Come preannunciato in un commento di alcuni giorni fa, s’inaugura oggi la rubrica del Guest Post: un lettore sceglie per me e per tutti gli altri un pezzo e lo commenta come meglio gli pare.
La misteriosa Valentina, conforme al motto prima le donne e i bambini, rompe il ghiaccio con questa sua obliqua interpretazione di September in the Rain di Dinah Washington.
Valentina precisa di fare un «uso improprio» del jazz, che è esattamente l’uso che ne va fatto: questo pezzo mi va a genio e stabilisce già in partenza uno standard alto per il prossimo ospite, che mi auguro non si faccia aspettare – e che potrebbe ben essere ancora Valentina.
Con il primo era stato un disastro. Il secondo era troppo pieno di sé. Il terzo praticamente inconsistente. Il quarto non aveva retto ed era andato in pezzi subito. Il compromesso con il quinto non aveva funzionato… Un carosello imbarazzante di piccole catastrofi e demotivanti fallimenti. Oramai sul baratro della resa, eccolo!, quello capace di farti stampare in faccia un inequivocabile sorriso e di restituirti l’autostima. E mentre ne ammiri, compiaciuta, la composta perfezione e le aggraziate proporzioni, purtroppo realizzi che i feuilles de brick sono finiti e così pure il ripieno.
Quello spring roll, da solo, aggiusterà l’orgoglio ammaccato?
Ed è subito cena.
September in the Rain (Warren-Dubin), da «Unforgettable (The Best of Dinah Washington)», Charly. Dinah Washington. Registrato nel 1961.
Download
13 commenti:
Complimenti a Valentina. Per il gusto e - soprattutto - per la scrittura. Per la capacità di costruire, in dieci righe, un vero e proprio racconto.
(il Lancianese sa quello che dice, Valentina).
Grazie mille, davvero!
Valentina
Gustoso. E poi, per la prima volta in decenni di jazzofilia, mi chiedo qual'è l' "uso proprio" del jazz...
stabilisce già in partenza uno standard alto per il prossimo ospite
Per mettere a loro agio gli aspiranti potrei mandartene un paio io (ho già in mente cosa) in questo modo si abbasserebbe l'asticella e gli altri potrebbero cimentarsi con più serenità.
Comunque, complimenti a valentina...
Dài dài, manda manda.
Andrea 403, hai niente sul panettone?
Valentina
Musicalmente parlando? Sul panettone?...
mmm...
No no… Valentina cercava notizie sulla madre del panettone e le ho detto che tu ne hai
L'articolo scritto, all'epoca, da elena non ce l'ho e la memoria è un po' incerta... comunque ricordo che lei aveva intervistato questo pasticciere che aveva una madre del panettone che, decenni prima, era stata parte di quella originale del signor Motta (in epoca pre-industriale). Questa madre lui la custodiva tutto l'anno (portandosela anche in vacanza per nutrirla quando era via). Qualche settimana prima di entrare in produzione per natale, cominciava a nutrirla di più e nel giro di poco passava da un panetto di qualche etto a centinaia di chili di impasto, che lievitava, veniva infornato e poi veniva messo appeso capovolto a raffreddarsi (per evitare che si "sedesse").
Mi ha sempre affascinato l'idea che potesse bastare anche pochissimo, anche il contenuto di un ditale, per dare vita a una nuova madre. Da allora vagheggio di scrivere una spy-story o un più classico giallo in cui il macguffin consiste in una piccola parte di una madre storica e preziosissima che viene trafugata.
Insomma la nobile arte del delitto e l'arte bianca coniugate assieme :)
Fantastico… avere una madre del panettone è come avere un cane, solo che richiede più cure. Farà altrettanta compagnia?
È anche suggestivo pensare che il panettone che mangiamo oggi discende in diretto lignaggio da un gnocco di pasta vecchio di decenni.
In teoria anche di qualche secolo!
L'immagine del pasticciere in vacanza con la mamma del pane è strepitosa! Mi domando se scegliessero insieme la meta.
Per un paio di settimane ho fatto da badante ai fermenti lattici di un'amica. Certo, non posso dire che siano stati di compagnia come lo sarebbe un cane, ma, del resto, un cane non saprebbe fare uno yogurt tanto buono. A ciascuno il suo.
Valentina
Posta un commento