Reload dal 27 aprile 2017
Non è facile immaginare oggi che effetto dovesse avere sulle orecchie del 1973 «Open, To Love» di Paul Bley, perché la sua influenza su molto jazz successivo, soprattutto bianco ed europeo, è stata così pervasiva e insieme subliminare da rendere strano pensare che, prima che Bley la suonasse, una musica del genere non ci fosse. È questo disco ad aver tracciato le linee programmatiche dell’etichetta tedesca ECM di Manfred Eicher, nel bene e nel male una delle più importanti degli ultimi quarant’anni.
Cresciuto su radici profonde nel blues, nel modernismo di Bud Powell e di Bill Evans e nutrito di una linfa ritmica senz’altro jazzistica, il pianismo-albero di Bley innalza e allarga i rami toccando l’impressionismo e il puntillismo e annuncia – aveva cominciato a farlo anni prima – la musica di Keith Jarrett in molti suoi caratteri peculiari. La dimensione del silenzio, le microdinamiche acquistano in «Open, To Love» un valore strutturale; nella lunghezza estenuata delle pause e dei valori e nel rilievo che vi assumono ogni singola nota e rumore (in Open, To Love si sente Bley agire direttamente sulle corde e cantare; non mugolare à la Jarrett, cantare proprio, anche se sottovoce), la musica vive in un eterno presente in cui diresti che qualunque cosa possa succedere.
Questa apertura, annunciata dal titolo, la sottrae a un’epoca e a uno stile precisi ma anche alle tentazioni del sentimento squisito, dell’edonismo sonoro, non evitate invece da tanto jazz derivativo, in specie europeo. È musica che, presentandosi con lo stigma della contemplazione, cioè del distacco, risulta infine personale come poche; per questo non sembra fuori luogo osservare come, di sette pezzi del disco, cinque siano composizioni di due ex-mogli di Bley, Carla Bley (nata Borg) e Annette Peacock.
Open, To Love (A. Peacock), da «Open, To Love», ECM 1023. Paul Bley, piano. Registrato nel settembre 1972.
Nothing Ever Was, Anyway (A. Peacock), id.
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