giovedì 27 agosto 2020

Love, the Mystery Of… (Art Blakey)

 L’interplay fra jazz e Africa, o sia fra America e Africa, che cominciò alla metà degli anni Cinquanta, è questione complessa e in fondo poco dibattuta, per quanto alcuni anni fa se ne sia occupato estesamente con un saggio-réportage impegnativo e problematico l’etnomusicologo Steven Feld. 

 In quegli anni la questione si poneva sul crinale fra consapevolezza culturale e razziale e relativi conflitti, e un gusto diffuso, non solo a livello pop, per l’exotica e il primitivo. Dall’Africa cominciavano ad arrivare in America, attratti dal jazz ma con un bagaglio distinto e originale, musicisti africani: Babatunde Olatunji, nigeriano, fu quello che avrebbe avuto il successo più grande; ma Guy Warren, dal Ghana, avanzava pretese di maggiore autenticità. L’uno e l’altro, fra il 1956 e il 1966 circa, pubblicarono per case importanti (Decca, Columbia) dischi che cercavano un incontro fra jazz e musiche dell’Africa: e parliamo degli anni in cui il massimo successo di musica «africana», via i Caraibi, era il calypso all’acqua di rose di Harry Belafonte, che di un LP con quel titolo, uscito nel 1956, vendette più copie di quante un singolo artista avesse mai venduto: a milioni, letteralmente

 La disposizione crossover di Olatunji oscurò il relativo maggior rigore di Warren, che patì un paradosso: la sua composizione più famosa, Eyi Wala Dong, pubblicata in origine nell’LP «Africa Speaks, America Answers» (1957), diventò qualche anno dopo una vera hit nell’esecuzione del tedesco Bert Kaempfert, il compositore di Strangers in the Night, rititolata That Happy Feeling e in un divertente arrangiamento dotato di tutti i crismi più smaccati del genere exotica.

 Per essere presa sul serio, l’Africa avrebbe dovuto attendere una temperie culturale più propizia, coincidente con l’ultima fase dei processi di decolonizzazione. Tuttavia in quel periodo di mezzo più di un jazzista di nome sviluppò un interesse almeno superficiale per la musica africana, identificata interamente coi tamburi, e più di tutti Art Blakey e Randy Weston. 

 Ora, vale riportare quanto Guy Warren raccontò anni dopo, una volta tornato in Ghana, assunto il nome di Ghanaba («figlio del Ghana») e diventato una figura fondante del c.d. afrojazz. A suo dire, l’interesse e l’apertura maggiore verso la musica dell’Africa li dimostrarono i musicisti bianchi; gli africani-americani, viceversa, erano tutti presi (parole di Warren) dal «voler diventare le nuove stelle del bebop». Il suo LP più famoso, il succitato «Africa Speaks, America Answers», Warren lo registrò con dei jazzisti italoamericani di Chicago. Sempre Warren-Ghanaba, intervistato nel 1994 dal musicista ghanese Nii Noi Nortey: «Ho impiegato dei collaboratori bianchi perché sono in grado di imparare e di farsi insegnare cose diverse dalle loro; hanno la preparazione che gli consente di assorbirle. Noi neri non siamo così» (questa affermazione, che io prenderei con un grano di sale come tutte quelle dalla stessa fonte, viene da domandarsi se sia più offensiva per i musicisti neri o per i bianchi).

 In questo «The African Beat» del 1962, Art Blakey, alla testa di un suo Afro-Drum Ensemble, esegue Love, the Mystery Of…, un’altra composizione di Warren. Ecco che cosa Warren ne ha avuto da dire: 
Art Blakey mi annoia a morte, due minuti e sono pronto per andare a dormire. (…) In quella canzone è orrendo, rumoroso, stupido. La parte di Lateef è l’unica del disco che valga qualcosa.
 (Warren-Ghanaba ha trovato una parola buona anche per Randy Weston: «La sua versione della musica africana ha avuto successo, ma i suoi bassi sono tutti sbagliati»).

 Love, the Mystery Of… (Warren), da «The African Beat», Blue Note BLP 4097. Art Blakey And The Afro-Drum Ensemble: Yusef Lateef, oboe; Ahmed Abdul-Malik, contrabbasso; Art Blakey, batteria, timpani, gong; Montego Joe, James Ola Folami, Chief Bay, Curtis Fuller, Robert Crowder, Garvin Masseaux, percussioni; Solomon Ilori, canto, penny whistle, talking drum. Registrato il 24 gennaio 1962.

6 commenti:

loopdimare ha detto...

Lanci una bomba a fine agosto, nel tuo buen retiro, invece che sulla pagina del jazz!
vado avanti per annotazii sparse:
1 - il direttore artistico di Harry Belafonte agli inizi era Tony Scott che però non volle firmare nulla.
2 - confrontando questi dischi di richiamo africano, con la musica africana (anche jazz) conosciuta dagli anni 70 in poi, trovo poco assonanze, se non qualcosa di superficiale. Ne trovo di più con le musiche africane sviluppatesi poi nell'America Latina.
3 - il progetto Mboom di Max Roach è certamente molto più sofisticato e pretenzioso. Qui Blakey fa troppo la star.

loopdimare ha detto...

4 - Tony Scott successivamente andò in Africa a incidere con musicisti africani.

Marco Bertoli ha detto...

-- nel tuo buen retiro, --

Non mi sono ritirato affatto!

andrea 403 ha detto...

Grazie!
I posto dove c'è da leggere, oltre che d'ascoltare, sono i miei preferiti.

alessandro ha detto...

Che il colore della pelle determini differenze nella capacità di imparare mi sembra effettivamente un’emerita sciocchezza.
Invece le sue opinioni sulla musica «africana» fatta da jazzisti statunitensi mi paiono partire quanto meno da una cognizione di causa. Per esempio credo che sia proprio vero che Art Blakey (come forse anche Roach) si ispirasse in quei casi a un’idea oleografica (o exotica, se vogliamo) di musica africana («identificata interamente coi tamburi»), anziché a una o più delle tante musiche dell’Africa reale.

Marco Bertoli ha detto...

Il fatto è che Warren-Ghanaba, un tipo straordinario ma dal carattere “volatile“, pativa un'insana invidia per Olatunji…