Su Clarence Profit (1912-1944), che ci ha lasciato così poche registrazioni, ci sarebbe invece tanto da dire e un’altra volta lo farò. Di questa esecuzione merita osservare che presenta la, a mia conoscenza, prima istanza di influsso di jazz europeo sul jazz americano: parlo del chitarrista Jimmy Shirley, che aveva evidentemente ascoltato con attenzione Django Reinhardt.
Hot And Bothered (Ellington), da «Kings & Queens of Ivory 1: 1935-1940», MCA MCA-1329. Clarence Profit, piano; Jimmy Shirley, chitarra; Benjamin Brown, contrabbasso. Registrato l’11 settembre 1940.
domenica 30 aprile 2017
mercoledì 26 aprile 2017
Hat and Beard – Straight Up and Down (Eric Dolphy)
Ho scritto questo pezzetto, con altri simili, per una rivista che l’anno scorso ha avuto vita meno che breve, ed è stato un peccato; al che puoi imputare un certo didascalismo di norma estraneo a Jnp, che si rivolge a lettori evoluti. Absit iniuria.
A dare retta alle storie del jazz, nella vicenda della musica ogni momento procede come di necessità biologica, evolutiva, dal precedente, e ne è spiegato. Eppure, nel jazz come in tutte le altre storie, si dànno opere alle quali è difficile trovare precedenti prossimi o lontani. Nel caso di «Out To Lunch» potremmo dire lo stesso del suo autore. Eric Dolphy, morto trentaseienne sei mesi dopo quest’incisione, si era fatto notare con Chico Hamilton e poi con Charles Mingus e Ornette Coleman, con i quali prese parte a imprese leggendarie, quindi con John Coltrane, nonché come solista di sax alto, clarinetti e flauto in molti dischi con gruppi proprî, nonché in esperimenti di Third Stream che tentarono di fondere prassi e scrittura concertistica “europea” con l’improvvisazione jazzistica.
Ma all’inizio del 1964, con l’hard bop da una parte e dall’altra la New Thing al calor bianco (Shepp, Taylor, Ayler e i prodromi della conversione coltraniana all’informale che sarebbe deflagrata l’anno dopo in «Ascension»), da dove diavolo veniva una cosa come «Out To Lunch»? La cui alienità al contesto, oltretutto, era denunciata già dal titolo, che significa sì «in pausa pranzo», ma anche «bislacco», «non proprio a posto» se non addirittura «un po’ scemo». Dolphy raduna qui una all-stars – Freddie Hubbard alla tromba, Bobby Hutcherson al vibrafono, Richard Davis al contrabbasso e Tony Williams alla batteria, manca il pianoforte – tutta di scuderia Blue Note, musicisti avanzati ma nessuno propriamente ascrivibile al free, e l’adibisce a composizioni capziose, ora angolose ora limpidamente impressionistiche (in Gazzelloni sentiamo il suo flauto; Hat And Beard è un ritratto cubista di Monk; Straight Up And Down s’inizia con una stralunata movenza funky), precise e al tempo stesso a maglie larghe, in cui l’improvvisazione è libera ma indirizzata. Musica suggestiva di dimensioni ulteriori che l’ascoltatore, al quale è richiesta un’attenzione senza remissioni, percepisce con certezza ma non potrebbe definire esattamente.
Così come con gli ultimi dischi di un altro caro agli dèi, Booker Little, ascoltando «Out To Lunch» viene da pensare che, se il destino l’avesse permesso, la storia del jazz come la conosciamo sarebbe stata diversa. A più di cinquant’anni dalla sua pubblicazione, resta un testo sibillino, un manoscritto del Mar Morto della musica afroamericana, mai completamente interpretato, fertile di una bellezza reticente, abbagliante di una verità che non si esaurisce, come un vero classico o un testo sapienziale.
Hat And Beard (Dolphy), da «Out to Lunch», Blue Note CDP 7 46524 2. Freddie Hubbard, tromba; Eric Dolphy, clarinetto basso; Bobby Hutcherson, vibrafono; Richard Davis, contrabbasso; Tony Williams, batteria. Registrato il 25 febbraio 1964.
Straight Up And Down (Dolphy), ib. ma Dolphy suona il sax alto.
martedì 25 aprile 2017
I Got It Bad – 21st Century Blues (Jeff Denson)
Alessandrinismo musicale, ma almeno la canzone di Ellington, che Jeff Denson archeggia interamente sui suoni armonici del contrabbasso, ha una sua sincerità espressiva (mi pare).
Buona Liberazione!
I Got It Bad (Ellington), da «Concentric Circles», Ridgeway Records. Jeff Denson, contrabbasso. Registrato nel 2015 o 2016.
21st Century Blues (Denson), ib. Paul Hanson, fagotto; Dan Zemelman, piano; Denson; Alan Hall, batteria.
Buona Liberazione!
I Got It Bad (Ellington), da «Concentric Circles», Ridgeway Records. Jeff Denson, contrabbasso. Registrato nel 2015 o 2016.
21st Century Blues (Denson), ib. Paul Hanson, fagotto; Dan Zemelman, piano; Denson; Alan Hall, batteria.
lunedì 24 aprile 2017
Open, To Love (Paul Bley) (Marilyn Crispell)
Non è facile immaginare oggi che effetto dovesse avere sulle orecchie del 1973 «Open, To Love» di Paul Bley, perché la sua influenza su molto jazz successivo, soprattutto bianco ed europeo, è stata così pervasiva e insieme subliminare da rendere strano pensare che, prima che Bley la suonasse, una musica del genere non ci fosse. È questo disco ad aver tracciato le linee programmatiche dell’etichetta tedesca ECM di Manfred Eicher, nel bene e nel male una delle più importanti degli ultimi quarant’anni.
Cresciuto su radici profonde nel blues, nel modernismo di Bud Powell e di Bill Evans e nutrito di una linfa ritmica senz’altro jazzistica, il pianismo-albero di Bley innalza e allarga i rami toccando l’impressionismo e il puntillismo e annuncia – aveva cominciato a farlo anni prima – la musica di Keith Jarrett in molti suoi caratteri peculiari. La dimensione del silenzio, le microdinamiche acquistano in «Open, To Love» un valore strutturale; nella lunghezza estenuata delle pause e dei valori e nel rilievo che vi assumono ogni singola nota e rumore (in Open, To Love si sente Bley agire direttamente sulle corde e cantare; non mugolare à la Jarrett, cantare proprio, anche se sottovoce), la musica vive in un eterno presente in cui diresti che qualunque cosa possa succedere.
Questa apertura, annunciata dal titolo, la sottrae a un’epoca e a uno stile precisi ma anche alle tentazioni del sentimento squisito, dell’edonismo sonoro, non evitate invece da tanto jazz derivativo, in specie europeo. È musica che, presentandosi con lo stigma della contemplazione, risulta infine personale come poche; per questo non sembra fuori luogo osservare come, di sette pezzi del disco, cinque siano composizioni di due ex-mogli di Bley, Carla Bley (nata Borg) e Annette Peacock.
A dimostrare l’influsso e i rischi di quell’estetica, faccio seguire un’esecuzione dello stesso pezzo della Peacock data un quarto di secolo dopo da Marilyn Crispell con due collaboratori di Bley.
Open, To Love (A. Peacock), da «Open, To Love», ECM 1023. Paul Bley, piano. Registrato nel settembre 1972.
Open, To Love, da «Nothing Ever Was, Anyway: Music of Annette Peacock», ECM. Marilyn Crispell, piano; Gary Peacock, contrabbasso; Paul Motian, batteria. Registrato nel settembre 1996.
Cresciuto su radici profonde nel blues, nel modernismo di Bud Powell e di Bill Evans e nutrito di una linfa ritmica senz’altro jazzistica, il pianismo-albero di Bley innalza e allarga i rami toccando l’impressionismo e il puntillismo e annuncia – aveva cominciato a farlo anni prima – la musica di Keith Jarrett in molti suoi caratteri peculiari. La dimensione del silenzio, le microdinamiche acquistano in «Open, To Love» un valore strutturale; nella lunghezza estenuata delle pause e dei valori e nel rilievo che vi assumono ogni singola nota e rumore (in Open, To Love si sente Bley agire direttamente sulle corde e cantare; non mugolare à la Jarrett, cantare proprio, anche se sottovoce), la musica vive in un eterno presente in cui diresti che qualunque cosa possa succedere.
Questa apertura, annunciata dal titolo, la sottrae a un’epoca e a uno stile precisi ma anche alle tentazioni del sentimento squisito, dell’edonismo sonoro, non evitate invece da tanto jazz derivativo, in specie europeo. È musica che, presentandosi con lo stigma della contemplazione, risulta infine personale come poche; per questo non sembra fuori luogo osservare come, di sette pezzi del disco, cinque siano composizioni di due ex-mogli di Bley, Carla Bley (nata Borg) e Annette Peacock.
A dimostrare l’influsso e i rischi di quell’estetica, faccio seguire un’esecuzione dello stesso pezzo della Peacock data un quarto di secolo dopo da Marilyn Crispell con due collaboratori di Bley.
Open, To Love (A. Peacock), da «Open, To Love», ECM 1023. Paul Bley, piano. Registrato nel settembre 1972.
Open, To Love, da «Nothing Ever Was, Anyway: Music of Annette Peacock», ECM. Marilyn Crispell, piano; Gary Peacock, contrabbasso; Paul Motian, batteria. Registrato nel settembre 1996.
domenica 23 aprile 2017
Squeaks – Ernesto, Do You Have A Cotton Box? (Hypercolor)
Attualità! Certe volte il materiale stampa di alcuni dischi, con acclusi commenti di critici autorevoli o come tali buccinati, mi ispira una tale soggezione che, anche quando il disco mi sembri mediocre o inconcludente, non ci metto nulla a persuadermi di non avere capito io e mi prende l’angoscia di restare indietro, di fare fra dieci anni la figura di quello che nel 1959 aveva detto che Ornette Coleman era stonato e non andava a tempo.
Di questi tre, per esempio, leggo che sono «un sovversivo trio jazz-rock che combina avant-jazz, punk, new music, no wave, tradizioni africane e israeliane» e anche che «(…) scatenano un ibrido di complessità, insania ed entropia». Chi cacchio sono io per dire di no?
A parte poi che uno dei tre si chiama Ligeti e nella foto vedo uno che forse un po’ a Gyorgy Ligeti somiglia, che ne sia il figlio? Mah. Dico il vero: a Ligeti, in quella foto, mi pare che somiglino tutti e tre..
Con tante bojate che si sentono in giro, il dischetto degli Hypercolor non è spiacevole, tranne quando lo è (slentato, noioso, brodoso, pretensioso). Very light fare.
Squeaks (Maoz), da «Hypercolor», Tzadik TZ 811. Hypercolor: Eyal Maoz, chitarra; James Ilgenfritz, basso elettrico; Lukas Ligeti, batteria. Registrato nel 2016.
Ernesto, Do You Have A Cotton Box? (Ligeti), id.
Di questi tre, per esempio, leggo che sono «un sovversivo trio jazz-rock che combina avant-jazz, punk, new music, no wave, tradizioni africane e israeliane» e anche che «(…) scatenano un ibrido di complessità, insania ed entropia». Chi cacchio sono io per dire di no?
A parte poi che uno dei tre si chiama Ligeti e nella foto vedo uno che forse un po’ a Gyorgy Ligeti somiglia, che ne sia il figlio? Mah. Dico il vero: a Ligeti, in quella foto, mi pare che somiglino tutti e tre..
Con tante bojate che si sentono in giro, il dischetto degli Hypercolor non è spiacevole, tranne quando lo è (slentato, noioso, brodoso, pretensioso). Very light fare.
Squeaks (Maoz), da «Hypercolor», Tzadik TZ 811. Hypercolor: Eyal Maoz, chitarra; James Ilgenfritz, basso elettrico; Lukas Ligeti, batteria. Registrato nel 2016.
Ernesto, Do You Have A Cotton Box? (Ligeti), id.
sabato 22 aprile 2017
Six Bits Blues (Max Roach) RELOADED
Reload dal 26 marzo 2011. A distanza di anni credo che questo sia rimasto il pezzo più lungo mai pubblicato qui sopra.
OK, questo è il pezzo più lungo che Jazz nel Pomeriggio abbia mai pubblicato: di fatto, si tratta di un intero LP. Sentirai il grande quartetto che Max Roach portava in giro in quegli anni, spessissimo anche in Italia, dove infatti il disco fu registrato da Aldo Sinesio. A rendere il tutto più indimenticabile è il contrabbasso nelle mani di Reggie Workman. Billy Harper è struggente, Bridgewater molto bravo, Workman mostra chi sia anche con l’archetto, ma a strabiliare, una volta di più, è Max, che sostiene e innerva per più di mezz’ora un 6/8 lento e ieratico come non so quale altro batterista sarebbe stato capace di fare.
Six Bits Blues (Roach), da «The Loadstar», HORO HDP 9-10. Cecil Bridgewater, tromba; Billy Harper, sax tenore; Reggie Workman, contrabbasso; Max Roach, batteria. Registrato a Roma il 27 luglio 1977.
mercoledì 19 aprile 2017
Man From South Africa – Tender Warriors (Max Roach)
Càpita – anzi, restringiamo, càpita a me: càpita che io creda di conoscere a menadito certi dischi di jazz e sono magari dischi che ho ascoltato l'ultima volta per intero quando era ancora in piedi l’Unione Sovietica e, alle scuole medie, vigeva l’insegnamento di «applicazioni tecniche»; di fatto, quando mi càpiti di riconsiderarli, quei dischi, mi avvedo che ne avevo un’immagine distorta, lontana, sommaria e quasi sempre falsa. Te lo dico anche perché tu faccia la tara a tante cose che scrivo qui sopra.
È questo il caso di «Percussion Bitter Sweet», di cui mi ha colpito al riascolto neanche tanto l‘esecuzione davvero meravigliosa da parte di tutti e soprattutto di Max Roach e di Booker Little (ma vi figura benissimo anche la Abbey Lincoln, cantante che di norma non mi piace), quanto il pregio e l’intelligenza delle composizioni e degli arrangiamenti di Roach, con quei voicing aperti, virtualmente bitonali, dai quali avrebbe tratto grande partito Booker Little nei suoi ultimi due dischi: qui sopra ne ho parlato sovente, se ti va puoi leggere sotto l’etichetta Booker Little.
Le composizioni, molto caratterizzate senza essere facili, sono stimolo a improvvisazioni espressive e liberissime, che – soprattutto quando è Dolphy a suonare – trattano con libertà pulsazione e armonia senza distaccarsene del tutto; le percussioni latin sono adoperate con grande intelligenza e non a gramo scopo di colore. E Max Roach, ebbene sì, è stato infine il più gran batterista di jazz e lo resterà chissà per quanto tempo ancora.
Nel 1961 questo era un disco molto avanti e continua a esserlo dopo tanti anni; uno dei dischi più belli del decennio, direi proprio, superiore all’altro di Roach dell’anno precedente, più noto, la «Freedom Now Suite».* Il livello ne è così costantemente alto che avrei potuto scegliere due pezzi a caso, e così ho fatto.
Tu sei d’accordo? Non sei d’accordo? Fatti sentire, santo D*o, scrivi, telefona.
* Che non ascolto dai tempi di un qualche governo Andreotti, per cui non escludere una pronta ritrattazione.
Man From South Africa (Roach), da «Percussion Bitter Sweet», Impulse!/GRP GRD 122. Booker Little, tromba; Julian Priester, trombone; Eric Dolphy, sax alto e flauto; Clifford Jordan, sax tenore; Mal Waldron, piano; Art Davis, contrabbasso; Max Roach, batteria; Carlos «Potato» Valdez, conga; Carlos «Totico» Eugenio, campanaccio. Registrato nell’agosto 1961.
Tender Warriors (Roach), id. Dolphy suona anche il clarinetto basso.
È questo il caso di «Percussion Bitter Sweet», di cui mi ha colpito al riascolto neanche tanto l‘esecuzione davvero meravigliosa da parte di tutti e soprattutto di Max Roach e di Booker Little (ma vi figura benissimo anche la Abbey Lincoln, cantante che di norma non mi piace), quanto il pregio e l’intelligenza delle composizioni e degli arrangiamenti di Roach, con quei voicing aperti, virtualmente bitonali, dai quali avrebbe tratto grande partito Booker Little nei suoi ultimi due dischi: qui sopra ne ho parlato sovente, se ti va puoi leggere sotto l’etichetta Booker Little.
Le composizioni, molto caratterizzate senza essere facili, sono stimolo a improvvisazioni espressive e liberissime, che – soprattutto quando è Dolphy a suonare – trattano con libertà pulsazione e armonia senza distaccarsene del tutto; le percussioni latin sono adoperate con grande intelligenza e non a gramo scopo di colore. E Max Roach, ebbene sì, è stato infine il più gran batterista di jazz e lo resterà chissà per quanto tempo ancora.
Nel 1961 questo era un disco molto avanti e continua a esserlo dopo tanti anni; uno dei dischi più belli del decennio, direi proprio, superiore all’altro di Roach dell’anno precedente, più noto, la «Freedom Now Suite».* Il livello ne è così costantemente alto che avrei potuto scegliere due pezzi a caso, e così ho fatto.
Tu sei d’accordo? Non sei d’accordo? Fatti sentire, santo D*o, scrivi, telefona.
* Che non ascolto dai tempi di un qualche governo Andreotti, per cui non escludere una pronta ritrattazione.
Man From South Africa (Roach), da «Percussion Bitter Sweet», Impulse!/GRP GRD 122. Booker Little, tromba; Julian Priester, trombone; Eric Dolphy, sax alto e flauto; Clifford Jordan, sax tenore; Mal Waldron, piano; Art Davis, contrabbasso; Max Roach, batteria; Carlos «Potato» Valdez, conga; Carlos «Totico» Eugenio, campanaccio. Registrato nell’agosto 1961.
Tender Warriors (Roach), id. Dolphy suona anche il clarinetto basso.
domenica 16 aprile 2017
Dive Bar – Dorian Gray – You Are Too Beautiful (Jason Rigby)
Jason Rigby (1974), tenorsaxofonista di Cleveland, ha chiamato questo trio Detroit-Cleveland Trio perché da Detroit vengono i suoi due insigni compari in questa working band, Cameron Brown e Gerald Cleaver.
Rigby è un post-coltraniano – Dive Bar è redolente dei duetti Trane-Elvin, anche se Cleaver suona diversissimo da Elvin, e You Are Too Beautiful era nel disco di Coltrane con Johnny Hartman – dalla bellissima sonorità scura e inflessa, e fa sul sax tenore tutto quello che è lecito aspettarsi and then some; soprattutto è uno che scrive e dirige la sua band con un bel senso della forma (nota come, in Dorian Gray, il 7/4 con cui il pezzo s’inizia lasci posto, giusto alla metà, a un groove sormontato però da una melodia asimmetrica), e dà spazio ai due autentici padreterni che sono Brown e Cleaver. Il tutto lascia l’impressione, che io non ricevo così di frequente dai dischi di jazz che escono oggi, di essere stato suonato con entusiasmo genuino e in spirito di libertà.
Buona Pasqua!
Dive Bar (Rigby), da «One», Fresh Sound. Jason Rigby, sax tenore; Gerald Cleaver, batteria. Registrato nel 2016.
Dorian Gray (Rigby), id. più Cameron Brown, contrabbasso.
You Are Too Beautiful (Rodgers-Hart), id.
Rigby è un post-coltraniano – Dive Bar è redolente dei duetti Trane-Elvin, anche se Cleaver suona diversissimo da Elvin, e You Are Too Beautiful era nel disco di Coltrane con Johnny Hartman – dalla bellissima sonorità scura e inflessa, e fa sul sax tenore tutto quello che è lecito aspettarsi and then some; soprattutto è uno che scrive e dirige la sua band con un bel senso della forma (nota come, in Dorian Gray, il 7/4 con cui il pezzo s’inizia lasci posto, giusto alla metà, a un groove sormontato però da una melodia asimmetrica), e dà spazio ai due autentici padreterni che sono Brown e Cleaver. Il tutto lascia l’impressione, che io non ricevo così di frequente dai dischi di jazz che escono oggi, di essere stato suonato con entusiasmo genuino e in spirito di libertà.
Buona Pasqua!
Dive Bar (Rigby), da «One», Fresh Sound. Jason Rigby, sax tenore; Gerald Cleaver, batteria. Registrato nel 2016.
Dorian Gray (Rigby), id. più Cameron Brown, contrabbasso.
You Are Too Beautiful (Rodgers-Hart), id.
sabato 15 aprile 2017
Genoa To Pescara (Jaki Byard)
Questa cartolina italiana, rivelatrice di una in verità mai nascosta ascendenza raveliana di Jaki Byard, viene da un disco di duetti di Byard con Earl Hines, no less. Come tutti o quasi i duetti di pianoforti, non è molto riuscito, ma lo stesso prima o poi te ne farò sentire qualcosa.
Genoa To Pescara (Byard), da «Duet!», MPS. Jaki Byard, piano. Registrato il 14 febbraio 1972.
Genoa To Pescara (Byard), da «Duet!», MPS. Jaki Byard, piano. Registrato il 14 febbraio 1972.
venerdì 14 aprile 2017
1972 Bronze Medalist (The Bad Plus)
Ultimissime: Ethan Iverson, dalla fine di quest’anno, non suonerà più il piano nei Bad Plus, dove verrà sostituito da Orrin Evans. L’ha annunciato Iverson stesso sul suo blog (invece, qui, retroscena, malignità e sugosi pettegolezzi).
La cosa non mi sorprende: come ti ho detto più volte, mi pare che già da anni Iverson avesse ormai più poco o niente a che fare con i Bad Plus, che sono sempre stati soprattutto un’idea di Reid Anderson. Anzi, mi domando come abbia resistito tanto a lungo. Con la sua uscita non so proprio che cosa potrà rimanere della band, senza nulla levare a Evans, che è un buon pianista.
Comunque voglio ricordare i BP, un trio che ai suoi esordi a me è piaciuto molto, tanto da averteli proposti spesso, così come li ho conosciuti, con un caratteristico pezzo (composto da David King) dal loro disco forse più bello, «These Are The Vistas».
1972 Bronze Medalist (King), da «These Are The Vistas», Columbia CK 87040. The Bad Plus: Ethan Iverson, piano; Reid Anderson, contrabbasso; David King, batteria. Registrato nel settembre o ottobre 2002.
La cosa non mi sorprende: come ti ho detto più volte, mi pare che già da anni Iverson avesse ormai più poco o niente a che fare con i Bad Plus, che sono sempre stati soprattutto un’idea di Reid Anderson. Anzi, mi domando come abbia resistito tanto a lungo. Con la sua uscita non so proprio che cosa potrà rimanere della band, senza nulla levare a Evans, che è un buon pianista.
Comunque voglio ricordare i BP, un trio che ai suoi esordi a me è piaciuto molto, tanto da averteli proposti spesso, così come li ho conosciuti, con un caratteristico pezzo (composto da David King) dal loro disco forse più bello, «These Are The Vistas».
1972 Bronze Medalist (King), da «These Are The Vistas», Columbia CK 87040. The Bad Plus: Ethan Iverson, piano; Reid Anderson, contrabbasso; David King, batteria. Registrato nel settembre o ottobre 2002.
giovedì 13 aprile 2017
Cedar Manor (Cyril Haynes)
Un bel sestetto tardo-swing con musicisti che di lì a pochissimo (qui era il 1944) si sarebbero uniti ai bebopper, sia pure con qualche riserva, nel caso di Don Byas. Capo nominale del gruppo è Cyril Haynes (1915-1996), apprezzato journeyman del jazz di quegli anni.
Cedar Manor (Haynes), da «Piano Reraties, 1923-1953», raccolta di Gems of Jazz. Dick Vance, tromba; Don Byas, sax tenore; Cyril Haynes, piano; Al Casey, chitarra: John Levy, contrabbasso; Harold «Doc» West, batteria. Registrato nel 1944.
Cedar Manor (Haynes), da «Piano Reraties, 1923-1953», raccolta di Gems of Jazz. Dick Vance, tromba; Don Byas, sax tenore; Cyril Haynes, piano; Al Casey, chitarra: John Levy, contrabbasso; Harold «Doc» West, batteria. Registrato nel 1944.
martedì 11 aprile 2017
Let It Be – Your Song (Shirley Scott)
Shirley Scott! La quale nella canzone di Elton John canta anche con un certo garbo.
Ma sì, va’. Che oggi ci siamo, domani chi lo sa.
Let It Be (Lennon-McCartney), da «Mystical Lady», Cadet CA 50009. Pee Wee Ellis, sax tenore; Shirley Scott, organo; George Freeman, chitarra; Richard Davis, contrabbasso; Freddie Waits, batteria. Registrato nel 1971.
Your Song (Elton John), id.
Ma sì, va’. Che oggi ci siamo, domani chi lo sa.
Let It Be (Lennon-McCartney), da «Mystical Lady», Cadet CA 50009. Pee Wee Ellis, sax tenore; Shirley Scott, organo; George Freeman, chitarra; Richard Davis, contrabbasso; Freddie Waits, batteria. Registrato nel 1971.
Your Song (Elton John), id.
lunedì 10 aprile 2017
Bud On Bach – Some Soul (Bud Powell) RELOADED
Reload dal settembre 2011.
Bud on Bach: Bud Powell esegue, male, l’insulso Solfeggietto in do minore di Carl Philipp Emanuel Bach, un pezzullo un tempo di moda nella didattica pianistica e che anche Ahmad Jamal ama citare nei suoi assoli (per esempio qui in Wave, a 0:27), e poi vi improvvisa swingando, con molto più sugo.
In questa sua tarda e ultima seduta per la Blue Note, organizzata in qualche modo (in cinque pezzi c’è Curtis Fuller), Bud improvvisa anche questo blues Some Soul, che il biografo della Blue Note, Richard Cook, indica come esempio in cui il povero Bud «perde completamente la strada» (per non dire, si capisce «la testa»).
Ora, è vero che fra i grandi del jazz, e Bud è fra i grandissimi, forse nessun altro è falloso tanto spesso quanto lo è Bud. Tuttavia perfino questo blues divagante e informe, dall’incedere ora incerto ora sgarbato, è tutto Bud. Non se ne butta via niente! Ma nemmeno a pensarci…
Bud on Bach (C.P.E. Bach-Powell), da «The Amazing Bud Powell Volume Three - Bud!», Blue Note 7243 5 35585 2 9. Bud Powell, piano. Registrato il 3 agosto 1957.
Some Soul (Powell), ib. Bud Powell; Paul Chambers, contrabbasso; Art Taylor, batteria.
domenica 9 aprile 2017
Gano Club (Oliver Lake)
A me questo genere di musiche va a genio: composizioni-esecuzioni che nei loro elementi musicali costitutivi e nella loro resa materiale (la stessa cosa, nel jazz) svolgono senza parere una riflessione teoretica e storica, una specie di critica poietica. Ci sono musicisti che più di altri vi sono inclini: uno è Yusef Lateef e su Jnp te ne ho indicato una o due istanze; ma per esempio ho commentato un simile operare in un lavoro del Coltrane «di mezzo»; sospetto che una lettura del genere possa applicarsi a tutti i jazzisti importanti.
Un jazzista importante, di cui si parla meno di altri, è Oliver Lake. Gano Club comincia ripetendo per tre volte tema metricamente fratturato, che potrebbe intendersi come in 16 suddiviso, per esempio, in 3+3+3+3+4; gli assoli poi si svolgono sul regolarissimo blues in dodici battute. Il bello è che tactus e ritmo restano i medesimi così sotto quella sequenza capziosa come sotto le improvvisazioni funky di Lake, della Allen e di Hopkins: uno shuffle archetipico e terragno scandito con aplomb da Andrew Cyrille, che in tutta levità articola dall’uno all’altro come se niente fosse.
Ora, il tema viene ripetuto alla fine, secondo protocollo. Ma, attenzione!, riappare del tutto inatteso dopo il primo chorus d’improvvisazione, ed è allora che ci rendiamo meglio conto dell’ininterrotta unità ritmica del pezzo. Lake ci sta proprio dicendo: non fatevi gettare fumo negli occhi dalle apparenti complicazioni, è tutto quanto blues.
Gano Club (Lake), da «Otherside», Gramavision 18-8901-2. Oliver Lake, sax alto; Geri Allen, piano; Anthony Peterson, chitarra; Fred Hopkins, contrabbasso; Andrew Cyrille, batteria. Registrato nell’agosto 1988.
Un jazzista importante, di cui si parla meno di altri, è Oliver Lake. Gano Club comincia ripetendo per tre volte tema metricamente fratturato, che potrebbe intendersi come in 16 suddiviso, per esempio, in 3+3+3+3+4; gli assoli poi si svolgono sul regolarissimo blues in dodici battute. Il bello è che tactus e ritmo restano i medesimi così sotto quella sequenza capziosa come sotto le improvvisazioni funky di Lake, della Allen e di Hopkins: uno shuffle archetipico e terragno scandito con aplomb da Andrew Cyrille, che in tutta levità articola dall’uno all’altro come se niente fosse.
Ora, il tema viene ripetuto alla fine, secondo protocollo. Ma, attenzione!, riappare del tutto inatteso dopo il primo chorus d’improvvisazione, ed è allora che ci rendiamo meglio conto dell’ininterrotta unità ritmica del pezzo. Lake ci sta proprio dicendo: non fatevi gettare fumo negli occhi dalle apparenti complicazioni, è tutto quanto blues.
Gano Club (Lake), da «Otherside», Gramavision 18-8901-2. Oliver Lake, sax alto; Geri Allen, piano; Anthony Peterson, chitarra; Fred Hopkins, contrabbasso; Andrew Cyrille, batteria. Registrato nell’agosto 1988.
sabato 8 aprile 2017
Ev’ry Time We Say Goodbye – No Moon At All (Milt Jackson)
È l’8 di aprile e come tutti gli anni festeggiamo col vibrafono il compleanno di Paolo il Lancianese, che proprio ieri ha regalato a Jazz nel pomeriggio e a tutti noi un bellissimo commento su Thelonious Monk.
Paolo non è solo un mio, un nostro amico, ma è anche uno degli ascoltatori e commentatori di questo blog di più vecchia data e di più sperimentata fedeltà, nonché frequente e apprezzato contributore del guest post, in questa veste da ultimo un po’ latitante. Tanti auguri!
PS Milt Jackson con McCoy Tyner?! Sì, Milt Jackson con McCoy Tyner.
Ev’ry Time We Say Goodbye (Porter), da «In A New Setting», Limelight LM 82006. Milt Jackson, vibrafono; McCoy Tyner, piano; Bob Cranshaw, contrabbasso; Connie Kay, batteria. Registrato il 28 dicembre 1964.
No Moon At All (Mann-Evans), id. più Jimmy Heath, sax tenore.
Paolo non è solo un mio, un nostro amico, ma è anche uno degli ascoltatori e commentatori di questo blog di più vecchia data e di più sperimentata fedeltà, nonché frequente e apprezzato contributore del guest post, in questa veste da ultimo un po’ latitante. Tanti auguri!
PS Milt Jackson con McCoy Tyner?! Sì, Milt Jackson con McCoy Tyner.
Ev’ry Time We Say Goodbye (Porter), da «In A New Setting», Limelight LM 82006. Milt Jackson, vibrafono; McCoy Tyner, piano; Bob Cranshaw, contrabbasso; Connie Kay, batteria. Registrato il 28 dicembre 1964.
No Moon At All (Mann-Evans), id. più Jimmy Heath, sax tenore.
venerdì 7 aprile 2017
’Round Midnight (Thelonious Monk)
Avrei potuto aspettare dieci giorni e celebrare puntualmente il sessantesimo anniversario di questo capolavoro di Thelonious Monk del 1957, ma non ho resistito.
’Round Midnight (Monk), da «Thelonious Himself», [Riverside] OJCCD-254-2. Thelonious Monk, piano. Registrato il 16 aprile 1957.
[Orrin] Keepnews, ispirato dalla versione di I Surrender Dear improvvisata da Monk per «Brilliant Corners», ebbe l’idea di un disco di solo piano da intitolare «Thelonious Himself». (…). Monk conclude la seduta con ’Round Midnight. Pur avendola suonata innumerevoli volte, e già anche in assolo, tre anni prima, la affronta come se fosse una composizione nuova. Ne risultano ventidue minuti di meditazione indagatoria a tempo rubato, piena di false partenze, cadenze irrisolte, tragitti creativi interrotti. A un certo punto, non riuscendo a eseguire un passaggio difficile, Monk si ferma e dice: «Mmmm, non ci riesco. Dovrò studiarlo». La master take di ’Round Midnight è un distillato delle fantasticherie monkiane ed è una delle sue migliori esecuzioni in assolo su disco.
Robin D.G. Kelley, Thelonious Monk. The Life and Times of an American Original, Free Press, 2009 (trad. it. di Marco Bertoli, Thelonious Monk. Storia di un genio americano. Roma, minimum fax, 2012, 2016, pp. 299-300).
’Round Midnight (Monk), da «Thelonious Himself», [Riverside] OJCCD-254-2. Thelonious Monk, piano. Registrato il 16 aprile 1957.
giovedì 6 aprile 2017
Freedom Jazz Dance – Infinite Search (Miroslav Vitous)
Uscito dapprima come «Infinite Search» (1969), poi come «Mountains In The Clouds» qualche anno dopo, questo disco fu l’esordio come leader del maestro contrabbassista Miroslav Vitous e, in quanto leader, resta fra le sue cose più belle, testo importante di quel momento aurorale della fusion, nell’ovvia scia di Miles, che vide molte strade diverse e anche divergenti percorse nello stesso periodo (Lifetime di Tony Williams, Return to Forever di Chick Corea, i gruppi di Chico Hamilton, naturalmente Miles e altri ancora).
Con un gruppo di musicisti importanti più John McLaughlin, il disco di Vitous punta nella direzione che sarebbe stata di lì a poco dei Weather Report, di cui Vitous fu membro fondatore, ma esibisce dei risultati a mio avviso ben superiori a quelli della band poi passata nelle mani di Joe Zawinul. Freedom Jazz Dance, la composzione di Eddie Harris, aveva trovato la sua esecuzione più famosa nel 1966 in «Miles Smiles».
Freedom Jazz Dance (Harris), da «Infinite Search», Embryo SD 524. Joe Henderson, sax tenore; John McLaughlin, chitarra; Herbie Hancock, piano elettrico; Miroslav Vitous, contrabbasso; Jack DeJohnette, batteria. Registrato l’8 ottobre 1969.
Infinite Search (Vitous) ib. ma Joe Chambers al posto di DeJohnette.
Con un gruppo di musicisti importanti più John McLaughlin, il disco di Vitous punta nella direzione che sarebbe stata di lì a poco dei Weather Report, di cui Vitous fu membro fondatore, ma esibisce dei risultati a mio avviso ben superiori a quelli della band poi passata nelle mani di Joe Zawinul. Freedom Jazz Dance, la composzione di Eddie Harris, aveva trovato la sua esecuzione più famosa nel 1966 in «Miles Smiles».
Freedom Jazz Dance (Harris), da «Infinite Search», Embryo SD 524. Joe Henderson, sax tenore; John McLaughlin, chitarra; Herbie Hancock, piano elettrico; Miroslav Vitous, contrabbasso; Jack DeJohnette, batteria. Registrato l’8 ottobre 1969.
Infinite Search (Vitous) ib. ma Joe Chambers al posto di DeJohnette.
mercoledì 5 aprile 2017
So In Love (Dwike Mitchell & Willie Ruff)
Ricordiamoci ogni tanto noi di Dwike Mitchell & Willie Ruff, visto che nessun altro sembra farlo.
So In Love (Porter), da «The Catbird Seat», (Atlantic) Collectables Jazz Classics COL-CD-6368. Dwike Mitchell, piano; Willie Ruff, contrabbasso; Charlie Smith, batteria. Registrato nell’autunno 1961.
So In Love (Porter), da «The Catbird Seat», (Atlantic) Collectables Jazz Classics COL-CD-6368. Dwike Mitchell, piano; Willie Ruff, contrabbasso; Charlie Smith, batteria. Registrato nell’autunno 1961.
martedì 4 aprile 2017
Satin Doll – Down Wylie Avenue – Misty (Erroll Garner)
Dico la verità, questi inediti di Erroll Garner usciti da pochissimo non mi sembrano dei capolavori perduti e riportati alla luce, come pure ho letto sarebbero. A «produrre» le sedute, fra il 1967 e il ’71, fu la manager, amica, esecutrice testamentaria di Erroll, Martha Glaser, morta nel 2014, e dal banter fra una take e l’altra i due sembrano essersi divertiti un mondo, un po’ troppo in effetti; l’impressione generale è di una certa sciattezza, una mancanza di concentrazione.
Poi, certo, è difficile che in un assolo di Garner non ci sia almeno un bel po’ di swing da portarsi a casa; e comunque sia, questa di Misty è una delle versioni d’autore più belle che io conosca.
Satin Doll (Ellington), da «Ready Take One», Columbia/Legacy. Erroll Garner, piano; Ike Isaac, contrabbasso; Jimmie Smith, batteria; Jose Mangual, conga. Registrato nel 1967.
Down Wylie Avenue (Garner), id.
Misty (Garner), id.
Poi, certo, è difficile che in un assolo di Garner non ci sia almeno un bel po’ di swing da portarsi a casa; e comunque sia, questa di Misty è una delle versioni d’autore più belle che io conosca.
Satin Doll (Ellington), da «Ready Take One», Columbia/Legacy. Erroll Garner, piano; Ike Isaac, contrabbasso; Jimmie Smith, batteria; Jose Mangual, conga. Registrato nel 1967.
Down Wylie Avenue (Garner), id.
Misty (Garner), id.
lunedì 3 aprile 2017
Soul Sisters – McBrowne’s Galaxy (Lennie McBrowne)
Lennie McBrowne (1933) è un batterista di distinta carriera e variata esperienza che ebbe un momento di buon successo critico fra anni Cinquanta e Sessanta, quando capeggiò questi Four Souls in California, dove si era trasferito da New York e dove, forse il suo merito maggiore, presentò a Ornette Coleman prima Paul Bley, col quale aveva lavorato a NY, poi Charlie Haden. I Four Souls registrarono due dischi, poi si disciolsero e McBrowne più o meno scomparve dalla vista (registrò l’ultima volta nel 1976).
Lennie McBrowne era una rarità in quanto musicista nero sulla scena del West Coast jazz. Questo disco risulta inciso sullo scorcio finale del 1959, quando il «jazz californiano» poteva già dirsi bell’e tramontato. È molto piacevole e suonato benissimo, conforme in tutto ai dettami di quella trascorsa scuola stilistica; direttore musicale della formazione appare il tenorista Jackson autore della maggior parte dei pezzzi; di lui nulla so se non che era nero anch’egli (e anche il bassista Herbie Lewis). La contorta McBrowne’s Galaxy porta invece la firma di Elmo Hope, pensa te, e si sente: è un pezzo «concertante» per il batterista e con il West Coast ha niente da spartire. Soul Sisters, di Jackson, rende un omaggio puramente nominale al soul jazz vigente.
Soul Sisters (Jackson), da «Lenny McBrowne and the Four Souls», Pacific Jazz PJ1. Don Sleet, tromba; Daniel Jackson, sax tenore; Terry Trotter, piano; Herbie Lewis, contrabbasso; Lennie McBrowne, batteria. Registrato prob. nell’autunno del 1959.
McBrowne’s Galaxy (Elmo Hope), id.
Lennie McBrowne era una rarità in quanto musicista nero sulla scena del West Coast jazz. Questo disco risulta inciso sullo scorcio finale del 1959, quando il «jazz californiano» poteva già dirsi bell’e tramontato. È molto piacevole e suonato benissimo, conforme in tutto ai dettami di quella trascorsa scuola stilistica; direttore musicale della formazione appare il tenorista Jackson autore della maggior parte dei pezzzi; di lui nulla so se non che era nero anch’egli (e anche il bassista Herbie Lewis). La contorta McBrowne’s Galaxy porta invece la firma di Elmo Hope, pensa te, e si sente: è un pezzo «concertante» per il batterista e con il West Coast ha niente da spartire. Soul Sisters, di Jackson, rende un omaggio puramente nominale al soul jazz vigente.
Soul Sisters (Jackson), da «Lenny McBrowne and the Four Souls», Pacific Jazz PJ1. Don Sleet, tromba; Daniel Jackson, sax tenore; Terry Trotter, piano; Herbie Lewis, contrabbasso; Lennie McBrowne, batteria. Registrato prob. nell’autunno del 1959.
McBrowne’s Galaxy (Elmo Hope), id.
domenica 2 aprile 2017
Cherokee – Jumpin’ At The Woodside (Lionel Hampton & Stan Getz)
Questi due strange bedfellows, in realtà benissimo assortiti, vengono sostenuti da una quintessenziale sezione ritmica West Coast; il disco fu registrato a Los Angeles all’apogeo di quel periodo del jazz, già verso il declino, ma il West Coast jazz qui non c’entra niente.
Lou Levy è un mio pallino, un pianista sempre estroso che in Cherokee, per qualche secondo dal minuto 5:30, si permette perfino di svicolare dalla riverita progressione. Per il resto del disco fa un po’ l’Oscar Peterson, e dato il genere di seduta e il fatto che si tratta di una produzione di Norman Granz è effettivamente strano che al piano non sedesse proprio Oscar.
Sempre in Cherokee, da 7:40, Hampton e Getz sono in assolo simultaneo quando Getz piazza quattro battute di contrattempi con effetto di swing bruciante.
Cherokee (Noble), da «Hamp & Getz», Verve 831 672-2. Stan Getz, sax tenore; Lionel Hampton, vibrafono; Lou Levy, piano; Leroy Vinnegar, contrabbasso; Shelly Manne, batteria. Registrato il primo agosto 1955.
Jumpin’ At The Woodside (Basie), id.
Lou Levy è un mio pallino, un pianista sempre estroso che in Cherokee, per qualche secondo dal minuto 5:30, si permette perfino di svicolare dalla riverita progressione. Per il resto del disco fa un po’ l’Oscar Peterson, e dato il genere di seduta e il fatto che si tratta di una produzione di Norman Granz è effettivamente strano che al piano non sedesse proprio Oscar.
Sempre in Cherokee, da 7:40, Hampton e Getz sono in assolo simultaneo quando Getz piazza quattro battute di contrattempi con effetto di swing bruciante.
Cherokee (Noble), da «Hamp & Getz», Verve 831 672-2. Stan Getz, sax tenore; Lionel Hampton, vibrafono; Lou Levy, piano; Leroy Vinnegar, contrabbasso; Shelly Manne, batteria. Registrato il primo agosto 1955.
Jumpin’ At The Woodside (Basie), id.
sabato 1 aprile 2017
For Walter Norris – Bechet’s Bounce (David Murray)
Ma Walter Norris sarà stato quel Walter Norris là? Mah. Sul Bechet non abbiamo dubbi.
Bel quartetto di David Murray negli anni in cui cominciava a farsi conoscere. In Italia, se non ricordo male, arrivò proprio quell’anno o forse l’anno dopo, da solo, e fece sensazione.
Disco e musica molto di quegli anni: un dopo-free ancora intatto da «ricuperi» superciliosi (l’omaggio a Bechet è affettuoso e in good humor), non troppo sollecito di piacevolezze; cominciavano a suonare e andavano avanti per un bel pezzo certi che qualcosa sarebbe successo (qui sono ventitré minuti, siine avvertito), senza editing degli assoli anche quando sarebbe servito ma con l’impressione, che non sempre ho oggi, che i musicisti si ascoltassero fra loro e forse che anche il pubblico ci mettesse più buona volontà.
La parte del leone comunque qui la fanno Lester Bowie e Fred Hopkins.
For Walter Norris (Butch Morris), da «Live At The Lower Manhattan Ocean Club», India Navigation IN 1032 CD. Lester Bowie, tromba; David Murray, sax tenore; Fred Hopkins, contrabbasso; Philip Wilson, batteria. Registrato il 3 dicembre 1977.
Bechet’s Bounce (Murray), id. ma Murray suona il sax soprano.
Bel quartetto di David Murray negli anni in cui cominciava a farsi conoscere. In Italia, se non ricordo male, arrivò proprio quell’anno o forse l’anno dopo, da solo, e fece sensazione.
Disco e musica molto di quegli anni: un dopo-free ancora intatto da «ricuperi» superciliosi (l’omaggio a Bechet è affettuoso e in good humor), non troppo sollecito di piacevolezze; cominciavano a suonare e andavano avanti per un bel pezzo certi che qualcosa sarebbe successo (qui sono ventitré minuti, siine avvertito), senza editing degli assoli anche quando sarebbe servito ma con l’impressione, che non sempre ho oggi, che i musicisti si ascoltassero fra loro e forse che anche il pubblico ci mettesse più buona volontà.
La parte del leone comunque qui la fanno Lester Bowie e Fred Hopkins.
For Walter Norris (Butch Morris), da «Live At The Lower Manhattan Ocean Club», India Navigation IN 1032 CD. Lester Bowie, tromba; David Murray, sax tenore; Fred Hopkins, contrabbasso; Philip Wilson, batteria. Registrato il 3 dicembre 1977.
Bechet’s Bounce (Murray), id. ma Murray suona il sax soprano.
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