio del 1944 il bebop era già una realtà, ma i musicisti qui impegnati nel blues alle mie orecchie non suonano attardati rispetto ai primi bopper: anzi.

 Blue Interval (Hall), da da «The Complete Edmond Hall, James P. Johnson, Sidney De Paris, Vic Dickenson Blue Note Sessions», Mosaic. Edmond Hall, clarinetto; Red Norvo, vibrafono; Teddy Wilson, piano: Carl Kress, chitarra; Johnny Williams, contrabbasso. Registrato il 25 gennaio 1944.

 Smooth Sailing (Hall), id.

domenica 1 maggio 2022

Cleo’s Blues (Paul Gonsalves)

 Anche Jazz nel pomeriggio ricorda, con due giorni di ritardo e obliquamente, l’anniversario della nascita di Duke Ellington, 29 aprile 1899: attraverso quel suo magnifico, assurdo sax tenore, Paul Gonsalves, gioia e delizia per il Duca che a sere alterne lo licenziava e lo riassumeva (guardando qui si capirà perché).

 Paul Gonsalves, per me, è un musicista che esprime l’idea pura del jazz e del jazzman americano, almeno fino a un certo momento storico, ed è uno dei miei eroi del sax tenore: tanto dico e di più non voglio spiegare. Cleo’s Blues, tolto da un disco dedicato al Cleopatra e stimolato dalla polpettonica versione cinematografica che della faraona diede in quell’anno 1963 Joseph L. Mankiewicz (quella con Liz Taylor) è un blues insolito, dalla curiosa introduzione «esotica» in even eights

 Cleo’s Blues (Gonsalves), da «Cleopatra’s Feelin’ Jazzy», Impulse! IMPL 8047. Paul Gonsalves, sax tenore; Dick Hyman, organo; Hank Jones, piano; Kenny Burrell, chitarra; George Duvivier, contrabbasso; Roy Haynes, batteria; Manny Albam, percussioni. Registrato il 21 maggio 1963.

mercoledì 27 aprile 2022

I’m Crazy About My Baby – I Ain’t got Nobody (Ruby Braff & Ralph Sutton)

 Ralph Sutton e Ruby Braff, pur appartenendo alla prima generazione dei modernisti del jazz, scelsero di esprimersi nell’idioma della generazione precedente, Braff avendo a stella polare Louis Armstrong e Sutton i grandi dello stride, senza per questo rinunciare a un’espressione inconfondibilmente personale.

 I’m Crazy About My Baby (Waller-Hill), da «R&R», Chaz. Ruby Braff, cornetta; Ralph Sutton, piano; Jack Lesberg, contrabbasso; Gus Johnson, batteria. Registrato nell’ottobre 1979.


 I Ain’t got Nobody (Graham-Peyton-Williams), id.


lunedì 25 aprile 2022

Kamman’s a-Comin’ –Titoro (Oscar Pettiford)

 Questo disco del 1955, noto anche come «Oscar Pettiford Vol. 2», di uno dei luminari del contrabbasso, è una bellezza ed è di quei dischi che davvero meriterebbero di essere conosciuti meglio.

 Kamman’s a-Comin’ (Pettiford), da «Another One», Betlehem. Donald Byrd, Ernie Royal, tromba; Bob Brookmeyer, trombone a pistoni; Gigi Gryce, sax alto; Jerome Richardson, sax tenore; Don Abney, piano; Oscar Pettiford, contrabbasso; Osie Johnson, batteria. Registrato il 12 agosto 1955.

 Titoro (Pettiford), ib. Richardson suona il flauto.

venerdì 22 aprile 2022

[Guest post #75] Alberto Arienti Orsenigo & Stan Getz

 Per sentire la bossa nova qui sopra bisogna di solito che abbia voglia di parlarne qualcuno che non sono io. Cedo con piacere la ripresa delle trasmissioni, dopo qualche mese di silenzio, ad Alberto Arienti Orsenigo, un classico contributore di Jazz nel pomeriggio e non spregevole cantate di bossa nova lui stesso.

 

PERCHÉ MI PIACE TANTO LA BOSSA NOVA SUONATA DA STAN GETZ 

 Visto che voglio giocare pulito, sgombriamo il campo dai giri di parole: mi piace la musica brasiliana  in generale, per cui una piccola spiegazione del titolo sta già in questa affermazione.

 Resta da spiegare il motivo per cui mi piaccia in particolare quella suonata da Stan Getz.

 Ah, dimenticavo ancora di dire che Getz è uno dei miei saxofonisti preferiti, quindi un altro piccolo tassello è stato aggiunto.

 L’elenco di musicisti, brasiliani e non, che hanno suonato la bossa è lunghissimo ed è discretamente lungo anche l’elenco di quelli che non capendone lo spirito, hanno fatto solo dell’elegantissimo arredamento musicale, magari con tanti virtuosismi.

 Secondo il mio modesto e unilaterale giudizio, l’americano che l'ha suonata meglio è stato Bud Shank, sia perché il sax alto sembra più adatto a integrarsi con le deboli sonorità acustiche dei gruppi brasiliani, sia per le doti di leggerezza e fluidità mai degradate in omogeneizzazione dello stile. Io però preferisco Stan Getz ma solo in versione piccolo gruppo; la sua bossa orchestrale, nonostante gli ottimi arrangiamenti di Gary McFarland, è troppo yankee.

 Invece, nei piccoli gruppi, Getz entra col suo tenore che soffia un po’ senza arrivare ai sospiri di Webster e sembra un grosso orso in una cristalleria. Ma un orso un po’ di mondo, che sa come evitare vetrinette piene di oggetti trasparenti e delicati. Ecco: lui in mezzo a questo dedalo di trappole lussuose, si muove felpato con la sua sonorità piena ma non invadente e se qualche volta urta sbadatamente un mobiletto, lo fa in modo così delicato che gli oggetti sembrano tintinnare come percussione supplementare al tema che si sta suonando, ma non cadono a terra frantumandosi in un finale assolutamente inappropriato. 

 Ovviamente siamo in un attico di Rio con vista mare e cachaça fredda in quantità, frutta esotica peggio di un cappello di Carmen Miranda e strepitose ragazze in tanga che si muovono davanti a te seduto ad altezza lato B.

 Certo, ci sono anche parti cantate, di solito dai Gilberto, lui che sembra complottare a bassa voce ed ha un senso del ritmo tutto suo con anticipi a ritardi che ti pare di stare in stazione, e lei che è bellissima e che quindi le concedi tutto, anche di cantare.

 Pensate che tutto questo avveniva mentre Coltrane faticosamente stava costruendo il suo monumento e il free jazz si stava allargando come una macchia d’olio, in un paese pieno di fermenti sociali pronti a scoppiare. Ed anche in Brasile stavano preparando tempi duri…

 Eppure, nonostante tutto questo, la cosa funzionava alla grande, anche perché Stan, da ospite, sapeva che non doveva strafare, allargarsi troppo in riff da bopper o allungare troppo la sua parte come avrebbero fatto in tanti nel giro di pochi anni.

 Nello specifico, il disco «Getz/Gilberto» è famosissimo e carico di onorificenze: 

 L’album rimane 96 settimane nella classifica di Billboard e raggiunge la posizione n° 2 preceduto solo dai Beatles. Il singolo The Girl From Ipanema arriva al 5° posto della classifica a metà del 1964

  Il disco vince vari Grammy Award nel 1965 (premi per le produzioni del 1964):

 - miglior album dell’anno (João Gilberto, Stan Getz);

 - migliore esecuzione jazz per piccoli gruppi (Stan Getz);

 - migliore registrazione non classica (Phil Ramone).

 - Il singolo The Girl From Ipanema  come disco dell’anno (Astrud Gilberto, Stan Getz).

 La mia scelta, escludendo in partenza i sovraesposti The Girl From Ipanema, DesafinadoCorcovado, non ha motivazioni particolari, se non la bellezza delle composizioni di Jobim e De Moraes, vista l’alta resa artistica di tutta la registrazione: O Grande Amor è una bellissima melodia raccontata benissimo da João e con un Getz essenzialmente poetico; So Danço Samba è un tema veloce, allegro che stimola Stan a far musica danzante, non esplosiva come la versione di Elza Soares, ma più elegante.

 O Grande Amor (De Moraes-Jobim), da «Getz/Gilberto», Verve. Stan Getz, sax tenore; João Gilberto, chitarra, canto; Antônio Carlos Jobim, piano; Sebastião Neto, contrabbasso; Milton Banana, batteria. Registrato il 18 marzo e 19 marzo 1963.

 So Danço Samba (De Moraes-Jobim), id.

martedì 18 gennaio 2022

Au fil de la parole – The Loop of Chicago (Benoît Delbecq)

 La musica di Benoît Delbecq non somiglia a quella di altri, in special modo quando suona il pianoforte da solo.

 Au fil de la parole (Delbecq), da «The Weight of Light», Pyroclastic Records. Benoît Delbecq, piano. Registrato nel marzo 2020.

 The Loop of Chicago (Delbecq), id.