lunedì 31 luglio 2017

[Tacet]

 La festa, appena cominciata, è già finita, come diceva, mi pare, Severino Kierkegaard. Jazz nel pomeriggio si ferma per qualche giorno, non per sempre; riprenderà prima di ferragosto. Non resterai solo in quei giorni pericolosi dell’anno.

 The Sultan (Salim), da «Blues Suite», Savoy SV-0142. Paul Cohn, Nat Adderley, tromba; Buster Cooper, trombone; Phil Woods, sax alto; Selden Powell, sax tenore; Sahib Shihab, sax baritono; Eddie Costa, piano; George Duvivier, contrabbasso; Wilbur Hogan, batteria; A. K. Salim, arrangiamento e direzione. Registrato nel settembre o ottobre 1958.

domenica 30 luglio 2017

Home (Mike Westbrook)

 Home (Westbrook), da «Marching Song Vol. 1», Deram 844 853-2. The Mike Westbrook Concert Band: Dave Holdsworth, Greg Bowen, Ronnie Hughes, Henry Lowther, tromba; Malcolm Griffiths, Mike Gibbs, Paul Rutherford, Eddie Harvey, trombone; Martin Fry, tuba; Mike Osborne, John Warren, sax alto; Alan Skidmore, Brian Smith, sax tenore; John Surman, sax baritono; Mike Westbrook, piano; Harry Miller, Chris Lawrence, contrabbasso; Alan Jackson, John Marshall, batteria. Registrato nel 1969.

sabato 29 luglio 2017

Mapa (Ornette Coleman) RELOAD

 «Ornette On Tenor», del 1961, registra l’unica testimonianza di Ornette Coleman sul sax tenore, che fu a lungo il suo strumento, quando si esibiva come honker di rhythm’n’blues in orchestre di seconda e terza schiera nel Texas e immediate vicinanze. Se è vero che sul tenore Ornette non fa nulla di diverso che sull’alto, è anche vero che le diverse risorse sonore e retoriche dello strumento più grave stimolano la sua memoria fisica degli anni passati suonando altre musiche.

 Questo disco testimonia anche del breve transito nei gruppi di Ornette di Jimmy Garrison, per inciso l’unico bassista non bianco che Ornette abbia mai impiegato. Garrison lasciò Ornette per Coltrane, non senza prima aver  manifestato il suo disagio per la musica che gli toccava suonare, come ha raccontato Ornette parlando con A. B. Spellman, in un pittoresco meltdown pubblico, una sera. In questi pezzi Garrison è più interattivo di Charlie Haden e di Scott LaFaro, ma commette l’errore di rimanere troppo accosto a Ornette e a Cherry, cercando di seguirli e anche di prevenirli nei loro spostamenti armonici, cioè non praticando quel genere di «indipendenza empatica» che Ornette chiedeva ai suoi collaboratori.

 Ed Blackwell, come sempre, è la perfezione.

 Mapa (Coleman), da «Ornette On Tenor», Atlantic 8122-79640-5. Ornette Coleman, sax tenore; Don Cherry, cornetta; Jimmy Garrison, contrabbasso; Ed Blackwell, batteria. Registrato nel marzo 1961.

venerdì 28 luglio 2017

Capricious – Empty Ballroom [Une salle de bal vide] (Billy Taylor)

 Billy Taylor, pianista di jazz.

 Capricious (Taylor), da «Improptu», Mercury MG 20722. Billy Taylor, piano; Jim Hall, chitarra. Bob Cranshaw, contrabbasso; Walter Perkins, batteria. Registrato nel maggio 1962.

 Empty Ballroom (Une salle de bal vide) (Taylor), id.

giovedì 27 luglio 2017

It Might As Well Be Spring – Just One More Chance (Bill Harris)

 Con un disco così è facile e difficile al tempo stesso scegliere; poi, alla fine, è facile, perché le esecuzioni sono una più bella dell’altra. Non dico niente di Webster e Rowles, di cui ho detto tanto qui sopra negli anni (compulsa se vuoi la «nuvola» qui a destra) e neanche di Red Mitchell, sul quale mi sono diffuso or non è molto.

 Invece non ho mai parlato di Bill Harris (1916-1973), ma anche qui non dovrebbe essercene bisogno. Colonna dei tromboni di Woody Herman e poi del Jazz at the Philarmonic, è di quei jazzisti di una volta che, come del resto Ben Webster, si esprimevano con la pura sonorità e e la pronuncia ritmica prima ancora che con il fraseggio, sonorità che in lui era calda e riusciva a essere in una morbida e rasposa, «sensuale» fino all’impudicizia e seme generatore di uno swing potente. 
Gli eccessi sudoripari in cui poteva incorrere sono qui contenuti da una sezione ritmica astringente ma eloquente.

 Nell’head di Just One More Chance ti sembra che Harris e Webster stiano un po’ facendo la caricatura di se stessi? Non ti sbagli, ascolta il siparietto fra il primo e il secondo chorus.

 It might As Well Be Spring  (Mac Donald), da «Bill Harris And Friends», [Fantasy] OJC-083. Bill Harris, trombone; Jimmy Rowles, piano; Red Mitchell, contrabbasso; Stan Levey, batteria. Registrato nel 1957.

 Just One More Chance (Coslow-Johnston), ib. più  Ben Webster, sax tenore.

mercoledì 26 luglio 2017

Moment’s Notice (Billy Hart)

 Qui, sembra dapprima che i quattro accennino appena a Moment’s Notice, la nota corsa a ostacoli accordale di Coltrane, per subito dimenticarsene.

 No! Suonano proprio Moment’s Notice, certo non come la suonavano Coltrane, Lee Morgan & C. in quel Blue Note famoso. Esecuzione bellissima, dal primo disco di una delle migliori formazioni del jazz americano presente che conteneva anche una sorprendente versione di Confirmation di Parker, presentata qui sopra anni fa.

 Moment’s Notice (Coltrane), da «Quartet», Highnote HCD 7158. Mark Turner, sax tenore; Ethan Iverson, piano; Ben Street, contrabbasso; Billy Hart, batteria. Registrato il primo agosto 2006.

martedì 25 luglio 2017

Time Of the Barracudas (Gil Evans)

Ho scritto questo pezzetto, con altri simili, per una rivista che l’anno scorso ha avuto vita meno che breve, ed è stato un peccato; al che puoi imputare un certo didascalismo  di norma estraneo a Jnp, che si rivolge a lettori evoluti. Absit iniuria.

 Può darsi che «The Individualism of Gil Evans», pur nella sua eccellenza, non sia il capolavoro di Gil Evans, ma per certi versi si può dire che sia uno dei suoi dischi più rappresentativi. A cominciare dal titolo: se tutti i grandi jazzisti sono degli individualisti, Gil Evans lo è stato in modo eclatante perché si è espresso per lo più nel medium della big band, che nell’ambito del jazz è per forza di cose il più formalizzato in quanto legato alla scrittura, dunque a una tradizione forte.

 Eppure gli organici di Evans – il quale, altra eccentricità, non guidò mai una formazione stabile: non è mai esistita una Gil Evans Orchestra al di là dei dischi e degli ingaggi – non somigliano a nessuna della big band classiche, Basie o Ellington, Herman o Kenton. Già nel suo lavoro per Claude Thornhill, negli anni Quaranta, Evans modificò la strumentazione inserendo flauti, tuba e corni francesi, strumenti che avrebbe sempre mantenuto a cominciare dai suoi arrangiamenti per il nonet di Miles Davis del 1949, la formazione di cui fu l’eminenza grigia. E la sua scrittura, benché jazzisticamente ferratissima, non rispettò che molto di rado il «manuale» dell’arrangiatore per quanto riguarda impasti timbrici, dialettica delle sezioni, raddoppi, armonizzazioni: in questa così pronunciata originalità, Evans fu davvero l’unico caporchestra paragonabile a Duke Ellington, anche se raramente si cimentò con la composizione, specializzandosi in quella forma dissimulata di composizione che è l’arrangiamento.

 A paragone con «Out of the Cool» (1960) e con i capolavori con Miles Davis degli anni Cinquanta, questo disco del 1964 presenta arrangiamenti quasi sparuti. Evans concede un notevole spazio agli assoli, in modo fino a quel momento per lui insolito (i solisti sono Wayne Shorter, Phil Woods, Thad Jones, Kenny Burrell, Elvin Jones), e nel farlo dà ampia prova di possedere la qualità che è solo dei grandi fra i compositori di jazz: il saper integrare senza lacune le parti scritte con quelle improvvisate. È in questo modo che la musica acquista un senso di libertà e di imprevedibilità che non trascende mai nel casuale o nello sciatto, conservando l’inconfondibile colore evansiano.

 Time Of the Barracudas (Evans-Davis), da «The Individualism Of Gil Evans», Verve 8330804-2. Orchestra diretta da Gil Evans: Frank Rehak, trombone; Ray Alonge, Julius Watkins, corno; Bill Barber, tuba; Wayne Shorter, Al Block, sax tenore; Andy Fitzgerald, clarinetto basso; George Marge, Bob Tricarico, flauto; Bob Maxwell, arpa; Kenny Burrell, chitarra; Gary Peacock, contrabbasso; Elvin Jones, batteria. Registrato il 9 luglio 1964.

lunedì 24 luglio 2017

Lalene (Keith Jarrett) RELOAD

Reload dal 13 agosto 2010.

Questo è il Keith Jarrett che a me piace di più; «Facing You» è uno dei pochi dischi suoi che riascolto ogni tanto, insieme con alcuni pezzi dell’American quartet (e chi se ne frega, vero).

 Lalene ha un passo disteso, apparentemente divagante nel suo tono dolcemente folk, ma una costruzione spontaneamente rigorosa: nota come Jarrett arrivi al culmine del pezzo per gradi, dal minuto 3:45 al 4:00 circa, esattamente a metà dell’esecuzione, e poi ne ridiscenda per una strada assai più accidentata di quella da cui vi è arrivato, come se dopo aver preso un sentiero diretto verso la cima della collina ora percorresse dei tornanti, sul versante opposto.

Lalene (Jarrett), da «Facing You», ECM 827132-2. Keith Jarrett, piano. Registrato nel novembre 1971.

domenica 23 luglio 2017

Pannonica (Thelonious Monk)

Ho scritto questo pezzetto, con altri simili, per una rivista che l’anno scorso ha avuto vita meno che breve, ed è stato un peccato; al che puoi imputare un certo didascalismo  di norma estraneo a Jnp, che si rivolge a lettori evoluti. Absit iniuria.

 Non c’è arte la cui storia non sia contesta di personaggi e di episodi pittoreschi e il jazz non ne conta di sicuro meno di nessun’altra. In particolare, le circostanze relative alla registrazione di molti dischi famosissimi presentano un materiale che, nelle mani di uno scrittore abile, si presterebbe bene a un racconto o a una sceneggiatura cinematografica.

 «Brilliant Corners» è uno dei dischi più celebri di Thelonious Monk, e giustamente; contiene le versioni definitive di due delle sue composizioni più note, Pannonica e Bemsha Swing, nonché l’unica di una composizione insolita e affascinante, Brilliant Corners, appunto. A suonare è una all-stars se mai ve n’è stata una (Sonny Rollins al sax tenore, Oscar Pettiford al contrabbasso, Max Roach alla batteria, più lo sventurato Ernie Henry al sax alto), formazione quale poche altre volte capitò a Monk di guidare. Sorprende quindi che le sedute di registrazione siano state travagliatissime: Monk, sempre esigente ma in quei giorni particolarmente pestifero, cominciò subito a dare il tormento al grande Oscar Pettiford (i due, che una quindicina d’anni prima erano stati insieme nel manipolo dei creatori del bebop, non si sarebbero mai più rivolti la parola); i fiati incontrarono tali difficoltà nell’esecuzione dello spigoloso tema di Brilliant Corners che l’esecuzione che oggi ne ascoltiamo è il risultato del paziente taglio e cucito di ben venticinque diverse takes, operato dal produttore della Riverside Orrin Keepnews con una prassi all’epoca inconsueta. Infine, due delle più suggestive e poetiche invenzioni presenti nel disco, cioè l’uso della celesta in Pannonica e dei timpani in Bemsha Swing, sono frutto del caso, perché Monk si ritrovò quegli strumenti nello studio e decise lì per lì che li avrebbe impiegati. Un tratto questo d’improvvisazione, anzi, di serendipità, squisitamente  jazzistico, a suggello di un disco che, pur con tutto il suo percorso accidentato, è forse il più esteticamente coerente e uniformemente godibile del suo autore.

 Pannonica (Monk), da «Brilliant Corners», [Riverside] OJCCD-026-2. Ernie Henry, sax alto; Sonny Rollins, sax tenore; Thelonious Monk, piano, celesta; Oscar Pettiford, contrabbasso; Max Roach, batteria. Registrato nel dicembre 1956.

sabato 22 luglio 2017

I’m All Smiles – The Girl And The Turk (Francy Boland)

 Eccoci qui. Non lascerò mai Jnp del tutto, né per il vero posso garantire che lo manterrò con la frequenza a cui eravamo abituati. Non lo so: forse che sì, forse che no.

 Si riprende per il momento con Francy Boland, squisito compositore, arrangiatore e caporchestra (con  Kenny Clarke), pianista ricco di swing. Come in molti pianisti jazz europei della sua generazione – Boland era nato in Belgio nel 1929, è morto nel 2005 – si sente in lui l’ammiratore di Lennie Tristano. The Girl And The Turk era nel repertorio della Clarke-Boland Big Band; il turco era Ahmed Muvaffak «Maffy» Falay, un trombettista che fece brevemente parte dell’orchestra e che doveva essere un personaggio colorito, visto che ispirò un’altra composizione di Boland, Muvaffak’s Pad.

 Kenny Clarke è una costante meraviglia, così nel trio come nella big band; se non è stato il massimo batterista del jazz, credo che ne sia stato il più fantasioso.

 I’m All Smiles (Martin), da «Playing With The Trio», Schema/Rearward RW 148 CD. Francy Boland, piano; Jimmy Woode, contrabbasso; Kenny Clarke, batteria. Registrato il 19 febbraio 1967.

 The Girl And The Turk (Boland), id.