domenica 25 ottobre 2015

Angolian Cry (Johnny Dyani)

 Quartetto multinazionale: Harry Beckett, suddito di Sua Maestà Elisabetta II, era nato nelle isole Barbados; John Tchicai era danese, di padre congolese; Johnny Dyani, titolare del disco, era sudafricano e Billy Hart è statunitense, e infatti divide e scandisce il tempo in modo assai diverso da come avrebbero fatto, per dire, batteristi africani come Louis Moholo o Makaya Ntshoko.

 Faccio un’osservazione: considera il titolo di questa composizione e la composizione stessa. Fosse l’autore stato un jazzman americano, o anche europeo, c’era da aspettarsi una musica aggressiva, vociferante o almeno cupa e triste (nel 1985 l’Angola era nel pieno della guerra civile). Invece il sudafricano Dyani risolve tutto in canto.

 (Poi magari la composizione era lì da un pezzo e le si è dato un bel titolo d’effetto per il disco. Anzi, scommetterei che è andata così).

 Angolian Cry (Dyani), da «Angolian Cry», SteepleChase SCCD-31209. Harry Beckett, tromba; John Tchicai, sax tenore; Johnny Dyani, contrabbasso; Billy Hart, batteria. Registrato il 23 luglio 1985.

3 commenti:

loopdimare ha detto...

Che bello se i pianti fossero tutti così!

prospettive musicali ha detto...

Forse il pianto di Dyani era davvero così, o anche così.
Non so infatti se Marco vincerebbe la scommessa: quando, nel 1975, i Blue Notes (di cui Dyani era il bassista) si chiusero in sala prove al ritorno dal funerale del loro trombettista Mongezi Feza e suonarono ininterrottamente per tre ore e mezza (senza fermarsi neppure per dar tempo di cambiare la bobina del registratore), le loro improvvisazioni non furono cupe, funeree, depresse ma sorprendentemente radiose, anche se ascoltando quelle di esse poi pubblicate su "Blue Notes for Mongezi" se ne indovina una tristezza di fondo.
Poi non dimentichiamo che "cry" non è solo "pianto" ma anche "grido, urlo, strillo", persino "grido di battaglia". Ma il discorso non cambia, come pare suggerirci questa descrizione dei Blue Notes a opera di Joe Boyd: «È free jazz ma la rabbia degli Ayler e degli Shepp manca o assume forme così differenti da risultare irriconoscibile. E chi più di quegli esuli sudafricani avrebbe avuto di che provar rabbia? Fu una delle cose che mi colpirono di più quando vidi per la prima volta i Blue Notes, nel ’67 all’Old Place: certo, suonavano forte, selvaggio, veloce, astratto; ma sembrava che per loro la miglior vendetta sui boeri assassini non fosse la rabbia ma la gioia».
Alessandro

loopdimare ha detto...

forse è free jazz meno intellettualizzato.