Bill Hardman, il titolare di questa seduta del 1978, racconta nelle note di copertina di aver trovato I Remember Love in un baule custodito da un suo amico che conservava composizioni inedite e forse mai eseguite di Tadd Dameron.
Hardman è uno di quei jazzisti per i quali io ho un debole; un journeyman, direbbero gli americani, un onesto lavoratore della musica che non è uno stilista né tantomeno un caposcuola ma che riesce tuttavia a esprimersi sempre con un’individualità inconfondibile, cioè non solo con abilità artigianale ma con arte, che è quello che il linguaggio del jazz consente a chi lo pratichi con conoscenza, devozione e sincerità (e talento, va senza dire) e che forse lo rende unico fra le musiche evolutesi nel Novecento.
Etichette come la Muse di Joe Fields, la Xanadu di Don Schlitten, la Timeless di Wim Wigt, la Mainstream di Bob Shad e la Flying Dutchman di Bob Thiele (la più avventurosa, quest’ultima) negli anni Settanta registrarono con cura e amore una quantità dischi di jazzmainstream creativo e fantasioso. Nei decenni successivi, così pare a me, più raramente il mainstream avrebbe presentato queste qualità né avrebbe trovato produttori discografici del pari sensibili e intelligenti.
I Remember Love (Dameron), id.
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