giovedì 1 settembre 2011

New Generation (Albert Ayler)

  Giusta la retorica dell’opus ultimum, l’ultimo lavoro di un artista, incombendo la morte, recherebbe in qualche modo presagio di quella e costituirebbe un compendio in extremis della sua poetica. Le pagine più nobili e famose entro questo luogo comune sono forse quelle che, nel Doktor Faustus,Thomas Mann fa pronunciare al maestro Kretschmar sulla sonata op. 111, ultima delle trentadue per pianoforte di Beethoven.

  Mi arrogo tutte le circostanze attenuanti, per prima quella che io di Thomas Mann non arrivo alle caviglie, per non dir niente dell’opus ultimum di Albert Ayler (in cui includo anche i due dischi successivi, dell’anno dopo).

  Anche perché, come molti altri, non so tuttora che cosa pensarne.

  New Generation (Ayler), da «New Grass», Impulse! AS 9175. Burt Collins, Joe Newman, tromba; Garnett Brown, trombone; Seldon Powell, sax tenore, flauto; Albert Ayler, sax tenore; Buddy Lucas, sax baritono; Call Cobbs, clavicembalo; Bill Folwell, basso elettrico; Rose Marie McCoy, Mary Maria Parks, canto; Bert DeCoteaux, arrangiamento e direzione. Registrato il 5 settembre 1968.



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6 commenti:

negrodeath ha detto...

A me piace da morire, New Grass. Si inserisce secondo me in quella corrente pannegrista della seconda metà dei '70, nel tentativo di portare assieme jazz, soul, funk etc. per rinnovare e sintetizzare la musica nera. In maniere diverse, Archie Shepp e Miles Davis negli stessi anni avevano le stesse mire, pur realizzandole ognuno a modo suo.

Paolo Lancianese ha detto...

Io invece penso che, a quella altezza, Ayler avesse già esaurito la sua spinta propulsiva, alla ricerca - forse - di un improbabile riconoscimento, anche commerciale (successe pure a un suo coetaneo italiano, in un ambito diverso ma con identico tragico finale). Ho approfittato dell'occasione (è per questo che non si finirà mai di essere grati abbastanza a Marco) per riascoltarlo (forse per ascoltarlo davvero per la prima volta, tutto difilato) e sono ancora in preda all'emozione che mi hanno procurato "Spiritual Unity", il "Live in Greenwich Village", "Spirits Rejoice" - roba dura, durissima, ma contro cui vale la pena di sbattere la testa. Per scoprire che Ayler, come tutti i grandi innovatori, non voleva innalzare montagne ma scavare buche, buche profonde per arrivare sino alle radici, sapendo che lì c'è già tutto. Anche lo spirito, ma soprattutto gli spiriti, i fantasmi che a volte rendono invivibile l'esistenza. E' la scoperta dell'acqua calda? E' comunque quello che più o meno mi è venuto in mente stamattina - e chiedo scusa per la prolissità. (Quanto alla retorica dell'opus ultimum, forse varrebbe la pena non pensarne niente mai. Ci sono più presagi nelle opere prime e, quanto più distanti nel tempo dalla morte dell'autore, tanto più inquietanti).

Marco Bertoli ha detto...

Do ragione a Paolo su tutta la linea (a proposito, Paolo: occhio alla cassetta delle lettere nei prossimi giorni). Il passaggio di Ayler dal sublime dei dischi che Paolo nomina a «New Grass» non lo digerisco proprio. E un pezzo come quello che ho pubblicato è secondo me volgare (la parte vocale è inqualificabile), altro che Miles o Shepp, Niccolò! - a proposito, aspetto sempre il tuo guest post.

sergio pasquandrea ha detto...

concedo ad ayler tutte le attenuanti della buona fede, ma purtroppo devo dare ragione a marco: 'sta roba è veramente dozzinale.

Jazz nel pomeriggio ha detto...

E il fatto che tu mi dia ragione non mi consola dal non aver ricevuto il tuo guest-post, distratto come sei dalle ansie didattiche.

sergio pasquandrea ha detto...

le idee ci sono, marco. ci vuole solo il tempo per metterle per iscritto.
comunque prometto che la settimana prossima ti sottopongo un paio di proposte.