martedì 8 gennaio 2013

On A Clear Day (You Can See Forever) - Never Let Me Go - Here’s That Rainy Day (Bill Evans)

 Fra le voci che sento in testa ogni tanto ce n’è una che mi dice: tu trascuri Bill Evans. Non capisco perché mi punga così, visto che Evans è comparso finora 13 volte su Jazz nel pomeriggio: il doppio di Art Tatum, per dire (una settimana fa sarebbe stato il quadruplo), il triplo di Earl Hines, tre volte in più di Bud Powell e due in più di Hampton Hawes, tutti pianisti che ascolto più spesso di Evans.

 Boh. Questo è il primo disco di Bill Evans in piano solo, senza nemmeno sovraincisioni: sorprende che un Bill Evans abbia aspettato il pieno della carriera (1968) per cimentarsi in quello che oggi, per molti pianisti jazz, è un punto di partenza. È uno dei suoi dischi che io preferisco perché contiene delle canzoni che mi piacciono molto e di cui Evans era interpete, a mio giudizio, impareggiabile. In una nota al disco dichiara con candore: «benché io sia un pianista professionista, a dire il vero ho sempre preferito suonare senza pubblico».

 Non so immaginare preferenza, proposito, progetto e quindi risultati più diversi da quelli, appena sentiti qua sopra, di Art Tatum. Anche per questo, pur trovando i tre assoli che seguono bellissimi e magistrali, e godendoli sempre molto, non trovo molto da dire.

 Comunque  ecco, per un po’ la vocina si troverà – com’è da poco invalso dire – silenziata.

 On A Clear Day (You Can See Forever) (Lane-Lerner) [Alt. take], da «Alone», Verve 0602498840320. Bill Evans, piano. Registrato il 21 ottobre 1968.



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 Never Let Me Go (Evans-Livingston) [Alt. take],  ib.



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 Here’s That Rainy Day (Van Heusen-Burke) [Alt. take], ib.



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11 commenti:

Anonimo ha detto...

Già, perché pianisti che valgono un dito di Bill Evans partono da una situazione, quella del piano solo, che per un gigante come lui fu un approdo della maturità? Io credo che pochi altri, nella storia di questa musica, furono più modesti, umili, timidi, chiusi nel proprio mondo e schivi di Evans. E questo spiega anche l'autoconsapevolezza di non essere uno show man, un animale da palco. Suonare in pubblico era, soprattutto, una mera necessità materiale, un obbligo al quale un musicista professionista (e bisognoso di molto denaro, quale purtroppo lui era) non poteva sottrarsi. E se Evans fosse stato solo un pizzico più baldanzoso e determinato, quanti soldi avrebbe dovuto dargli quella volpe di Davis, riconoscendogli i crediti compositivi per l'intero progetto "Kind of blue"? Invece...
M.G.

Marco Bertoli ha detto...

È vero. Che cosa pensi della differenza - caratteriale, certo, ma prima di ciò culturale e, vorrei dire, «etnica» - fra il suo atteggiamento verso la musica e il pianoforte e quello di Art Tatum, la cui musica ha un elemento narrativo, e anche spettacolare, che implica di necessità le presenza del pubblico?

Bianco-nero. In fondo alla strada accennata in modo disarmante da Evans, che preferiva suonare in presenza di nessuno, c'è per esempio un Mehldau, che suona sempre come se nessuno lo stesse ascoltando.

PS Sta per contattarti una signora per ragioni di farinata, le ho dato il tuo indirizzo, vedetevela voi ghiottoni.

lillo ha detto...

ma che belle cose tiri fuori quando dai retta alla tua vocina interiore :)

LC ha detto...

"Alone" è il primo disco pubblicato del Bill Evans solista. In realtà le prime incisioni in piano solo risalgono a ben cinque anni prima (il 10 gennaio 1963), per la Riverside: incise, messe in un cassetto e tirate fuori soltanto nel 1989. Si tratta dei due volumi intitolati "The Solo Sessions", usciti per la prima volta, se non sbaglio, nel cofano dell'integrale evansiana per la Riverside e, qualche anno dopo, ristampati a parte.

LC

LUIGI BICCO ha detto...

E comunque Evans è comparso sempre tre volte di più di Hank Mobley, tanto per dirne una. E tante volte quante è comparso Thelonious Monk. Si può andare avanti all'infinito :)

Ma in ogni caso Bill Evans rimane unico e questi pezzi sono meravigliosi. Giusto per amore della musica (e della condivisione), su youtube ci sono entrambi i suoi Solo Sessions. Il primo qui e il secondo qui. Stupendi.

Anonimo ha detto...

L'argomento è intrigante. Le narrazioni di Evans, il suo linguaggio del corpo sul palco non potevano essere correlati certo all'aggettivo "spettacolare". Aspetta, sulle contrapposizioni di natura culturale alle quali hai fatto cenno sopra magari tornerò. Ora mi soffermo sulla natura delle narrazioni evansiane, perché, oltre ogni pregiudizio, tali erano. Evans, lo sappiamo da tante testimonianze dei suoi musicisti, esortava ad imparare i testi di tutte le canzoni che entravano nel loro repertorio, un passaggio che riteneva imprescindibile. Anche se non sempre si trattava di capolavori del songbook americano, anzi. Ma quei testi e quelle musiche narravano ad Evans qualcosa e lui partiva da quegli sviluppi per ritornare verso di loro, con un movimento di forza centripeta, che non era solo mentale, ma anche fisico. Evans iniziava i concerti quasi eretto, per poi piegarsi inesorabilmente verso il piano, verso il centro della musica, verso il cuore dei brani. Lavorando quelle canzoni dall'interno nel quale precipitava ne ridefiniva la struttura espressiva, ne estraeva ogni possibile sostanza narrativa e nutritiva o ne immetteva di proprie, le corroborava o le prosciugava. Dopo aver parlato a lui, al lui più profondo e nascosto, e a chi aveva la fortuna di accompagnarlo on stage, filtrate da quelle sensibilità arrivavano a noi. Talvolte esauste e fragili, altre intense e vitali; ma giungevano a noi, erano ancora in grado di comunicare, di raccontare. Ogni sera ingaggiava un corpo a corpo con queste benedette canzoni, ogni sera regrediva verso qualche regione profonda, per poi riemergere con in pugno brandelli di senso.
M.G

Anonimo ha detto...

Io credo che il problema di Mehldau sia proprio questo: cominciare da un corpo imponente di citazioni, sovrastrutture, conoscenze, cultura, tecnica... e spesso fermarsi lì. Anche lui parte dalle canzoni (che mi sembra gli servano da scivolo verso il tunnell) e regredisce verso profondità tutte sue, troppo sue, però. Rimane intrappolato in quei grovigli, melodie e ritmi (sovente palpiti) si snervano, perdono ogni energia e tutto vaga in cerca di un senso che non arriva. Almeno non arriva a me.
Anche Evans metteva in scena ogni sera un'autoanalisi pubblica, ma quell'amore per le narrazioni e le canzoni e l'empatia, musicale ed umana, che era fortissimamente voleva stabilire con i suoi musicisti, lo aiutavano a non rimanere impastoiato nell'autorefenzialità. Era con loro, canzoni e musicisti, che voleva interagire, in uno sforzo di risignificazione costante di un repertorio limitato e sceltissimo, ma che raramente lo faceva deragliare nell'inerzia. Poi, per carità, aveva pure lui i suoi momenti di torpore e faceva pure lui dei giretti a vuoto... ma insomma, il più delle volte non si faceva ingabbiare.
M.G.

Anonimo ha detto...

Aspetto con ansia la misteriosa signora della farinata. La farò andare nelle più sordide e fascinose "sciamadde" di Genova. Dove oggi puoi comunque trovare qualche bel vino (una bianchetta di Pastine o Bruzzone, se vuoi rimanre sul territoriale/tradizionale): anni fa le avrebbero somministrato certe brocche di bianco da far stramazzare al suolo un orso marsicano...
M.G.

Paolo Lancianese ha detto...

Quando qui si parla di Bill Evans io mi trovo sempre senza parole, nel senso che quelle che vorrei dire io le dice perfettamente M.G. Non da oggi mi colpisce la sua competenza evansiana e più ancora l'amore che vi si sente.
(Su Mehldau anche, poi, sono perfettamente d'accordo).

Anonimo ha detto...

Caro Paolo, ti ringrazio per la gentilezza dimostrata(mi). Purtroppo per me, la competenza evansiana segue a milioni di chilometri l'amore evansiano: una tanto piccolina, l'altro colossale...
M.G.

Marco Bertoli ha detto...

E le parole di Evans alla fine di questa take di On A Clear Day: «I can’t seem to get what I want on it», non ci dicono qualcosa di questo suo trattamento centripeto, autoanalitico, della musica?