martedì 2 ottobre 2012

Twenty Three Neo (Michael Formanek)

 Seguo male l’attualità jazzistica; infatti scopro quasi ogni giorno  cose «vecchie» a me ignote o poco note, che mi sembrano più degne di attenzione e anche più immediatamente rimunerative in termini di piacere estetico: e preferisco dedicarmi a quelle. Non pretendo di avere ragione, perché so che non ce l’ho. Non riesco, per usare l’espressione di un mio amico, a essere «contemporaneo di me stesso».

 Ad ogni modo ho ascoltato solo da poco questo disco quasi recente di Michael Formanek (dello stesso quartetto ne è appena uscito un altro, che non ho sentito). Il lavoro è stato fra i più elogiati dell’ultimo anno e secondo alcuni osservatori sarebbe anche un’indizio forte del ritorno della ECM sul sentiero del jazz.

 I quattro in questione sono tutti musicisti di alto livello; Taborn, in particolare, mi sembra uno dei pianisti di maggiore talento in circolazione e nel disco ha un rilievo evidente, anche rispetto al sax alto di Tim Berne. Ho ascoltato fino a un certo punto con interesse, ma quanto al piacere estetico, boh. Ne ho ricavato piuttosto il compiacimento superficiale che un ascoltatore può ritrarre dal riconoscere gli ingranaggi della macchina musicale e dal riuscire a nominarli. La musica, che è di esecuzione difficile ed è eseguita benissimo, sembra porre molto sforzo nell’evitare ogni comunicativa immediata anche quando s’ingrana una specie di groove, come nella prima sezione del pezzo eponimo del disco. I quattro strumenti procedono su binari ritmici accortamente sfasati evitando gli equivoci metrici, il trompe l’oreille del minimalismo e quest’intreccio è reso con trasparenza, ma in qualche modo lasciando i fili a pendere, senza cioè che si arrivi a una sintesi espressiva collettiva.

 A questo – e a controbattere l’idea che questa release ECM sia poi tanto più jazzistica di altre – si aggiunge il fatto che la batteria figura sonicamente in secondo piano, in maniera anche paradossale, vista la difficoltà delle sue parti. Io alla fine non riesco a sentirvi molto più che un’elaborata clic track e dunque quella riduzione della batteria a mero dispositivo metronomico che è in genere un segno che ci si trovi in territori diversi dal jazz (e che era anche una mezza ossessione di Lennie Tristano).

 Non erano poi diversissime le acque in cui navigava il quartetto di Billy Hart (sempre ECM) di cui ho parlato bene qualche tempo fa, ma là, se non ricordo male, tutto filava con un senso minore di sicurezza e preordinazione, dunque con meno prudenza e con un pathos maggiore, e seguendo una direttiva espressiva marcatamente melodica.

Morale della favola: io mi sono annoiato.

 Twenty Three Neo (Formanek), da «The Rub And Spare Change», ECM 2167. Tim Berne, sax alto; Craig Taborn, piano; Michael Formanek, contrabbasso; Gerald Cleaver, batteria. Registrato nel giugno 2009.



 Download

9 commenti:

sergio pasquandrea ha detto...

l'ultimo disco di questo quartetto ce l'ho sul tavolo, in attesa di essere recensito.
ti faccio sapere.

prospettive musicali ha detto...

Nei dischi Ecm la batteria è quasi sempre «sonicamente in secondo piano, in maniera anche paradossale». Lo notavo per esempio nell'ultimo di Berne. Mi sono fatto l'idea che Eicher consideri la batteria uno strumento plebeo, un cedimento alla fisicità, al corpo, laddove tutto -- dalle copertine all'uso del riverbero -- dice che lui preferisce invece esaltare la compnente eterea della musica, la mente (naturalmente dico così pensando che lui creda a quella sciocca contrapposizione tra corpo e mente che qualcuno ha giustamente stigmatizzato facendo notare che la mente, cioè il cervello, fa parte del corpo non meno di un una mano o di un calcagno).
Ciao
Alessandro

negrodeath ha detto...

Avrà anche riportato il jazz nell'ECM, e rispetto alla media delle uscite ECM stessa, probabilmente, è vero. Però questa roba è insopportabile. Non tanto questo brano, che è il migliore del disco, ma il disco nell'insieme. Taborn e Cleaver li ho sentiti tante volte alle prese con musica molto migliore di questa frattura scomposta all'interno dei coglioni... Berne lo conosco troppo poco.

Marco Bertoli ha detto...

Mi sembra (ma aspetto ancora il parere di Sergio) che finora siamo tutti d'accordo… Chi li comprerà tutti questi dischi della ECM? ;-)

Paolo Lancianese ha detto...

Ho appena finito di ascoltare "Small Places". Ebbene, se è di noia che si parla, la notizia è che questo supera il precedente.

Marco Bertoli ha detto...

Commovente unanimità

sergio pasquandrea ha detto...

comunque, l'ECM non è sempre stata così.
i primi di Garbarek, per dire, erano roba post-ayleriana. e c'erano l'Art Ensemble of Chicago, i Gateway, persino Pat Metheny

Marco Bertoli ha detto...

È vero, e Jnp ne è consapevole: ci puoi trovare «African Pepperbird» di Garbarek, il primissimo Jarrett ECM («Facing You») e un capolavoro (secondo me) come «Around 6» di Kenny Wheeler.

prospettive musicali ha detto...

Sì, è vero, ci sono anche molti bei dischi nel catalogo Ecm; o meglio: c'è molta buona musica, spesso però penalizzata da una sorta di pensiero unico sul modo di registrarla. Su Ecm, dischi belli e dischi brutti sono accomunati da un unico suono che non tiene conto delle differenze tra un musicista e l'altro nell'uso degli strumenti, delle risonanze, dell'aria intorno a sé: per dirne una, che senso ha registrare la batteria di Peter Hollinger allo stesso modo di quella di Paul Motian, o quella di Charles Hayward come quella di Jon Christensen?
L'Art Ensemble of Chicago – al di là del fatto che è arrivata all'Ecm dopo i propri dischi migliori – nei dischi Ecm non aveva il suono Art Ensemble. Erano bei dischi con un bel suono ma diversissimo da quello che il gruppo aveva dal vivo.
Idem, allontanandosi dal jazz, per Der Mann Im Fahrstuhl di Heiner Goebbels, con un cast stellare ma con un suono esile che non aveva nulla a che fare con quello dei concerti della medesima formazione.
L'unico cui il suono Ecm abbia davvero giovato è forse Ed Blackwell: sentire la sua batteria non impastata ma con i tamburi ben distinti l'uno dall'altro, morbidi, natuirali, melodici, era una delle cose più belle dei dischi degli Old & New Dreams.
Ciao
Alessandro