lunedì 3 novembre 2014

Backlash – Echoes Of Blues (Freddie Hubbard)

 Freddie Hubbard, oltre a essere stato un trombettista supremo e un grande musicista, fu un uomo di singolare sincerità e candore nel parlare della sua musica e delle sue aspirazioni. Quando, dal finire degli anni Sessanta, si diede al funk e poi  a una musica via via sempre più facile, non nascose mai di farlo perché desiderava raggiungere quel successo di pubblico, quindi economico, che l’aver preso parte ai più grandi dischi del jazz moderno («Out To Lunch», «Free Jazz», «Ascension», «Blues And The Abstract Truth», mi fermo qui) non gli aveva assicurato.

 Con tutto ciò, i suoi dischi crossover sono di norma assai più belli di quelli di suoi colleghi che, pur motivati non diversamente, nelle loro dichiarazioni accampavano sempre nebulose motivazioni artistiche. «Red Clay», 1970, è un capolavoro del jazz di quegli anni, ma già questo «Backlash» del 1967 è roba di alto livello: funky jazz di classe nel pezzo del titolo e, nel blues Echoes Of Blues, cui l’insistenza sulle quinte diminuite conferisce una dimensione bitonale, l’esperienza di Hubbard sui confini più avanzati del jazz degli anni Sessanta.

 È preziosa l’occasione di ascoltare James Spaulding al sax e al flauto e soprattutto il grande pianista Albert Dailey.

 Backlash (Don Pickett), da «Backlash», Atlantic Masters 81227 3613-2. Freddie Hubbard, tromba; James Spaulding, sax alto; Albert Dailey, piano; Bob Cunningham, contrabbasso; Otis Ray Appleton, batteria; Ray Barretto, percussioni. Registrato nell’ottobre 1966.



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 Echoes Of Blues (Cunningham), id. Spaulding suona il flauto.



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9 commenti:

negrodeath ha detto...

Questa è roba superbissima. Dall'intro sembra quasi che uno debba scusarsi se l'apprezza! :)

Marco Bertoli ha detto...

È così, in un certo senso. Vedo (leggo) sempre di più, anche nel jazz, le musiche usate non come oggetto di godimento o di conoscenza, ma in primo luogo come clave da dare in testa a chi abbia, o si presuma abbia, gusti diversi. Preferisco mettere le mani avanti e passare per 'moderato' e magari democristiano.

Questo è un bel disco, ma ciò non toglie che non si possa in nessun modo mettere sullo stesso livello dei dischi di Hubbard faceva negli anni precedenti; quelli che ho citato o i parecchi Blue Note a proprio nome.

loopdimare ha detto...

non c'è niente di male fare dischi commerciali. il problema è che è molto difficile farli belli. ci vuole un produttore esperto ed un arrangiatore che abbia in testa un "progetto sonoro" decente. con Creed Taylor la cosa ha funzionato (anche se bisogna dire che Taylor ha prodotto anche parecchia fuffa, non di Hubbard però).
dopo le cose si sono pochino banalizzate. ricordo un suo disco con gli archi veramente insopportabile.
dal vivo sempre energetico come pochi...

MJ ha detto...

Hubbard suonava sempre allo stesso modo – è questo il paradosso – sia su "Ascension" sia sulle sue cose più trucide.
Qualcuno possiede, per esempio, "Splash", un cd di Hubbard del 1981 dall'impostazione volutamente disco? Ecco, se lo ha, provi a isolare – dalla title track – il tema esposto da Hubbard e immaginarselo con una sezione ritmica di stampo prettamente hard bop (ovviamente con un a diversa ritmica eccetera).

Gianni Morelenbaum Gualberto ha detto...

Da Freddie Hubbard sino a Herbie Hancock, tanto per fare nomi altisonanti, sono stati molti, a mio parere, gli artisti fortemente e assai colpevolmente "incompresi" nel loro sforzo di mettere in relazione la loro arte con certo "comune sentire" africano-americano. Leggere l'esperienza africano-americana secondo parametri che non tengano conto della radicale diversità e peculiarità di tale esperienza o che, peggio, esprimano qualche "wishful thinking" correlato al nostro ridotto contesto, non può che portare a interpretazioni errate o fuorvianti. A partire dal Miles Davis elettrico, l'aggettivo "commerciale" s'è sprecato nel definire un numero pletorico di lavori musicali africano-americani legati all'improvvisazione: questo, credo, sia stato un macroscopico errore, spesso frutto di ignoranza o di "ismi" para-ideologici o di forzature derivate da motivazioni extra-musicali. Ciò non toglie che, magari, in termini di puro "artigianato", molti di tali lavori fossero poco meritevoli, ma lo spacciare per "commerciale" tutto ciò che si relazionasse alla tradizione africano-americana in modo diverso da quanto previsto dall'ortodossia di un Canone letteralmente inventato, in questo caso, da non-africano-americani, è stato deleterio, creando delle categorie artistiche e critiche del tutto ibride se non abnormi.Per questo credo sia in qualche modo improprio paragonare, che so, certa produzione di Hubbard o di Hancock e di molti altri a quella più "ortodossa". Fermo restando che anche il soul-jazz fu spesso criticato perché in odore di eresia, a partire dagli anni Sessanta credo si sia frainteso buona parte dell'esperienza musicale africano-americana fino ai giorni d'oggi, così come anche un'esperienza solo apparentemente opposta (ma non nei fini) come il free-jazz è stata letta in modo del tutto stravolto, estrapolandola dal proprio contesto storico e sociale africano-americano e americano e piegandola -in un primo fenomeno di neo-colonialismo (che ha trovato consenzienti anche non pochi artisti africano-americani, convinti dell'utilità di cavalcare tale tigre)- ad un'interpretazione che aveva un senso solo alla luce di analisi politiche e, conseguentemente estetiche, affatto europee. Ci sarebbe, innanzitutto, da chiedersi cosa s'intenda per "commerciale" in contesti diversi dai nostri e ben più variegati e se tale termine abbia senso, così come lo intendiamo noi, in detti contesti. Credo che, in tale ottica -supportata da nuove analisi, da diverse e più complete acquisizioni di dati, da una conoscenza più approfondita di ambiti socio-culturali diversi dai nostri, da minore accondiscendenza e da minore paternalismo- molte pagine della cultura africano-americana ci apparirebbero in nuova luce.

Riccardo Facchi ha detto...

sto riscrivendo e ampliando un mio pezzo comparso qualche tempo fa su Tracce di Jazz e che sto preparando per il sito di Niccolò (negrodeath) Free Fall Jazz, per il quale ora collaboro, su Stevie Wonder, che mi pare, più vado avanti a studiarlo una figura chiave per comprendere meglio alcune delle cose a cui accenna Gianni, legate appunto al rapporto tra Jazz, Soul, Funky e altre cose da esso poi derivate. Nello studiare la sua opera è ciò che è stato intorno a lui si capisce come dietro al concetto di "commerciale" si sia fatto un grande minestrone mettendo nello stesso calderone cose decisamente valide musicalmente, alcune persino eccelse, ad altre che non lo sono per niente. Mi pare che certi preconcetti nei quali siamo un po' tutti noi appassionati sulla cinquantina cresciuti, stiano ancora impedendo di avere un quadro più obiettivo ed equlibrato su certe musiche che andrebbero vagliate con maggiore attenzione critica di quello che si è fatto sino ad ora.

Marco Bertoli ha detto...

Tutto giusto e del resto, mi pare, abbastanza risaputo. Quanto alla «commercialità» di Hubbard, mi limitavo a ricordare quanto ne ha detto lui stesso!

Gianni M. Gualberto ha detto...

Noi spesso dimentichiamo che artisti poi in qualche modo etichettati come "facili" o inclini a "concessioni", come lo stesso Hubbard, furono estremamente attivi anche in campo "politico". E più di altri che, magari, risultavano essere più musicalmente ortodossi o "avanzati". Quanto al risaputo non ne sarei così sicuro, almeno a leggere molti testi che circolano dalle nostre parti. Ancora oggi credo, ad esempio, che un artista come Roland Kirk, tappa di un percorso lungo e ricco, ancora non sia stato ben percepito nella sua "storicità" e rappresentatività...

Gianni M. Gualberto ha detto...

D'altronde, proprio di recente la discussione su Herbie Hancock dimostra che, purtroppo, si perpetuano cliché e stereotipi che hanno creato scale di valori solo ed esclusivamente bianche ed occidentali, in cui l'atto del patronizing è costant e deviante.