Guest post inconfondibile: è la fulgida Valentina, alla quale non vorrai far mancare commenti. Come già si era visto in altre occasioni, la sua scelta è preziosa come la sua penna, che si aggira sempre dalle parti del mangiare.
«A un passo dall’implodere, dopo reiterati reciproci intralci, si decise a metterlo alla porta.
Quando,
qualche ora dopo, il suo ego rientrò avvolto in una nuvola di Coco
Mademoiselle, ella aveva sfornato il pane pita, fritto i falafel e
preparato l’hummus.
Non ci fu bisogno di aggiungere parole.
Ella sapeva cosa gli piacesse ed ego aveva un indiscutibile buon gusto
in fatto di profumi».
I’m Gettin’ Sentimental Over You (Washington-Bassman). Ivy Benson and Her Girls’ Band. Ivy Benson, sax alto. 78 giri registrato nel 1943.
Jimmy Rushing canta il blues, o meglio un blues-canzone, al suo modo colloquiale, accompagnato dall’orchestra di Count Basie nel 1947. Il solista di trombone è Dickie Wells e nella sezione sax c’è Paul Gonsalves, tre anni prima che si unisse al Duca.
Your Red Wagon (Raye-De Paul), da «Count Basie. RCA Years in Complete», RCA BVCJ-8601-03. Jimmy Rushing con l’orchestra di Count Basie: Ed Lewis, Emmett Berry, Snooky Young, Harry Edison, tromba; Ted Donnelly, George Matthews, Eli Robinson, Bill Johnson, trombone; Preston Love, Charlie Price, sax alto; Buddy Tate, Paul Gonsalves, sax tenore; Jack Washington, sax baritono; Count Basie, piano; Freddie Green, chitarra; Walter Page, contrabbasso; Jo Jones, batteria. Registrato l’8 dicembre 1947.
Symphony in Black si colloca cronologicamente poco prima di Reminiscing in Tempo (1935), il primo capolavoro di Duke Ellington in forma di suite; a sua volta Reminiscing seguiva di quattro anni Creole Rhapsody, il suo primo esperimento nel genere della suite, genere che Duke avrebbe praticato lungo il corso della sua intera carriera con esiti personalissimi.
Symphony in Black nasce associata a un breve film del 1935 diretto da Fred Waller, l’inventore del Cinerama, e prodotto da Adolph Zukor per la Paramount:«Symphony in Black, A Rhapsody of Negro Life». Nella sequenza intitolata Blues, terza della seconda parte, sentiamo (e vediamo, nella parte di una donna tradita e maltrattata, e già) la ventenne Billie Holiday. La canzone che Billie canta, con il titolo Saddest Tale, fu spesso cantata con Duke da Ivie Anderson.
Il film è bello da vedere e la musica di Duke, la cui fantasia con questo genere di accostamenti andava a nozze, è più che adeguata, pure se non tocca vette eccelse. I momenti più notevoli sono l’iniziale The Labourers, quasi uno schizzo della Work Song che anni dopo aprirà Black, Brown and Beige, e il prefinale, intitolato Hymn of Sorrow, che prefigura la sublime Come Sunday (e che non a caso il film ambienta in chiesa). Il tema è eseguito alla sua inconfondibile maniera da Arthur Whetsol (o Whetsel), un singolare elllingtoniano di cui una volta o l’altra ti dirò meglio.
Ecco il programma del cortometraggio, scandito sulla musica ellingtoniana: Introduction: Jealousy; Part I: The Labourers; Part II, A Triangle: Dance, Jealousy, Blues; Part III: A Hymn of Sorrow; Part IV: Harlem Rhythm.
Symphony in Black (Ellington), da «The Complete Orchestral Suites 1931-1960», United Archives NUA07. Arthur Whetsol, Freddy Jenkins, Cootie Williams, tromba; Joe «Tricky Sam» Nanton, Lawrence Brown, trombone; Juan Tizol, trombone a pistoni; Barney Bigard, clarinetto e sax tenore; Johnny Hodges, sax alto e soprano; Otto Hardwick, sax alto e clarinetto; Harry Carney, sax baritono e alto, clarinetto; Duke Ellington, piano; Fred Guy, chitarra; Wellman Braud, contrabbasso; Sonny Greer, batteria. Registrato prob. nel dicembre 1934.
Louis Armstrong colto nelle prime sue due tournée europee del dopoguerra. Il primo pezzo fu registrato a Trieste nel 1949, davanti a un pubblico di militari americani, con la formazione originale e più bella degli All Stars (il cantante, inconfondibile, è Teagarden), il secondo a Berlino nel 1952 con un line-up comunque di riguardo, in particolare Trummy Young.
Louis è tutte e due le volte in forma eccellente, teste soprattutto il brillante assolo in Baby, Won’t You Please Come Home.
Baby, Won’t You Please Come Home (Williams-Warfield), da «Louis Armstrong in Europe», MJCD 1087. Louis Armstrong, tromba; Jack Teagarden, trombone; Barney Bigard, clarinetto; Earl Hines, piano; Arvell Shaw, contrabbasso; Cozy Cole, batteria. Registrato a Trieste il 9 novembre 1949.
Way Down Yonder in New Orleans (Creamer-Layton), ib. Louis Armstrong, tromba; Trummy Young, trombone; Bob McCracken, clarinetto; Marty Napoleon, piano; Arvell Shaw, contrabbasso; Cozy Cole, batteria. Registrato a Berlino il 12 ottobre 1952.
«Messiaen», così scrive Stuart Broomer nelle note a questo disco del 1999, «fu un radicale tanto nella forma quanto nei contenuti e non è fuori luogo vedere la sua opera nel medesimo contesto di Harry Partch, Ornette Coleman, John Coltrane e Cecil Taylor. Uno dei molti aspetti sorprendenti di questo disco è che ci sia voluto tanto tempo prima che qualcuno adattasse all’improvvisazione la musica di Messiaen».
Ed è vero che la musica del meraviglioso mistico e compositore francese (1908-1992), pur strutturata con teologica sottigliezza, comunichi poi una libertà che l’assomiglia all’improvvisazione. Il chitarrista e compositore americano Keith Yaun ha riunito una compagnia eterogenea (con Bern Nix, chitarrista del Prime Time di Ornette, e il noto violinista/violista microtonale Mat Maneri), tuttavia ben assortita, per eseguire a suo modo la prima delle Trois petites liturgies de la présence divine, intitolata Antienne de la conversation intérieure (antienne = «antifona»).
Si tratta di una delle composizioni di Messiaen del tempo di guerra, scritta per tre voci femminili, pianoforte e onde Martenot. È volta a evocare la presenza di Dio in noi e in tutte le cose (qui puoi ascoltarne un’esecuzione e leggerne il testo, di Messiaen stesso).
Il risultato di queste improvvisazioni non è forse pienamente compiuto, ma vale l’idea, coraggiosa e anticonformista.
(NB Il «violino baritono» suonato da Maneri è un violino con le corde di diametro assai superiore a quello delle corde convenzionali, accordato un’ottava sotto il violino e per questo noto in inglese anche come octave violin. Può avere cinque corde – mi pare che sia questo il caso – e allora la quinta è il Do).
Antienne de la conversation intérieure (Dieu présent en nous) (Olivier Messiaen), da «Amen. Improvisations on Messiaen». Keith Yaun, Bern Nix, chitarra; Mat Maneri, violino baritono; Johnny McLellan, batteria. Registrato nel marzo 1999.
Ecco il forte tenorista Carter Jefferson in un bel disco a suo nome del 1978, quando Jefferson era impegnato con Woody Shaw, che del disco è produttore (Jefferson sarebbe morto appena quarantasettenne, nel 1993).
Questa canzone, nel solco di uno spiritual jazz all’epoca già un po’ attardato, ha un’esecuzione ispirata che lascia chiudere un occhio sull’intonazione un po’ approssimativa degli ensemble. Il trombettista Shunzo Ono - musicista eccellente e persona fuori del comune – , guarda un po’, s’ispira udibilmente proprio a Shaw. John Hicks qui sopra l’hai sentito già diverse volte, e Clint Houston, un altro scomparso troppo presto, era un contrabbassista fantastico.
Song for Gwen (Jefferson), da «The Rise of Atlantis», Timeless Muse TI 309. Shunzo Ono, tromba; Carter Jefferson, sax tenore; John Hicks, piano; Clint Houston, contrabbasso; Victor Lewis, batteria. Registrato il 27 dicembre 1978.
Due esempi dell’originale musica da camera del virtuoso ex-russo Simon Nabatov.
Sunrise, Twice avanza quasi inavvertitamente con svolazzi pianistici sopra un triplo bordone di violoncello, trombone e sax che procede dapprima cromaticamente, fino ad articolarsi sempre di più in un contrappunto libero con il pianoforte. La riuscita dell’idea è nel fatto che l’improvvisazione collettiva sia subordinata a un piano (pun intended) rigoroso ma non soffocante; e che il pianoforte, pur nella posizione di preminenza che gli avrebbe consentito un rilievo concertante, in realtà non prevalga sul flusso generale della musica.
Now What, ruminativa e più jazzistica nei colori armonici e nella pronuncia, è meglio chiaramente articolata sull’asse piano-batteria con discreti interventi rumoristici degli altri tre, che anche qui finiscono con l’imporsi a poco a poco.
Sunrise, Twice (Nabatov), da «Roundup», Leo Records CD LR 586. Nils Wogram, trombone; Matthias Schubert, sax tenore; Simon Nabatov, piano; Ernst Reijseger, violoncello; Tom Rainey, batteria. Registrato nel dicembre 2009.
Paul Gonsalves è stato un autentico anarchico del jazz, tanto nello stile strumentale, di fatto indefinibile, quanto nella gestione della carriera. Fu per molti anni con Duke Ellington, che a sere alterne lo licenziava e lo riassumeva, e con lui fu Cat Anderson, impiegato da Duke soprattutto come specialista del registro stridulo ma che era un eccellente trombettista all around, innamorato di Armstrong, memore di Roy Eldridge e di Red Allen.
In questa Walkin’ del 1970, caposaldo di un repertorio appartenente alla generazione a loro successiva, Anderson e soprattutto Gonsalves (benissimo affiancati dall’altro ellingtoniano Norris Turney in assetto insolitamente moderno) spiccano degli autentici voli pindarici, con una noncuranza certo parente della sbadatezza e forse di una certa alterazione – dove diavolo collocheremo la cadenza iniziale di Gonsalves? – , comunque vitale ed eccitante.
Walkin’ (Carpenter), da «Paul Gonsalves and His All Stars», Riviera XCED 521 149. Cat Anderson, tromba; Norris Turney, sax alto; Paul Gonsalves, sax tenore; «Prince Woodyard» (Wild Bill Davis), organo; Joe Benjamin, contrabbasso; Art Taylor, batteria. Registrato il 6 luglio 1970.
Greg Burk è un pianista americano credo sulla quarantina, di Detroit, che tempo fa, a quanto ne so, abitava in Italia, mi pare a Firenze o a Roma. «Credo», «a quanto ne so», «mi pare»: io non sono famoso per seguire l’attualità jazzistica e dunque di Burk ho perso le tracce per pura mia colpa, ma ho fiducia che se la stia cavando bene, in base a ciò che ricordo: essenzialmente questo disco inciso nel 2002 per la Soul Note.
Burk è stato studente di Paul Bley e direi che si senta; in quanto compositore, ricorda anche George Russell, a cui è dedicato un pezzo del disco e, in Serena al telefono, Anthony Braxton, per le linee di basso inconcluse e ricorsive (ma echi braxtoniani io sento anche in Burk’s Quirks, che è un «rhythm changes», cioè è costruito sulla progressione, qui ben dissimulata, di I Got Rhythm).
Burk’s Quirks (Burk), da «Carpe Momentum», Soul Note 121393-2. Jerry Bergonzi, sax tenore; Greg Burk, piano; Jonathan Robinson, contrabbasso; Gerald Cleaver, batteria. Registrato nel dicembre 2002.
Questo semi-famoso e bellissimo disco a firma congiunta Coltrane-Adderley, registrato a Chicago nel 1959, è essenzialmente una raccolta di standard, più un paio di numeri bluesy composti da Cannonball e – soprattutto – questa Grand Central di Coltrane, che fa parte di quelle sue composizioni di quel torno di tempo che, senza rinunciare a swing e cantabilità, stavano cominciando a «rompere la crosta dell’hard bop», come ha scritto Marcello Piras.
Grand Central (Coltrane), da «Quintet in Chicago», [Limelight] Poll Winners Records PWR 27205. Cannonball Adderley, sax alto; John Coltrane, sax tenore; Wynton Kelly, piano; Paul Chambers, contrabbasso; Jimmy Cobb, batteria. Registrato nel febbraio 1959.
Those Who Chant (Bishop) da «Cubicle», Muse MR 5151. Randy Brecker, tromba: Curtis Fuller, trombone; Rene McLean, sax soprano; Pepper Adams, sax baritono; Walter Bishop jr, piano, piano elettrico; Joe Caro, chitarra; Bob Cranshaw, basso elettrico; Billy Hart, batteria; Ray Mantilla, percussioni. Registrato il 21 giugno 1978.
Pensando ancoraall’affermazione di Bill Evans, che preferiva suonare senza pubblico, mi è venuto in mente a contrarioBill Carrothers. Carrothers è un musicista i cui assoli sono una sopresa continua sotto ogni aspetto, melodico, armonico e ritmico (li percepiscono così anche i suoi accompagnatori, mi sa), e che costruisce l’esecuzione come un succedersi di episodi nel segno della varietà, della sorpresa, appunto: un po’ alla Tatum, insomma.
Ricordo infatti di aver letto in un’intervista che lui, a suonare quando nessuno lo ascolta, non si diverte affatto.
Tiny Capers (Clifford Brown), da «A Night at the Village Vanguard», Pirouet PIT3056. Bill Carrothers, piano; Nicolas Thys, contrabbasso; Dré Pallemaerts, batteria. Registrato il 18 luglio 2009.
Attenzione tutti, robaccia in arrivo. Stavolta potete darne la colpa almeno in parte al direttore di Musica Jazz («con un grande potere viene una grande responsabilità»), che in un commento al post con Oscar Peterson, qui sotto, ci ha informati che
nei suoi fantastilioni di dischi [Peterson] non ha mai inciso ’Round Midnight se non in un’orrida versione easy listening con big band nei primi anni Sessanta,
Queste parole di Luca Conti mi hanno suscitato una qualche vaga e nauseosa memoria che sulle prime non m’è riuscito di collocare. Ma finalmente sì: anni fa, recensendo proprio per MJ il disco d’esordio dell’allora fanciullo prodigio chirghiso Eldar Djangirov, scrivevo queste parole:
(…) ’Round Midnight e Ask Me Now soddisfano la curiosità di chi si sia mai domandato come Peterson avrebbe suonato Monk (e suggeriscono il perché non l’abbia mai fatto).
Come si sentirà, sbagliavo in punto di fatto, ma non di diritto, giudica un po’ tu.
’Round Midnight (Monk), da «Eldar», Sony Classical SK 92593. Eldar Djangirov, piano; John Patitucci, contrabbasso; Todd Strait, batteria. Registrato nell’aprile 2004.
AGGIORNAMENTONella notte il Lancianese ha messo mano al suo cassetto degli orrori e mi ha mandato la versione Peterson-Riddle di ’Round Midnight, che si direbbe ’Round Midnight in Las Vegas. L’eccessiva compressione del file fa sì che Peterson sembri suonare un clavicordo, il che aggiunge al vituperio.
’Round Midnight, da «Oscar Peterson & Nelson Riddle», Verve. Oscar Peterson, piano; Ray Brown, contrabbasso; Ed Thigpen, batteria, con orchestra arrangiata e diretta da Nelson Riddle. Registrato nel 1963.
Qualche settimana fati raccontavo di provare un certo interesse per il genere electronica. Un po’ esageravo, un po’ ero in una di quelle fasi in cui mi sento vagamente in colpa per la ristrettezza dei miei gusti musicali (di solito mi basta ascoltare qualcosa dei generi negletti e il senso di colpa passa subito).
Però, però. C’è il fatto che io nutro una grande ammirazione per il pianista Craig Taborn, che ti ho già somministrato qualche volta, ammirazione che tuttavia non ho mai veramente approfondito con ascolti sistematici. Dopo averne sentito alla radio, circa un mese fa, un concerto in trio registrato in qualche festival estivo, ed esserne stato lasciato letteralmente con gli occhi fuori dalle orbite, ho deciso di cominciare a coprire il Taborn con un certo metodo e mi sono procurato questo suo disco in trio già piuttosto vecchio (2004).
Non è il trio sentito alla radio quella sera di dicembre, non vi somiglia nemmeno. Quello era acustico, questo vede l’uso di un cospicuo strumentario elettronico manovrato da Taborn, fra cui anche loop, feedback e compagnia allucinante. Ti propongo il pezzo che dà titolo al disco, che a tratti è interessante anche se non mi ha commosso (comunque vorrà dire qualcosa il fatto che, dieci anni dopo, Taborn suona con un trio acustico); va detto che Taborn vi suona benissimo e anche gli altri, compreso David King, il tourettico batterista dei Bad Plus.
Junk Magic (Taborn), da «Junk Magic», Thirsty Ear THI 57144.2. Aaron Stewart, sax tenore; Craig Taborn, piano ed elettronica; Mat Maneri, viola; David King, batteria. Registrato il 20 aprile 2004.
Ecco il trio di Oscar Peterson nella sua formazione più famosa e longeva, ricostituito nel 1990 con l’aggiunta della batteria, intento alla canzone di Jimmy Van Heusen che qualche giorno fa hai ascoltato da Bill Evans. A momenti Oscar indulge un po’ alle prestidigitazioni, come gli succedeva, ma la cosa meravigliosa è che lo fa senza smettere per una sola battuta di swingare (cosa che invece succede, nel suo ugualmente iperattivo assolo, a Herb Ellis)..
Here’s That Rainy Day (Burke-Van Heusen), da «Encore At The Blue Note - The Legendary Oscar Peterson Trio», Telarc CD-83356. Oscar Peterson, piano; Herb Ellis, chitarra; Ray Brown, contrabbasso; Bobby Durham, batteria. Registrato nel marzo 1990.
Rock and roll and rap are about adolescent sentiments, which are completely foreign to jazz. In jazz, the focus is on adult experiences, and the skills required to express them are far more sophisticated than in rock, because they are of greater emotional complexity. It’s good for young people to test themselves in the arena of jazz, because it forces them to confront the fact that there are some things out there which are more profound than what they’re dealing with.
Rock e rap toccano sentimenti adolescenziali, a cui il jazz è del tutto estraneo. Il jazz è rivolto a esperienze di vita adulta; e le capacità richieste a esprimerle, per la loro maggiore complessità emotiva, sono assai più sofisticate di quelle che richiede il rock. Per i giovani è salutare cimentarsi nel campo del jazz; in questo modo, si trovano messi dinanzi al fatto che, nella vita, esistono cose più profonde di quelle a cui sono abituati.
(Stanley Crouch a Robert Boynton, The New Yorker, 6 novembre 1995).
Praise God (Ellington), da «Second Sacred Concert», Prestige 00025218544528. Cat Anderson, Cootie Williams, Mercer Ellington, Herbie Jones, Money Johnson, tromba; Lawrence Brown, Buster Cooper, Benny Green, trombone; Chuck Connors, trombone basso; Johnny Hodges, Russell Procope, sax alto; Paul Gonsalves, sax tenore; Jimmy Hamilton, sax tenore e clarinetto; Harry Carney, sax baritono; Duke Ellington, piano; Jeff Castleman, contrabbasso; Sam Woodyard o Steve Little, batteria. Registrato il 22 gennaio o il 19 febbraio 1968.
Supreme Being (Ellington), id., più Alice Babs, Devonne Gardner, Trish Turner, Roscoe Gill, cantanti; The A.M.E. Mother Zion Church Choir diretto da Solomon Herriott jr.; Choirs of St. Hilda’s and St. Hugh’s School diretti da William Tools; Central Connecticut State College Singers diretti da Robert Soule; The Frank Parker Singers.
Blue Lou (Sampson-Mills), da «Little Jazz Trumpet Giant», Properbox 69. Roy Eldridge con l’orchestra di Fletcher Henderson: Eldridge, Dick Vance, Joe Thomas, tromba; Fernando Arbello, Ed Cuffee, trombone; Buster Bailey, clarinetto; Scoops Carry, sax alto; Elmer Williams, Chu Berry, sax tenore; Fletcher Handerson o Horace Henderson, piano; Bob Lessey, chitarra; John Kirby, contrabbasso; Sidney Catlett, batteria. Registrato il 27 marzo 1936.
In un secolo di storia il jazz ha fatto le cose in fretta, e così, laddove p.e. nella musica europea si periodizza almeno a decenni, nel jazz sarebbe auspicabile farlo anno per anno. Ecco, un giorno o l’altro io scriverò un volume di storia del jazz intitolato «1949» e chi sa se mi basterà un tomo solo. La formazione (a nome di J. J. Johnson) e la data fanno riflettere.
Elysee (Lewis), da «Early Bones», Prestige P-24067. Kenny Dorham, tromba; J. J. Johnson, trombone; Sonny Rollins, sax tenore; John Lewis, piano; Leonard Gaskin, contrabbasso; Max Roach, batteria. Registrato il 26 maggio 1949.
Primo incontro discografico di Harold Land e Bobby Hutcherson, annunciato ieri. Si tratta di jazz aggiornato all’epoca (1968) senza nulla avere di sperimentale – anche se lo stile di Hutcherson, in quel torno di tempo, aveva sempre in sé qualcosa di spericolato – , espressivo, coloratissimo, a suo modo addirittura cantabile o ballabile, se preferisci; insomma, uno di quei dischi che a me piace definire gioiosi, non così frequenti nel jazz moderno.
Accanto ai due leader (Land ha anche composto tutti i pezzi) sottolineo la presenza di Joe Sample, pianista dei Jazz Crusaders, che dà in ogni pezzo un contributo di fantasia; del grande, versatile batterista Donald «Duck» Bailey, per molti anni con Jimmy Smith, il quale in un paio di pezzi sovrappone un’armonica a bocca senza la quale saremmo, tutto sommato, sopravvissuti; e di Buster Williams, la perfezione fatta contrabbassista.
The Peace-Maker (Land), da «The Peace-Maker», Cadet LPS 813. Harold Land, sax tenore; Bobby Hutcherson, vibrafono; Joe Sample, piano; Buster Williams, contrabbasso; Donald Bailey, batteria. Registrato l’11 dicembre 1967 o il 26 febbraio 1968.
Matrix, una delle composizioni più note di Chick Corea e del jazz moderno, è grosso modo un blues di dodici battute, che ne sta alle fondamenta; ma è costruito poi su armonie quartali e accordi suspended, in cui cioè il terzo grado (che determina la natura maggiore o minore di un accordo) è omesso e sostituito di solito da un intervallo, appunto, di quarta. Nell’accompagnare e in assolo, Corea ricorda qui più del solito McCoy Tyner, che quel tipo di armonizzazione si può dire abbia, se non inventato, di certo diffuso nel jazz. Total Eclipse è una delle sorprendenti, metafisiche ballad che Bobby Hutcherson scriveva in quei giorni.
Infine, Harold Land è sempre un piacere da ascoltare, soprattutto in associazione con Hutcherson. Se non te li facessi sentire presto insieme, ricordamelo tu.
Matrix (Corea), da «Total Eclipse», Blue Note CDP 0777 7 84291 2 8. Harold Land, sax tenore; Bobby Hutcherson, vibrafono; Chick Corea, piano; Reggie Johnson, contrabbasso; Joe Chambers, batteria. Registrato il 12 luglio 1968.
Cole Porter, peste mi colga, non è fra i miei compositori preferiti dell’American songbook, tranne che per tre o quattro canzoni che giudico grandiose. Una è senz’altro Love For Sale, che infatti ti ho proposto diverse volte, un’altra è Ev’ry Time We Say Goodbye.
È quest’ultima che oggi senti in due versioni belle e diversissime. Nella prima c’è Sonny Rollins nel 1957 ed è sardonica e quirky come siamo abituati a sentire le ballad fatte da lui. Al piano, per la gioia dei miei piccoli ascoltatori, c’è Sonny Clark, impeccabile secondo suo solito.
Ev’ry Time We Say Goodbye (Porter), da «The Sound Of Sonny», Riverside RLP 12-241. Sonny Rollins, sax tenore; Sonny Clark, piano; Percy Heath, contrabbasso; Roy Haynes, batteria. Registrato l’11 o il 12 giugno 1957.
La seconda è di vent’anni dopo e viene da un disco di Bill Evans del periodo Fantasy, non uno dei più criticamente apprezzati. Bill invece vi suona benissimo (lo faceva sempre quando aveva davanti una front line) ed è in fast company con Warne Marsh e Lee Konitz. Qui in Ev’ry Time suona il solo Marsh; la loro resa della canzone, a differenza di quella di Rollins, è morbida e tenera, fin quasi al disfacimento. L’improvvisazione di Warne Marsh non è qui meno portentosa di quella di Rollins. Anzi, per fantasia melodica e ritmica e sagacia armonica, direi che le sia addirittura superiore.
Ev’ry Time We Say Goodbye, da «Crosscurrents», Fantasy/OJCCD 718-2. Warne Marsh, sax tenore; Bill Evans, piano; Eddie Gomez, contrabbasso; Eliot Zigmund, batteria. Registrato nel marzo 1977.
Una composizione piena di melodia e humor, un’esecuzione gioiosa, un disco felice; del jazz bello come un sogno. Si era nel 1961 e questo quintetto di Barry Harris si poteva sentire il lunedì sera al Birdland di New York.
Mucho Dinero (Harris), da «Newer than New», Riverside/OJCCD-1062-2. Lonnie Hillyer, tromba; Charles McPherson, sax alto; Barry Harris, piano; Ernie Farrow, contrabbasso; Clifford Jarvis, batteria. Registrato il 28 settembre 1961.
«Riceviamo e volentieri pubblichiamo». Finalmente il Top Jazz di «Musica Jazz» è tornato quest’anno a essere un referendum della critica rivolto al jazz internazionale e non più solo a quello italiano, com’è stato il caso (assurdo, per quanto mi riguarda) dal 2007 fino all’anno passato.
È anche per questa ragione che quest’anno io ho ripreso a votare nel Top Jazz (non ti dico che cosa ho votato, però. Anzi, uno te lo dico: Franco D’Andrea per il disco dell’anno, che del resto ho presentato anche su Jnp).
Quello che segue è il comunicato di «Musica Jazz».
È IN EDICOLA MUSICA JAZZ DI GENNAIO: TUTTO SUL TOP JAZZ 2012
I trent’anni del Top Jazz all’insegna di un ritorno alla formula classica.
Ristabilite le nove categorie che premiano dischi, musicisti, gruppi e nuovi talenti del jazz italiano e, di nuovo, anche di quello internazionale. Ecco tutti i dati sullo stato di salute del jazz nel 2012 e i nomi dei protagonisti (le classifiche complete sono su Musica Jazz di gennaio, in edicola ora).
Il Top Jazz rappresenta da trent’anni la fotografia reale e attendibile del panorama jazzistico internazionale e del fermento vitale che lo anima. Non solo per Musica Jazz, che il referendum ha creato e continua a organizzare, ma anche per quello «stato democratico» di appassionati del genere che, proprio in questo strumento, può conoscere e riconoscere cosa gira intorno, oltrepassa e allarga i propri confini. Il jazz, infatti, è ormai universale più di quanto sia mai stato, e proprio per questo Musica Jazz, dopo aver ritenuto chiuso l’esperimento avviato nel 2007 – quando a essere preso in esame divenne soltanto il panorama italiano – ha deciso di tornare alle originali nove categorie, affidando le valutazioni ad una giuria forte di oltre 80 critici e riaprendo così le porte al confronto con le eccellenze mondiali: dischi, musicisti, gruppi e nuovi talenti del jazz italiano e internazionale, più la ristampa che meglio di altre abbia saputo riportare gli ascoltatori dentro le trame della magnifica storia del jazz.
Primi classificati nelle nove categorie del Top Jazz 2012
• Disco italiano dell’anno (premio Arrigo Polillo): «Traditions And Clusters», Franco D’Andrea (El Gallo Rojo). • Musicista italiano dell’anno (premio Pino Candini): Mauro Ottolini. • Formazione italiana dell’anno: Artchipel Orchestra. • Miglior nuovo talento italiano: Enrico Zanisi. • Disco internazionale dell’anno: «Sleeper», Jarrett-Garbarek-Danielsson-Christensen (Ecm). • Musicista internazionale dell’anno: ex aequoWadada Leo Smith e Rob Mazurek. • Formazione internazionale dell’anno: Brad Mehldau Trio. • Miglior nuovo talento internazionale: Mary Halvorson. • Ristampa dell’anno: «His Prestige / New Jazz Albums», Eric Dolphy (Prestige). Da veri e propri maestri, da anni ai vertici del referendum, come Franco D’Andrea – con le sue cinque formazioni registrate live (da festival del Trentino) nel doppio cd «Traditions And Clusters» – agli estrosi talenti delle successive generazioni, Mauro Ottolini e Ferdinando Faraò (alla testa dell’Artchipel Orchestra), e di quelle future: tra tutti il ventiduenne pianista Enrico Zanisi. Il settore internazionale non è da meno: in evidenza, soprattutto, la prestigiosa vittoria di Keith Jarrett per il miglior disco – «Sleepers», assoluto inedito del 1979 a Tokio con Garbarek, Danielsson e Christensen – e il pareggio meritevole tra due trombettisti all’avanguardia, entrambi molto amati anche in Italia, Wadada Leo Smith e Rob Mazurek. I vincitori del referendum possono essere ascoltati nel cd fuori commercio dedicato al Top Jazz, prodotto con la collaborazione delle case discografiche e allegato a Musica Jazz di gennaio. Non solo: sempre su Musica Jazz di gennaio è intervistata la gran parte dei vincitori del Top Jazz 2012, da D’Andrea a Mazurek, da Ottolini a Wadada, dall’Artchipel a Zanisi a Mary Halvorson. Musica Jazz di gennaio parla inoltre di Eric Dolphy, Joni Mitchell, Rickie Lee Jones, Westbrook-Rossini, David S. Ware, Borah Bergman, Roberto Masotti, Alex Hawkins, Gaetano Partipilo, Giorgio Gaber, Terry Callier e altri ancora.
Thornel Schwartz (1927-1977), di Filadelfia, ha già schitarrato qui con Larry Young e con Jimmy Smith, al nome del quale ultimo il suo è soprattutto legato; lo puoi sentire in diversi suoi Blue Note.
Accompagnatore di organisti fra i più esperti, dunque, questo disco lo vede co-titolare con il tenorista Bill Leslie (assente in Blues And Dues), ancora con organo ma stavolta non in posizione defilata. Anzi, il blues è tutto suo dalla prima all’ultima battuta, e senti con quale verve.
«Lawrence Olds» è uno pseudonimo antinomico di Larry Young.
Blues And Dues (Schwartz), da «Soul Cookin’», Argo LP 704. Thornel Schwartz, chitarra; «Lawrence Olds» (Larry Young), organo; Jerome Thomas, batteria. Registrato il 4 settembre 1962.
Fra le voci che sento in testa ogni tanto ce n’è una che mi dice: tu trascuri Bill Evans. Non capisco perché mi punga così, visto che Evans è comparso finora 13 volte su Jazz nel pomeriggio: il doppio di Art Tatum, per dire (una settimana fa sarebbe stato il quadruplo), il triplo di Earl Hines, tre volte in più di Bud Powell e due in più di Hampton Hawes, tutti pianisti che ascolto più spesso di Evans.
Boh. Questo è il primo disco di Bill Evans in piano solo, senza nemmeno sovraincisioni: sorprende che un Bill Evans abbia aspettato il pieno della carriera (1968) per cimentarsi in quello che oggi, per molti pianisti jazz, è un punto di partenza. È uno dei suoi dischi che io preferisco perché contiene delle canzoni che mi piacciono molto e di cui Evans era interpete, a mio giudizio, impareggiabile. In una nota al disco dichiara con candore: «benché io sia un pianista professionista, a dire il vero ho sempre preferito suonare senza pubblico».
Non so immaginare preferenza, proposito, progetto e quindi risultati più diversi da quelli, appena sentiti qua sopra, di Art Tatum. Anche per questo, pur trovando i tre assoli che seguono bellissimi e magistrali, e godendoli sempre molto, non trovo molto da dire.
Comunque ecco, per un po’ la vocina si troverà – com’è da poco invalso dire – silenziata.
On A Clear Day (You Can See Forever) (Lane-Lerner) [Alt. take], da «Alone», Verve 0602498840320. Bill Evans, piano. Registrato il 21 ottobre 1968.
Anno nuovo vita vecchia. DivShare, il server che uso per pubblicare le musiche, non funziona. Voglio che Luigi Bicco sapppia che non ho ignorato il suo consiglio di ricorrere, in questa circostanza noiosamente ricorrente, a Grooveshark, che lui adopera con vantaggio per DeMIUSìK. Gli è che sono citrullo e non mi riesce di farlo funzionare.
Dunque, finché quelli di DivShare non si sveglieranno, niente jazz da queste parti. Peccato, perché ne avevo in serbo del buono e del bello.
Ne fece di cose Dizzy Gillespie a Los Angeles nel 1946, «più di Bertoldo in Francia». Alcune sono entrate nella storia, altre perfino quella poco schizzinosa signora le ha rispedite, per esempio questa seduta with strings che, malgrado gli impegnativi arrangiamenti di Johnny Richards – o grazie a loro – e pur con una degna sezione ritmica, si affloscia come un soufflé di esecuzione difettiva. È in particolare proprio la prestazione di Dizzy che risuona davvero half-assed: loffia, si direbbe noi. Perfino l’intonazione del solista è a momenti pigra (Dizzy e Richards avrebbero collaborato ancora con risultati migliori alcuni anni dopo). Per gli storici e gli affezionati del deforme, che sono legione.
All The Things You Are (Kern-Hammerstein), da «The Dizzy Gillespie Story 1939-1950», Properbox 30. Dizzy Gillespie, tromba; Al Haig, piano; Ray Brown, contrabbasso; prob. Roy Porter, batteria, con orchestra d’archi più legni e corno arrangiata e diretta da Johnny Richards. Registrato nel gennaio o febbraio 1946.
Si trattava purtuttavia dello stesso trombettiere i cui squilli risonarono nuovamente audaci poche settimane dopo a New York:
Ol’ Man Rebop (Wilson), ib. Gillespie; Don Byas, sax tenore; Milt Jackson, vibrafono; Al Haig, piano; Bill De Arango, chitarra; Ray Brown, contrabbasso; J. C. Heard, batteria. Registrato il 22 febbraio 1946.
Una di due versioni che Art Tatum ha registrato di questa canzone (l’altra è in trio con Callender e Jones), ripresa a casa di Ray Heindorf a Beverly Hills, Los Angeles, nel 1950.
Some Other Spring (Wilson-Herzog), da «The Legendary 1956 Session», Poll Winners PWR 27266. Art Tatum, piano. Registrato il 16 aprile 1950.
Buona Befana.«In Pursuit Of the 27th Man», disco di Horace Silver del 1972, non è dei suoi più celebrati. Anche se si colloca ben oltre i suoi anni d’oro, grosso modo 1954-1964, è lo stesso un disco di valore, in primo luogo per tutte le solite ragioni per cui un disco di Silver è tale, essenzialmente la qualità delle composizioni e delle esecuzioni. Poi perché è un disco realizzato in uno dei non pochi momenti difficili che il jazz ha conosciuto nel dopoguerra, forse il più difficile, e mostra come Horace, a suo modo e senza compromessi disdicevoli, andasse fiutando l’aria: il basso elettrico, il vibrafono, la presenza pervasiva di ostinati ritmici…
Infine è interessante perché è un disco composito: in quattro pezzi c’è un quartetto con il vibrafono suonato da Dave Friedman, in altri tre un classico quintetto che schiera in front line i fratelli Brecker. Le composizioni e gli arrangiamenti mettono in primo piano la ritmica, anche nella formazione con i fiati; questi sono più del solito limitati negli assoli (in particolare la tromba) e appaiono piuttosto «indietro» nel mixaggio.
Il pezzo eponimo del disco, in quartetto, contiene i momenti più out dell’intera discografia silveriana, insieme con You Gotta Have A Little Love dal disco omonimo (1969). Lo avvertirai soprattutto negli «assoli simultanei» di Silver e Friedman, in un lungo episodio su pedale fuori dalla struttura del pezzo, e dal ricorrente obbligato latin che, unito al modo frigio della composizione, trasmette una particolare ossessività, del resto funzionale all’idea che sorregge la composizione, espressa dal titolo e illustrata da Silver nelle note di copertina: «… una scena di inseguimento. Qualcuno che corre dietro a qualcun altro (…). Il “ventisettesimo uomo” rappresenta l’uomo del futuro, migliorato, progredito, quello che tutti ci sforziamo di diventare. Basta poi un’infarinatura di numerologia perché il numero del titolo aggiunga significato».
In Pursuit of the 27th Man (Silver), da «In Pursuit of the 27th Man», Blue Note 7243 5 25758 3. David Friedman, vibrafono; Horace Silver, piano; Bob Cranshaw, basso elettrico; Mickey Roker, batteria. Registrato il 10 ottobre 1972.
Finiamo la settimana nel classico. Per me, nel jazz, nessuno è più classico (cioè del suo tempo e insieme fuori dal tempo) di Coleman Hawkins, eccezion fatta forse per Duke Ellington.
I due pezzi che seguono vengono da due dischi Prestige di un grande momento nella carriera di Hawkins: rispettivamente «Swingville» e «At Ease With Coleman Hawkins».
It’s A Blue World (Wright-Forrest), da «The 1959-1960 Studio Quartets», Essential Jazz Classics EJC55478. Coleman Hawkins, sax tenore; Red Garland, piano; Doug Watkins, contrabbasso; Charles «Specs» Wright, batteria. Registrato il 12 agosto 1959.
L‘esecuzione di My Ideal del 1956 sentita ieri, con Ben Webster, mi ha naturalmente riportato a questa del 1944, colta dal vivo nel primo dei leggendari concerti-jam di quell’anno degli «Esquire All-Stars» al Metropolitan. Qui Tatum accompagna il più prestigioso interprete di questa bella canzone, Coleman Hawkins (rinforzano l’ultima nota Roy Eldridge e Barney Bigard).
Quest’esecuzione è un classico dei classici. Voglio solo pregare che non ti sfugga l’incredibile suono di campane, o meglio di carillon, che Tatum trae dal pianoforte proprio alla fine del suo assolo (2:09-2:011).
Il presentatore che senti all’inizio è, almeno credo, Leonard Feather.
My Ideal (Robin-Whiting-Newell), da «Esquire All Stars Vol. 2», Jazz Unlimited JUCD 2017. Coleman Hawkins, sax tenore; Art Tatum, piano; Al Casey, chitarra; Oscar Pettiford, contrabbasso; Sid Catlett, batteria.
Avanti con Art Tatum e con un post meno analitico del precedente (non che lo fosse nemmeno quello, per la verità: al massimo era descrittivo, e spero che non ti abbia dissuaso dall’ascolto della musica).
Questa volta Art, che sarebbe morto meno di due mesi dopo, suona in quartetto in compagnia di Ben Webster. Coppia bene assortita, uno che suona un milione di note e l’altro solo una ogni tanto.
Have You Met Miss Jones? (Rodgers-Hart), da «The Art Tatum Group Masterpieces», Pablo 0600753312032. Ben Webster, sax tenore; Art Tatum, piano; Red Callender, contrabbasso; Bill Douglass, batteria.
Buon 2013 nel fausto segno di due coppie, Ella & Louis e i fratelli Gershwin. Scegli tu il proposito che t’ispira meglio: «l’amore è arrivato per restare», ovvero «mandiamo tutto a monte».
Our Love Is Here To Stay (Gershwin-Gershwin), da «Ella And Louis Again», Verve 825 374-2. Ella Fitzgerald e Louis Armstrong con Oscar Peterson, piano; Herb Ellis, chitarra; Ray Brown, contrabbasso; Louis Bellson, batteria. Registrato il 23 agosto 1957.