Nina Simone arrangia la canzone di Cole Porter a passacaglia, come avrebbe potuto fare John Lewis, con una intro pianistica che in realtà occupa gran parte del pezzo. Quando entra la sua voce androgina, non arriva nemmeno a enunciare la melodia, che non sarebbe riconoscibile se non fosse per le parole. Qui, forse, non è tanto il caso di un’esecuzione musicale che contraddice lo spirito dei versi: direi che li interpreta come un desiderio destinato non solo a non essere esaudito, ma ad avere un qualche esito infausto, così doloroso che non è nemmeno immaginabile.
You’d Be So Nice to Come Home To (Cole Porter), da «At Newport», Colpix Records CP 412. Nina Simone, canto, piano; Al Shackman, chitarra; Chris White, contrabbasso; Bobby Hamilton, batteria. Registrato al Festival del jazz di Newport, 30 giugno 1960.
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2 commenti:
E quando l'esito infausto si è già consumato, come in "Ne me quitte pas", quando l'implorazione si sa già destinata a non essere ascoltata, Nina Simone arriva a comunicare uno strazio così profondo, così insopportabile, che si immagina benissimo cosa potrebbe succedere dopo. E tutto ciò solo con la voce, senza l'aggiunta di alcun gesto teatrale - che era invece la caratteristica di Brel -, addirittura senza mimica facciale. Una fredda, assoluta disperazione (solo la Billie Holiday di "Strange Fruit" mi fa questo effetto). Grandiosa.
Grazie, Paolo. E poi dicono che la musica non comunica altro che se stessa.
M.
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