Il saxofono baritono è uno strumento ingrato, difficile e inerentemente rumoroso (ascoltate, sotto, il duetto di James Carter e Hamiet Bluiett). Se notevoli baritonisti nel jazz non sono mancati, anche se non nella misura del tenoristi o degli altisti, pochi si sono sottratti alla rude materialità del suo suono: Harry Carney, praticamente inventore dello strumento e colonna insostituibile dell’orchestra di Duke Ellington per oltre quarant’anni, e Gerry Mulligan, inventore del baritono moderno.
Ma nessuno ha mai suonato il grosso saxofono con la delicatezza e la ricchezza di sfumature di Serge Chaloff, uno dei four brothers di Woody Herman, che dava spesso l’impressione di sentire un sax tenore, magari un Ben Webster. Ascoltatelo qui, accompagnato da una sezione ritmica con la quale avrei suonato bene anch'io.
Thanks For The Memory (Rainger-Robin), da «Blue Serge», Capitol. Serge Chaloff, sax baritono; Sonny Clark, piano; Leroy Vinnegar, contrabbasso; Philly Joe Jones, batteria. Registrato il 14 marzo 1956.
Per il primo disco a suo nome, intitolato «Coltrane», del 1957, John Coltrane scrisse due composizioni (Straight Street e Chronic Blues) e arrangiò un pezzo di Cal Massey (Bakal) e due standard per una front line con tre fiati.
Straight Street è significativa per due motivi: perché presenta già il gusto della complicazione armonica, della vera corsa a ostacoli fra i cambi d’accordo (si pensi a Moment's Notice in «Blue Train») che gli sarebbe servito come punto di partenza per poi, verso il 1960, liberarsi degli accordi, e per il titolo: la «retta via» è probabilmente quella della sobrietà, che Coltrane aveva da poco imboccato dopo anni di dipendenza dall’alcol e dall’eroina.
Con lui, naturalmente al sax tenore, suonano l’ignoto Johnny Splawn alla tromba, Sahib Shihab al sax baritono, Mal Waldron (chi si rivede) al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Albert 'Tootie' Heath alla batteria. Da «Coltrane», Prestige-OJCCD-020-2. Registrato il 31 maggio 1957, esattamente cinquantatré anni fa!
John Coltrane, famoso per le improvvisazioni esorbitanti in cui pareva voler esaurire se stesso e l’universo mondo, celava l’anima di un balladeur squisito, dalla sonorità delicata e vulnerabile, meravigliosamente inflessa.
Lo dimostra in questo Soul Eyes di Mal Waldron (presenza carsica di questo blog), eseguito nel 1963 dal classico quartetto con McCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria.
da «The Gentle Side of John Coltrane», Impulse! GRP 11072
Ti ho già fatto ascoltare questa canzone nella versione di un altro trio pianistico, quello di un giovane Cecil Taylor. Qui te la ripresento nella versione che, nel 1998, ne ha dato Ethan Iverson, noto soprattutto come pianista dei Bad Plus e mio preferito fra i giovani pianisti jazz (e manutentore dell'indispensabile blog Do the Math, v. qui a destra). Iverson mi ha detto di aver conosciuto la canzone proprio nella versione di Taylor.
Dove l’esecuzione di Taylor era provocatoriamente modernistica, quella di Iverson è liricamente postmoderna (dedico il pezzo al mio amico Alessando Achilli, a cui per vie piuttosto attorte è caro).
This Nearly Was Mine (Rodgers- Hammerstein III), da «Deconstruction Zone», Fresh Sound FSNT 047 CD. Ethan Iverson, piano; Reid Anderson, contrabbasso; Jorge Rossy, batteria. Registrato il 4 aprile 1998.
Il pezzo è notissimo ed è contenuto nel primo disco di Herbie Hancock a proprio nome, «Takin’ Off» del 1963 (Hancock aveva 22 anni all’incisione) È una di quelle musiche che, sentite una volta, sembra già di conoscerle da sempre e non si dimenticano più, un vero archetipo. È anche un tipico esempio di quello che nei primi anni Sessanta era la caratteristica funky nel jazz: una musica basata sul blues, con una semplice e ripetuta linea di basso e un insistito backbeat (si pensi per esempio anche a The Sidewinder di Lee Morgan).
Watermelon Man, da «Takin’ Off», BLue Note CDP7243 8 37643 7: Freddie Hubbard, tromba; Dexter Gordon, sax tenore; Herbie Hancock, piano; Butch Warren, contrabbasso; Billy Higgins, batteria. Registrato il 28 maggio 1962.
Undici anni dopo il funky era diventato quasi un genere a sé, diciamo meglio un sottogenere del rhythm’n’blues e del soul, con in più influssi rock. Hancock, smanioso di essere sempre sulla breccia (tratto di cui l’aveva probabilmente infettato il suo leader Miles Davis, che però, anche accostandosi al funky, prese una strada molto diversa: ne parleremo), propose nel 1974 questa nuova versione di Watermelon Man, armonicamente modificata e formalmente estesa, con il suo gruppo tutto elettrico Headhunters. Altro immenso successo. I bizzarri suoni che si sentono all’inizio e alla fine vengono da una registrazione sul campo di canto pigmeo e dal Bill Summmers che soffia in una bottiglia di birra.
Watermelon Man, da «Head Hunters», Columbia CK 65123: Herbie Hancock, tastiere e sintetizzatori ARP; Bennie Maupin, sax soprano; Paul Jackson, basso elettrico; Harvey Mason, batteria; Bill Summers, percussioni. Registrato nell'autunno del 1973.
Un’assorta versione in solitudine di questa composizione di Carla Bley (ex-moglie di Paul) dedicata a Gato Barbieri, registrata nell’agosto 1974. L’influenza di Paul Bley su molti pianisti contemporanei, primo fra tutti Keith Jarrett, sarebbe un soggetto di studio interessante.
Da «Alone, Again», Improvising Artists Inc. IAI 37.38.40. Paul Bley, piano. Registrato nell’agosto 1974.
Bellissimo duetto non accompagnato di Lee Konitz, sax alto, e Joe Henderson, sax tenore, su uno degli standard più noti (di Raye - DePaul), dal disco a nome di Konitz «The Lee Konitz Duets», Milestone OJC 00025218646628, inciso il 25 settembre 1967.
My Favorite Things, dall’insopportabile musical The Sound Of Music di Rodgers-Hammerstein III, dovette la sua celebrità jazzistica alle innumerevoli, ubriacanti versioni che ne diede nella prima metà degli anni Sessanta il quartetto di John Coltrane. Tanti altri hanno poi eseguito la canzone più o meno in tutte le salse, cantate e strumentali. Ma la salsa cosmica di Sun Ra ha sempre un sapore suo, inconfondibile con altri, anche se magari non per tutti i gusti. L’innocuo (e anche un po’ insulso) valzerino di Richard Rodgers, con inopinate tensioni armoniche, un colore generale inaudito dato dalle tastiere del leader e la pronuncia particolarissima del sax tenore di John Gilmore, fra un tardo Coltrane e il deadpan totale, ne fanno qualcosa d’inquietante: favorite things, forse, ma davvero things dell’altro mondo.
My Favorite Things (Rodgers-Hammerstein III), da «New Steps», 101 DISTRIBUTION (già HORO, 1978). Michael Ray, tromba; John Gilmore, sax tenore; Sun Ra, tastiere; Luqman Ali, batteria. Gennaio 1978.
Prima di diventare il presidente del loft jazz e un’eminenza grigia del tardo free jazz (soprattutto in Europa, dove nella seconda metà degli anni Settanta era onnipresente con il suo trio, un po’ come Anthony Braxton, musicista da lui diversissimo), Sam Rivers è stato un saxofonista (e poi flautista, clarinettista, pianista) dalla lunga e variata carriera, cominciata nel rhythm ’n’ blues (nato nel 1923, ancora nel 1962 accompagnava il chitarrista T-Bone Walker).
Alla metà degli anni Sessanta, dopo un transito brevissimo e non felice nel quintetto di Miles Davis, registrò alcuni dischi per la Blue Note in contesti relativamente tradizionali ma che proprio per questo ne mettevano in luce le doti di compositore ingegnoso e lo stile strumentale abbastanza oltranzistico, fra un Coltrane e un Ayler di belle maniere.
Lo si sente bene in questo Fuchsia Swing Song dall’omonimo Blue Note BLP 4184, dove Rivers suona il sax tenore accompagnato da Jaki Byard al piano, Ron Carter al contrabbasso e Tony Williams alla batteria. Registrato l’11 dicembre 1964.
In questo duetto registrato a Milano il 17 febbraio 1986 risalta in primo luogo la bellezza della melodia e delle armonie della canzone di Billy Strayhorn; e poi l’agio completo e amorevole di due maestri del jazz moderno e modernissimo nel maneggiare questo gioiello. Credo proprio che, dopo Sidney Bechet, nessuno, nemmeno Coltrane, abbia mai suonato il soprano meglio di Steve Lacy.
A Flower is a Lovesome Thing, da «Sempre Amore», Soul Note SN 1170 (1987). Steve Lacy, sax soprano; Mal Waldron, pianoforte.
Com’era un hit discografico negli anni Trenta? Beh, Loch Lomond, una canzone tradizionale scozzese, diventò un hit favoloso nel 1937 nell’aggraziata e swingante versione della cantante Maxine Sullivan.
Al piano, e autore dell’arrangiamento,Claude Thornhill, che nella storia del jazz ha un ruolo non secondario per aver diretto, nella seconda metà degli annni Quaranta, un’orchestra dall’organico insolito (con tuba e corno francese, fra l’altro) di cui fu arrangiatore Gil Evans, che portò strumentazione e molte idee alle sedute del seminale nonet di Miles Davis del 1948-49 («Birth of the Cool») e poi nelle sue orchestre degli anni successivi.
Loch Lomond (trad.), da «Swing Street, Vol. 1», TAX S-9-2: Maxine Sullivan accompagnata da Frankie Newton, tromba; Buster Bailey, clarinetto; Pete Brown, sax alto; Babe Russin, sax tenore; Claude Thornhill, piano; John Kirby, contrabbasso; O’Neil Spencer, batteria. 6 agosto 1937.
Dopo il Braxton rivisitato (un po’ per ridere…) da James Carter nel 1996, un Anthony Braxton d’annata e in una sua annata delle migliori, con un quartetto leggendario in uno dei suoi introvabili Arista (scusatemi, ometto il diagramma stavolta); fiammeggiante, sardonico, a quasi quarant'anni di distanza ancora il jazz più avanzato che si possa ascoltare.
Cut One, da «New York, Fall 1974», Arista AK 4032. Anthony Braxton, sax alto; Kenny Wheeler, tromba; Dave Holland, contrabbasso; Jerome Cooper, batteria. 27 ottobre 1974.
Oggi, cari lettori, vi voglio allegri e ballanti ma solo per poco più di due minuti; Django Bates alle tastiere e Steve Argüelles alle percussioni eseguono My Girl, hit dei Temptations del 1965, quasi as it is. Dal disco del 1985 «Human Chain» (AH-UM 002).
Ebbe un bel coraggio la Transition, il 14 settembre 1956, a fare incidere a Cecil Taylor questo suo disco d’esordio «Jazz Advance» (ristampato come Blue Note, 84462-2). Se si pensa al jazz che era allora moneta corrente, con poche eccezioni (Mingus, George Russell: ma Taylor era ancora un’altra cosa), un vero pugno nello stomaco.
Ma Taylor ha sempre rispettato la tradizione del jazz e questa esecuzione dell’ellingtoniana Azure, in cui anche stilisticamente rende omaggio al Duca (oltre che, fate attenzione alla sua mano sinistra, a Horace Silver), è amorosa per quanto audace. Con Buell Neidlinger al contrabbasso e Dennis Charles alla batteria (in altri due pezzi è presente un altro grande eccentrico, il giovanissimo Steve Lacy al sax soprano)
Qui trovo ben poco da dire, se non che il pezzo è scritto dal principio alla fine, a dimostrazione che può esistere (e ne esiste in quantità) grandissimo jazz senza una nota d’improvvisazione.
Crespuscule with Nellie di Thelonious Monk, da«The Thelonious Monk Orchestra At Town Hall» (Riverside RLP 12-300).
Donald Byrd, tromba; Eddie Bert, trombone; Bob Northern, corno francese; Jay McAllister, tuba; Phil Woods, sax alto; Charlie Rouse, sax tenore; Pepper Adams, sax baritono; Thelonious Monk, piano; Sam Jones, contrabbasso; Art Taylor, batteria; Hall Overton, arrangiamento. Town Hall, NYC, 28 febbraio 1959.
Devo avere New Orleans in mente in questi giorni, e sì che non ci sono nemmeno mai stato. Gli ultimi anni di Duke Ellington, dopo la morte del braccio destro Billy Strayhorn, hanno continuato a produrre tesori. Uno è la «New Orleans Suite» (Atlantic 7567-81376-2) del 1970, di cui qui ti propongo questo emozionante Portrait of Mahalia Jackson, ultimo movimento, in cui tutta l’orchestra diventa un coro in trasporto mistico per ricordare la suprema interprete del gospel.
Duke Ellington, piano; Cootie Williams, Cat Anderson/Money Johnson, Mercer Ellington, Al Eubin, Fred Stone, tromba e flicorno; Booty Wood e Julian Priester, trombone; Dave Daylor/Chuck Connors, trombone basso; Russell Procope, sax alto e clarinetto; Johnny Hodges, sax alto; Norris Turney, sax alto, clarinetto, flauto; Harold Ashby, sax tenore e clarinetto; Paul Gonsalves, sax tenore; Harry Carney, sax baritono, clarinetto, clarinetto basso; Joe Benjamin, contrabbasso; Rufus Jones, batteria.
Sidney Bechet, padre del sax soprano, grande clarinettista di New Orleans, forza della natura.
È al clarinetto in questo intenso Lonesome Blues di Lil Hardin (la pianista, prima moglie di Louis Armstrong) con Teddy Bunn, chitarra, George 'Pops' Foster, contrabbasso, Sid Catlett, batteria, il 27 marzo 1940. Originariamente uno dei Blue Note di Bechet, questo pezzo si trova oggi nel box Mosaic Select MS-022 e in varie antologie (io l’ho preso da «An Introduction to Sidney Bechet - His Best Recordings», Best of Jazz Records, 1995).
A un certo momento della sua vita Jelly Roll Morton girava con una carta da visita che lo definiva «originator of blues and jazz». Nessuno può vantare la paternità di una forma d’arte, naturalmente, ma se per gioco dovessimo assegnare quella del jazz, non avrei molti dubbi a darla a Jelly Roll. Se non conosci la sua importanza di compositore, pianista, organizzatore e primo intellettuale del jazz, come l’ha definito Alan Lomax, cara lettrice, caro lettore: corri ai ripari, io qui non ho tempo né voglia di aiutarti.
Io dirò solo che secondo me Jelly Roll Morton è stato, dopo Louis Armstrong, la più grande voce maschile del jazz. Lo dimostra in questo Buddy Bolden Blues (noto anche come I Thought I Heard Buddy Bolden Say e con versi lievemente differenti), in cui evoca, in un misterioso contesto che potrebbe ben essere voodoo (alle cui pratiche JRM era tutt’altro che estraneo) ed è comunque senz’altro denso in double talk, personaggi leggendari della New Orleans della sua giovinezza come i musicisti Buddy Bolden, appunto, Frankie Dusen, Judge Fogharty. Accompagnandosi al piano, passa da un sobrio stile barrel house alle raffinatezze, nell’ultimo chorus, del grande interprete e compositore di ragtime che era. Morton incise questo Buddy Bolden Blues nell’ambito delle sue registrazioni documentarie per la Library of Congress di Washington nel maggio 1938, su iniziativa di Alan Lomax, tutte raccolte in un box dalla Rounder Records (011661189720).
Il testo di Buddy Bolden Blues come cantato da Jelly Roll Morton:
And I thought I heard Buddy Bolden say Nasty bunch of dirty, take it away You're terrible, you're awful, Take it away, I thought I heard him say.
I thought I heard Buddy Bolden shout Open up the window, let the bad air out Open up that window, let the foul air out I thought I heard him shout.
I thought I heard Judge Fogarty say, Thirty days in the Market, Take him away Give him a good broom to sweep with, take him away I thought I heard him say.
Nel 1979 il trio Air, una delle grandi formazioni post-free del decennio (Henry Threadgill ai saxes e al flauto, Fred Hopkins al contrabbasso, Steve McCall alla batteria) pubblicò «Air Lore» (RCA 6578-2-RB), omaggio alle radici più profonde del jazz. Proprio su Buddy Bolden BluesThreadgill, al tenore, esegue un assolo vocale, d’intensità devastante, e gli altri due non gli sono da meno (Hopkins, morto alcuni anni fa, è stato forse il più forte contrabbassista degli ultimi trent’anni. Sorry, William Parker).
E sempre per prevenire i danni possibili del lunedì (non è detto che le contorsioni armoniche di Ornette facciano per tutti), ecco un pezzo composto da Duke Ellington per una delle sue inestimabili sedute con i piccoli gruppi tratti dalla sua orchestra.
Questo, Stompy Jones, è in sestetto con Harry «Sweets» Edison (non un ellingtoniano ma un basiano), tromba, il sempre incomparabile Johnny Hodges, sax alto, Duke Ellington, piano, Les Spann, chitarra, Al Hall, contrabbasso e Jo Jones (no less!, e altro basiano), batteria. Viene dal disco «Side By Side» (Verve 521-405-2). Il pezzo è stato inciso il 20 febbraio 1959. Godetevi questa gioia e fate caso a come l’esecuzione sia dominata dal piano del Duca, tanto negli accompagnamenti che nell’assolo.
Oggi, lettrice, lettore, ti faccio un vero regalo per addolcirti il lunedì (anche se a me, di norma, il lunedì va a genio, e non tanto perché oggi sia il 24 maggio, giorno sacro alla Patria), con tre versioni dello stesso magnifico pezzo.
Turnaround è una delle composizioni più note ed eseguite di Ornette Coleman, presente per la prima volta nell’album «Tomorrow is the Question!» (Contemporary, poi OJC OJCCD342) inciso il 16 gennaio e il 10 marzo 1959, in quartetto senza pianoforte con Don Cherry alla tromba, Red Mitchell al contrabbasso e Shelly Manne alla batteria (in altri brani del disco, il contrabbasso è nelle mani di Percy Heath). È una delle sue composizioni più caratteristiche: s’inizia come il più convenzionale dei blues in 12 battute, se non che le penultime due, il «turnaround» appunto, anziché preparare la cadenza dalla dominante alla tonica di Do Maggiore, se ne allontanano, pur ricadendo sul Do all’inizio del chorus.
Nel 1977 Charlie Haden, storico contrabbassista dei quartetti di Ornette degli anni Sessanta, registrò questa viscerale versione del quasi-blues in duo con il grande pianista californiano Hampton Hawes nel disco di duetti «The Golden Numbers» (Horizon, poi A&M). Non so se che cosa qui mi piaccia di più: gli interventi bluesy e a tratti quasi gospel di Hawes, che aveva uno dei tocchi più personali di tutta la storia del piano jazz, con la sua spontanea gestione delle asprezze armoniche del brano, o l’assolo marmoreo, non accompagnato e armonicamente liberissimo di Haden (sentite, proprio alla fine, la solennità quasi organistica con cui Haden fa risuonare gli accordi che preparano il rientro del piano). Di fatto, qui i due suonano insieme come se non avessero mai fatto altro. Hampton Hawes sarebbe morto più tardi quello stesso anno, ancora in giovane età.
Hawes e Haden erano stati preceduti, piuttosto sorprendentemente, da Pee Wee Russell, il bizzarro e personalissimo clarinettista (1906-1969) che aveva esordito negli anni Venti addirittura con Bix Beiderbecke e Frankie Trumbauer e che fu per il resto dei suoi giorni – con suo rammarico – associato al «Dixieland revival» della cerchia di Eddie Condon. In realtà Pee Wee era il classico inclassificabile a suo agio con chiunque (suonò anche con Thelonious Monk) e a casa da nessuna parte e ben lo sapeva Marshall Brown, il trombonista e didatta che nel 1965 lo cooptò in un suo quartetto per registrare un paio di LP uno dei quali («Ask Me Now!», Impulse 755 742-2, con Russell George al contrabbasso e Ronnie Bedford alla batteria) si apre appunto con Turnaround (osservo comunque che Russell, nel suo assolo, si attiene alla normale sequenza blues), nonché contenere Some Other Blues di John Coltrane e Ask Me Now di Monk.
Istruttivo il contrasto espressivo fra Russell e Brown, che qui suona la tromba bassa: la poesia e la prosa, davvero…
Warm Canto, dall’LP di Mal Waldron«The Quest» (originariamente Prestige, ora OJCCD-082-2), registrato il 27 giugno 1961.
Negli anni 1960 e 1961 circolava un umore particolare nel jazz newyorkese: in molti dischi registrati in quei 24 mesi, spesso da musicisti presenti in questa seduta, c’è non solo una qualità musicale di ricerca ma una qualità espressiva di malinconia autunnale tenera e un po’ cupa. Come se aleggiasse la consapevolezza che tanti artefici di quel decennio musicalmente prodigioso e sconvolgente non ne avrebbero visto la fine - quel 27 giugno, a Eric Dolphy restavano esattamente tre anni e due giorni di vita.
Di ciò fa fede questo struggente Warm Canto, composto dal leader Waldron. Nelle note al disco è descritto così: È costruito sul modo frigio – MI FA SOL LA SI DO RE MI – ma (…) con un Fa# aggiunto alla fine. «È un modo strano», dice Mal. «A volte ha un suono freddo, altre, caldo. Qui è caldo, ma come in una giornata fresca. In cielo c’è il sole, ne senti i raggi sulla pelle, ma non sudi».
Che io sappia (ma mi aspetto di essere contraddetto da qualche commentatore), è l’unico brano nel «corpus» maggiore di Eric Dolphy in cui Eric suoni il clarinetto in Si bemolle, cioè non il clarinetto basso, che era invece uno dei suoi strumenti abituali. Lo fa, credo volutamente, con un’intonazione incerta, lievemente calante, perfettamente adeguata all’ambiguità del modo frigio (lo stesso fa Ron Carter nel suo assolo pizzicato di violoncello). Sublime nella sua semplicità l’assolo di Mal Waldron.
Eric Dolphy, clarinetto, Mal Waldron, piano, Ron Carter, violoncello, Joe Benjamin, contrabbasso, Charli Persip, batteria (nel resto della seduta di «The Quest» è presente anche Booker Ervin al sax tenore).
Oggi ti propongo uno standard poco battuto dai jazzisti, This Nearly Was Mine di Richard Rodgers-Oscar Hammerstein III, dal musical «South Pacific». Fu una scelta insolita per Cecil Taylor in quello che credo sia il suo secondo disco, «The World of Cecil Taylor» (Candid CANI 79006), inciso il 12 e 13 ottobre 1960 con Buell Neidlinger al contrabbasso e Dennis Charles alla batteria.
Su youtube puoi sentire poi, fra molte, la versione originale di questa bellissima canzone, eseguita dal grande basso americano George London.
Buongiorno, lettore. Mi chiamo Marco Bertoli e già mantengo, negligentemente, un blog di jazz dove per lo più ripubblico articoli già usciti sulla rivista Musica Jazz o altrove.
Qui invece ti proporrò ogni giorno (se avrò costanza nell’impegno) un pezzo di jazz da ascoltare, di varia epoca e di diverso stile, secondo mi detterà dentro. Qualche volta magari aggiungerò una o due parole di commento e mi piacerebbe che lo facessi anche tu: apposta questo è un blog.
Oggi comincio proponendoti Catta, una composizione di Andrew Hill dal disco «Dialogue» di Bobby Hutcherson (Blue Note BLP 4198), registrato il 3 aprile 1965.
Vi suonano Freddie Hubbard alla tromba, Sam Rivers al sax tenore, Bobby Hutcherson al vibrafono, Andrew Hill al pianoforte, Richard Davis al contrabbasso e Joe Chambers alla batteria.