venerdì 15 dicembre 2017

I Didn’t Know What Time It Was – Stars Fell On Alabama (Billie Holiday) RELOAD

Reload dal 28 maggio 2015. 

 Le registrazioni ultime di Billie Holiday sono difficili da ascoltare se non subisci il fascino del decadimento, fascino cattivo e perverso.

 Tuttavia non in questo disco del 1957 quanto nel successivo Columbia «Lady In Satin», un disco tetro e brutale, un’azione vile contro la povera cantante; Norman Granz, produttore di questo disco Verve, non l’avrebbe mai commessa. In I Didn’t Know What Time It Was, che fra l’altro è una delle mie canzoni preferite, la voce ispessita e a momenti roca di Billie, giusta le premesse del verse («Once I was young / But never was naive (…) And now I know I was naive»), va espressivamente a segno, mentre dietro le parole sciocchine di Stars Fell On Alabama ci fa intuire una back story più interessante.

 Sulla qualità degli accompagnatori non servirà che dica nulla.

 I Didn’t Know What Time It Was (Rodgers-Hart), da «Songs For Distingué Lovers», Verve. Billie Holiday con Harry «Sweets» Edison, tromba; Ben Webster, sax tenore; Jimmy Rowles, piano; Barney Kessel, chitarra: Red Mitchell, contrabbasso; Alvin Stoller, batteria. Registrato il 4 gennaio 1957.

 Stars Fell On Alabama (Perkins-Parish), ib. ma Joe Mondragon, contrabbasso, al posto di Mitchell; Larry Bunker, batteria, al posto di Stoller. Registrato l’8 gennaio 1957.

martedì 12 dicembre 2017

Mood Indigo (Earl Hines) RELOAD

Reload dal 27 luglio 2015 

 Mood Indigo è una composizione jazzistica fra le meno toccabili, trattandosi, strutturalmente, di nulla più di una breve ed elementare sequenza armonica praticamente senza melodia fino al bridge – composto da Barney Bigard – , speziata da alcune tensioni (dissonanze) e risolta da Ellington per via d’orchestrazione in una macchia di colore sonoro.

 Ecco Earl Hines in quel miracoloso colpo di coda finale della sua carriera. Fa precedere la canzone da una molto schematica, sorprendente introduzione di quattro battute, quasi un recitativo, e poi espone il «tema» con un’armonizzazione bitonale che per questo neutralizza le tensioni dell’originale, piuttosto sconcertante; in questo modo conferisce alla composizione una risonanza propriamente pianistica, un colore  affine ma non uguale a quello dell’originale.

 Nell’improvvisazione che segue, trattandosi di Earl Hines, succede di tutto. A metà esatta dell’esecuzione il tema è ripreso in una nuova tonalità (Sib) e ornato alla mano destra con marcatissime dissonanze di ritardo, quindi ripreso modulando in Fa. Non ricordo altra esecuzione di Mood Indigo che possa avvicinarsi a questa.

 Mood Indigo (Ellington-Mills-Bigard), da «Earl Hines Plays Duke Ellington», New World Records 80361. Earl Hines, piano. Registrato fra il 1971 e il 1975.

sabato 9 dicembre 2017

[Guest post #69] Claudio Bonomi & Harry Beckett

Claudio «Jazzinglese» Bonomi torna felicemente guest per ricordarci il bravissimo Harry Beckett, della cui tromba luminosa hanno beneficiato tanti dischi di, appunto, jazz inglese.

 È in lavorazione una biografia monumentale dedicata a Harry Beckett, trombettista e compositore britannico di origine caraibica scomparso nel 2010, che dovrebbe venire pubblicata nel 2018. Un giusto tributo a una delle voci più cristalline e inventive dell'età d'oro del British Jazz, quella che va dal 1967 al 1975. Basti solo pensare al suo lungo sodalizio con il compositore Graham Collier, iniziato nel 1967 con l'album «Deep Dark Blue Center», o alle numerose collaborazioni con innumerevoli formazioni dell’epoca: dai Nucleus di Ian Carr alla London Jazz Composers Orchestra o all’ottetto di John Surman. 

 In questo brano, tratto da una session radiofonica del 1974, è nel ruolo di leader alla guida di un sestetto in grande spolvero in cui spicca il sassofonista Don Weller. La composizione verrà ripresa nell'album «Joy Unlimited» pubblicato nel 1975 dalla Cadillac Records di John Jack con un’arrangiamento leggermente diverso e, soprattutto, con una formazione differente con co-leader Ray Russell alla chitarra elettrica. Per saperne di più sul libro in uscita, consultare www.joyunlimited.org.uk

 No Time for Hallo (Harry Beckett) da «Still Happy», My Only Desire Records 2016. Harry Beckett, tromba, Alan Wakeman, Don Weller, sax tenore, Brian Miller, piano elettrico, Paul Hart, basso elettrico, John Webb, batteria, Robin Jones, percussioni. Registrato nel 1974 per il programma radiofonico Jazz Club in onda sul secondo canale della BBC. 

mercoledì 29 novembre 2017

Roc And Troll (Curtis Fuller & Hampton Hawes) RELOAD

Reload dal 22 novembre 2014

 Ecco uno dei tanti dischi interessanti nati sotto la supervisione e dall’intuizione di quella testa d’uovo che era Teddy Charles. Due sono i corni francesi, uno il qui ben noto Julius Watkins e l’altro quell’incredibile personaggio di David Amram, che pochi giorni fa ha compiuto 85 anni. In questa semplice composizione di Charles, i due si succedono in quell’ordine.

 Curtis Fuller e Hampton Hawes, hardbopper implacabili, si prestano al gioco con divertimento e grazia, così come Sahib Shihab, colto qui prima che si dedicasse esclusivamente al sax baritono (e occasionalmente al flauto), un musicista dal suono molto personale, che io ascolto sempre con piacere.

 Roc And Troll (Charles), da «Curtis Fuller And Hampton Hawes With French Horns», [New Jazz] OJCCD 1942-2. Curtis Fuller, trombone; Julius Watkins e David Amram, corno; Sahib Shihab, sax alto; Hampton Hawes, piano; Addison Farmer, contrabbasso; Jerry Segal, batteria. Registrato il 18 maggio 1957.

martedì 28 novembre 2017

In A Sentimental Mood (Art Tatum) RELOAD

Reload dal 2 gennaio 2013. 

 È propriamente incredibile, ma pur vero, che Art Tatum abbia registrato per la Verve di Norman Granz centoventidue pezzi per pianoforte solo in appena quattro sedute: 28 e 29 dicembre 1953, 22 aprile 1954, 19 gennaio 1955.

 Questa versione di In a Sentimental Mood, dalla seduta del 29 dicembre 1953, è bellissima e vale quanto un’altra per apprezzare il sistema musicale di Tatum, che, in assolo, presentava delle piccole o meno piccole fantasie per pianoforte (dai due minuti e mezzo ai sei e mezzo, con una media di durata di circa quattro minuti) che risultavano dalla stratificazione di diverse esecuzioni improvvisate, sedimentate e quindi fissate in un testo definitivo, tolte le libertà agogiche e di ornamentazione (peraltro non così cospicue) che il pianista si riservava.

 Questo non equivale affatto a dire che Tatum, quasi un musicista pigro, si limitasse a ripetere degli assoli che aveva già suonato: siamo piuttosto di fronte a composizioni con tutti i crismi, rette da una logica costruttiva non rigorosa ma tuttavia coerente e chiara, in una forma piuttosto libera di tema e variazioni resa più complessa ed equilibrata da interludi e code.

 Qui, seguendo la sua prassi consueta, Tatum espone il tema (32 battute, AABA) in tempo rubato e ornandolo delle tipiche volate, con qualche ritocco armonico e caratteristici movimenti cromatici al basso (p. es. 0:31-0:32).

 A 1:19 s‘inizia un interludio modulante di 24 battute (ABB') nella tonalità della sottodominante del tema (si bemolle; il riversamento che ascolti qui è calante di mezzo tono), con materiali tematici nuovi rispetto al tema; la parte A è una soave e canora piccola melodia ascendente che, in terzina, ripete le prime tre note della pentatonica che costituisce il tema di Ellington (fa-sol-la, 1:19-1:24) e che compiuta una progressione ii-v-i in quattro battute viene trasposta una terza maggiore sopra (re, 1:25-1:31). Nella parte B (1:32-1:42) si ridiscende in modo elaborato alla tonalità d’impianto in quattro battute, ripetute poco variate fino a culminare sulla dominante (1:43-1:54).

 Nel secondo chorus il tema ricompare, non più a tempo rubato ma a quello, piuttosto brusco, impartito dalle 24 battute dell’interludio, trasfigurato alla luce di quanto lo precede e variato per lo più a note singole della destra; è un chorus vorticoso dove, nel bridge, sentiamo un lavoro virtuosistico di arpeggi alla mano sinistra (2:21-2:28). Sul finire del chorus, nella riproposizione di A, in tempo nuovamente rubato e con vero e straordinario effetto di ralenti, la forma si sfrangia armonicamente per arrivare a ripetere il primo tema A (2:42) con enfasi quasi di recitativo e con valore di cesura della prima parte dell’esecuzione: con precisione simmetrica, siamo esattamente a metà dell'esecuzione (minuto 3).

 Il terzo chorus, agogicamente più regolare e d’impianto latamente stride, ripropone diversi elementi già presentati nella sezione che, con terminologia sonatistica, diremo «di esposizione», come gli arpeggi ascendenti della mano sinistra nella sezione di bridge. L’ultima A di questo chorus – da 3:38 –  introduce dei poliritmi su cui frammenti della melodia sembrano galleggiare in un tempo loro, diverso da quello implicito. A 3:45 un autentico iato ritmico e armonico serve a rendere esplicito lo stride solo alluso poco prima, che trapassa, con tono sommesso da minuetto, nel chorus successivo, da 3:57.

 Questo (il quarto) si apre con una citazione appena contraffatta di una canzone credo irlandese di cui, e dovrai scusarmi, possa io morire se mi ricordo il titolo e prosegue in un affascinante mezzopiano in cui il tema viene esposto con cura, per così dire marezzato da zone di  breve turbolenza armonica. La citazione e il tessuto blandamente contrappuntistico tornano quasi identici nell’ultima A del chorus (4:52).

 Chiude sorprendentemente, in coda al quinto e ultimo chorus, una versione scorciata e umoristica del tema (5:45).

 In a Sentimental Mood (Ellington-Mills-Kurtz), da «The Art Tatum Solo Masterpieces», Pablo 0600753312018. Art Tatum, piano. Registrato il 29 dicembre 1953.

venerdì 24 novembre 2017

Easy Living – Skylark (Lee Konitz)

 Qualcuno ha pensato che io abbia fatto torto a Lee Konitz quando l’ho presentato in un suo disco poco felice, alcuni giorni fa, e non ho trattenuto una riserva sulla sua prestazione in quell’occasione. Io in realtà sono un vero fan di Konitz, a cui mi lega anche sentimentalmente il fatto di essere stato il primo grande jazzista che abbia mai sentito in persona, esattamente quarant’anni fa.

 Eccolo in un disco del 1954 che a mio giudizio non ammette critiche, in compagnia prettamente tristaniana: una di quelle sezioni ritmiche «fantasma», lievi, rigide, irreali.

 Easy Living (Rainger-Robin), da «Konitz», Black Lion 8776672. Lee Konitz, sax alto; Peter Ind, contrabbasso; Jeff Morton, batteria. Registrato nel 1954.

 Skylark (Carmichael-Mercer), ib. più Ronnie Ball, piano.

giovedì 23 novembre 2017

McNeil Island (Andrew Hill) RELOAD

Reload dal 18 novembre 2015. Sono trascorsi due anni, io ancora non ho tradotto un libro di Max Beerbohm. 
 Andrew Hill è uno dei maggiori impressionisti del jazz, almeno così pare a me. Voglio sottolineare del jazz, perché nel jazz, a mio avviso, il termine è da investire di un altro significato da quello che gli è applicato nell’arte occidentale: nell’«impressionismo» del jazz non scapitano la forma, i contorni, la definizione; piuttosto, questi caratteri assumono una qualità sospesa, mutualmente isolata, come per un acuirsi della percezione, non un suo confondersi. I due più grandi impressionisti del jazz, va senza dire, sono stati Duke Ellington e Billy Strayhorn, ma un altro, per rimanere ad ascolti qui recenti, è stato Booker Little, per tacere di Jelly Roll Morton.

 «Black Fire» è uno dei dischi di Hill che io preferisco e McNeil Island, in tutta la sua brevità, ne è un pezzo forte. Mi dispiace solo che qui sia assente il batterista della seduta, Roy Haynes, che, nelle note originali al disco, A.B. Spellman, autore che ho avuto la fortuna di rendere nella mia vaga e improbabile «carriera» di traduttore, definisce sorprendentemente «Il Beerbohm del bebop». Non saprei dire che cosa gli abbia suggerito l’accostamento, che però mi ha deliziato, entusiasta come io sono sia di Haynes sia di Max Beerbohm.
 Anzi, quanto a questo: chissà se, prima che io muoia o che il mondo finisca con uno schianto o con un lamento, mi verrà data l’occasione di tradurlo. Fra le tante migliaia dei lettori di Jazz nel pomeriggio non c’è chi dirige una casa editrice avventurosa, a parte il caro Antonio Lillo?

 McNeil Island (Hill), da «Black Fire», Blue Note 7243 5 96502 2 7. Joe Henderson, sax tenore; Andrew Hill, piano; Richard Davis, contrabbasso. Registrato l’8 novembre 1963.

mercoledì 22 novembre 2017

Brilliant Corners – Monk’s Mood (Steve Lacy & Roswell Rudd) RELOAD

Reload dal 5 luglio 2014 e terzo articolo di fila sulle interpretazioni di Monk; ho seguito, ripubblicandolo, il consiglio datomi dal Lancianese nei commenti all’articolo che precede.

 Fra i dischi che io conosco dedicati alle composizioni di Monk credo che questo del 1963 sia il mio preferito.

 L’interpretazione della musica di Monk è una crux già dibattuta su Jnp, quindi non mi dilungo. Steve Lacy e Roswell Rudd hanno tutto quello che si richiede e di più; soprattutto hanno il rispetto del testo – le improvvisazioni rispettano sempre le strutture, per insolite che siano, senza per questo ritrarsi da audacie armoniche e d’intonazione che ci ricordano che Ornette e Cecil Taylor erano in circolazione già da qualche anno; e hanno un contrabbassista, Henry Grimes, che dà una prestazione eccezionale. Dennis Charles è noto soprattutto per essere stato il primo batterista di Cecil Taylor. Non è un musicista raffinato, anzi, è piuttosto squadrato, ma qui, in cui anche pezzi come Monk’s Mood e Pannonica sono sottoposti a un trattamento brusco e up-tempo, ci sta a pennello.

 Nota come in Brilliant Corners l’approccio tematico all’improvvisazione sia pervasivo: sotto i solisti, Grimes esegue come un basso ostinato proprio il tema.

 Brilliant Corners (Monk), da «School Days», HatOLOGY 578. Steve Lacy, sax soprano; Roswell Rudd, trombone; Henry Grimes, contrabbasso; Dennis Charles, batteria. Registrato nel marzo del 1963.

 Monk’s Mood (Monk), id.

martedì 21 novembre 2017

’Round About Midnight – I Got It Bad [And That Ain’t Good] (Lee Konitz)

 Ripiglio il discorso di due giorni fa: quali sono le caratteristiche di un’interpretazione musicalmente plausibile delle composizioni di Monk? «Musicalmente», cioè espressivamente plausibile nel rispetto dei parametriformali della composizione.

 Per esempio, non mi sembra che qui ci siamo, malgrado i bei nomi coinvolti. Che cosa avrà indotto una mente musicale di prim’ordine come Bill Russo a concepire quest’arrangiamento da telefilm per un quartetto d’archi di scrittura a un tempo rigida e sfrangiata, incoerente, con puntature, sul finale, di puro cattivo gusto e con insipide revisioni armoniche, in una cornice di grande rigidità ritmica? Un’esperienza d’ascolto che ho trovato senz’altro sgradevole.

 Lee Konitz, ‘featured soloist’ in questo disco per il resto non così male, teste il successivo standard ellingtoniano, si estranea e va «through the motions», come si dice, cioè fa meccanicamente quello che ci si aspetta da lui, che non è davvero molto nell’occasione. Ma forse, anche in condizioni più propizie, il repertorio monkiano non gli è il più congeniale.

 ’Round About Midnight (Monk), da «Lee Konitz With Strings: An Image», Verve [ora in «Lee Konitz Meets Jimmy Giuffre», Verve 527 780-2. Lee Konitz, sax alto, con Lou Stein, piano, Billy Bauer, chitarra, Milt Hinton, contrabbasso, Sol Gubin, batteria; quartetto d’archi. Bill Russo, arrangiamento. Registrato nel febbraio 1958.

 I Got It Bad (Ellington), id.

sabato 18 novembre 2017

Monk’s Mood – Light Blue – ’Round About Midnight (John Tchicai)

 Un filo che emerge ogni tanto fra trama e ordito, un po’ vaghi e irregolari, di Jazz nel pomeriggio è quello delle interpretazioni di Monk, tema caro per esempio al Lancianese e anche a Valentina, che ieri è ricomparsa nei commenti.

Valentina e Il Lancianese sono i più antichi e fedeli lettori e contributori di Jnp, che di recente ha avuto una grave battuta d’arresto (non era mai rimasto in silenzio per un mese intero, anzi di più) ma si appresta l’anno venturo a entrare nel suo nono.

 Queste di John Tchicai, non rinomato come interprete del repertorio jazzistico, a me piacciono: sono semplici ma precise, rispettose, affettuose, e il saxofonista leader non cerca di mostrare dei chops, delle competenze bebop che non ha in bagaglio. Comunque Tchicai Monk’s Mood e anche Crepuscule With Nellie le aveva già suonate più di quarant’anni prima, con Archie Shepp e Don Cherry nei New York Contemporary Five, e se frughi qua dentro le troverai anche.

 L’organo è suonato con gusto – quasi una contraddizione in termini – dal bravissimo George Colligan, noto come pianista e come tale comparso anche qui sopra.

 Monk’s Mood (Monk), da «In Monk’s Mood», Steeplechase SCCD 31675. John Tchicai, sax alto; George Colligan, organo; Steve LaSpina, contrabbasso; Billy Drummond, batteria. Registrato nell’ottobre 2008.

 Light Blue (Monk), id.

 ’Round About Midnight (Monk), id.

venerdì 17 novembre 2017

How Am I To Know - What Is This Thing Called Love (Red Norvo) RELOAD

Reload dal 26 maggio 2013 

Red Norvo (nato Kenneth Norville, 1908-1999) ha avuto una carriera brillante e lunghissima, cominciata a Chicago nel 1925 e che l’ha visto in posizioni preminenti accanto a Paul Whiteman, Benny Goodman, Woody Herman, Billie Holiday, Frank Sinatra e Mildred Bailey, di cui fu marito. Pioniere del vibrafono e di idiofoni affini quali marimba e xilofono (dei quali sempre la sua sonorità strumentale, asciutta e poco risonante, portò memoria), Norvo era un virtuoso dotato di grande intelligenza e curiosità musicale, come dimostrano alcuni pezzi incisi nel 1933 con un piccolo gruppo comprendente Benny Goodman al clerinetto basso: Dance Of The Octopus, in particolare, è un pezzo di una modernità sorprendente.

 Fra i protagonisti dello Swing, Norvo fu fra quelli che abbracciarono il nuovo jazz del dopoguerra, che consuonava con la sua sensibilità armonica e più generalmente estetica, se non con quella ritmica, che restò sempre legata alla musica degli anni Trenta. Trasferitosi in California sul finire degli anni Quaranta, vi fondò un trio che divenne famoso, in cui chitarra e contrabbasso furono dapprima nelle mani di Tal Farlow e di Charles Mingus (che Norvo tolse all’ufficio postale dove quel grande, scoraggiato, aveva trovato impiego). In seguito Jimmy Rainey sostituì Farlow, poi, al ritorno di Farlow, Red Mitchell subentrò in luogo di Mingus.

 È quest’ultima formazione che ti propongo oggi. Forse è la migliore, senz’altro quella che preferisco. Tal Farlow e Red Mitchell sono due padreterni, Norvo è «at the top of his game» e dimostra di aver tenuto bene aperte le orecchie in quegli anni (le incisioni sono del 1955) e di aver ascoltato il cool, il West Coast jazz, i gruppi di George Shearing, e di non aver rinunciato alla fantasia e alla sperimentazione nell’arrangiare un repertorio che ha poco di inconsueto. Disse Norvo al proposito: «Dicono che eravamo molto avanti. Forse sì, in più di un senso, perché il pubblico non era pronto. Armonicamente, facevamo tante cose particolari e la passavamo franca perché suonavamo piano. Niente di scioccante, mentre se avessimo avuto saxofoni e ottoni la gente avrebbe fatto molto più fatica ad accettarci».

Senti che cosa i tre fanno di How Am I To Know, la canzone (con versi di Dorothy Parker) famosa soprattutto in una versione di Billie Holiday. What Is This Thing Called Love è invece chiaramente memore dal trio di Ahmad Jamal di quegli anni, per l’uso dell’ostinato ritmico, della divisione in due e dell’uso da parte di Farlow dell’espediente tecnico escogitato da Ray Crawford con Jamal, di fare rimbalzare le corde sulla tastiera della chitarra.

 How Am I To Know (King-Parker), da «Red Norvo Trio With Tal Farlow & Red Mitchell - Complete Recordings», American Jazz Classic 99039. Red Norvo, vibrafono; Tal Farlow, chitarra; Red Mitchell, contrabbasso. Registrato il 7 ottobre 1955.


 What Is This Thing Called Love (Kern-Hammerstein), ib., 6 ottobre 1955.

giovedì 16 novembre 2017

Yardbird Suite – Constellation - Ko-Ko (Sonny Stitt)

 Del genuino mistero costituito da Sonny Stitt e dalla sua relazione con Charlie Parker ho detto qui quello che avevo da dire, che è poco. Questo disco è bello, tutti vi suonano da par loro ma John Lewis ancora più da par degli altri, con degli accompagnamenti indaffaratissimi.

 Ko-Ko, da parte sua, costituisce un mistero tutto a sé. La versione originale del ’45 ha qualcosa, più ancora che di esoterico, di misterico, appunto, un mistero del bebop originario, una cifra forse della vita e cultura negra che a noi è precluso: prima e dopo che Bird si metta a improvvisare sul giro di Cherokee, come qui Stitt, che cosa diavolo suonano veramente lui, Dizzy e Roach? Che cosa sono quelle linee balenanti e armonicamente elusive che Miles Davis non era stato in grado di suonare quel giorno? In che rapporto stanno con quanto segue e poi precede? Stitt ripete tutto alla lettera, ma come un devoto preconciliare, di quelli che biascicavano la liturgia latina senza veramente capirla.

 Yardbird Suite (Parker), da «Stitt Plays Bird», Altantic SD 1418. Sonny Stitt, sax alto; John Lewis, piano; Jim Hall, chitarra; Richard Davis, contrabbasso; Connie Kay, batteria. Registrato il 29 gennaio 1963.

 Constellation (Parker), id.

 Ko-Ko (Parker), id.

mercoledì 15 novembre 2017

Pelo De Rata – Nordeste (Matias Pizarro)

 Matias Pizarro (1949) è il pianista cileno, esule dal 1977 in Europa come molti suoi compatrioti, che si ascolta in un vecchio disco di Enrico Rava di cui ti ho proposto un pezzo la primavera scorsa; era della partita anche l’eccellente saxofonista Bingert che senti qui.

 Questo lavoro, credo l’unico a suo nome, è uscito nel 1975 in Argentina e a vivaci pezzi fra la fusion e lo spiritual jazz, molto di quegli anni, alterna canzoni lagnose in spagnolo, cantate dal Pizarro stesso.

 Pelo De Rata (Pizarro), da «Pelo De Rata», [Promusica] Ascensionale ∫∫02. Hector «Finito» Bingert, sax tenore; Matias Pizarro, piano elettrico; Bo Gathu, basso elettrico; Pocho Lapouble, batteria; Domingo Cura, percussioni. Registrato nel 1974 o 1975.

 Nordeste (Pizarro), id.

martedì 14 novembre 2017

These Foolish Things (Brad Mehldau)

 Non sarà mai il mio pianista preferito, Brad Mehldau, e in particolare le sue interpretazioni degli standard mi lasciano sempre freddo, ma quando uno è bravo è bravo, c’è poco da dire.

 These Foolish Things (Strachey-Maschwitz), da «Blues And Ballads», Nonesuch 75597 94650. Brad Mehldau, piano; Larry Grenadier, contrabbasso; Jeff Ballard, batteria. Registrato il 10 dicembre 2012.

lunedì 13 novembre 2017

Binary – Meme (Anna Webber)

 Anna Webber, trentatreenne compositrice e multistrumentista canadese trasferitasi a New York, ha deciso di cercare ispirazione nell’internet per questo disco del 2016:

(…) siti web che trasformano parole in drumbeat, canali di prova Youtube, perfino il proprio indirizzo IP (…). La title track del disco è stata composta usando numeri e lettere prodotti da un generatore binario casuale di cifre.

 Così. Questo non mi sembra di grande guida all’ascolto di un disco che sollecita uno sforzo d’attenzione senza fare granché per facilitarlo, comunque ecco. È musica in cui pur succede qualcosa (be thankful for little mercies) e in cui sento un lavoro di scrittura indirizzato a un’esecuzione che preveda l’improvvisazione.

 Altri pezzi richiamano lavori di Lehman, Berne (dai cui complessi viene l’eccellente Matt Mitchell), Formanek, e sono meno interessanti. Ennesimo progetto recente che fa a meno del contrabbasso.

 Binary (Webber), da «Binary», Skirl Records. Anna Webber, sax tenore; Matt Mitchell, piano; John Hollenbeck, batteria, percussioni. Registrato nel maggio 2016.

 Meme (Webber), id. ma la Webber suona il flauto.

domenica 12 novembre 2017

Quiet Now (Bill Evans)

 Per tramite di una sovraregistrazione, qui Bill Evans duetta con se stesso, come aveva fatto qualche anno prima in «Conversations With Myself». Meno nota e criticamente esaminata della prima, questa seconda serie di auto-duetti e trii a me pare più riuscita.

 Quiet Now (Zeitlin), da «Further Conversations With Myself», Verve. Bill Evans, piano. Registrato il 9 agosto 1967.

sabato 11 novembre 2017

Scrapple From The Apple – Rainy Night (Red Mitchell) RELOAD

Reload  dal 6 novembre 2016 


Keith «Red» Mitchell (1927-1992) non ha legato il suo nome a un disco in particolare pur avendone inciso una quantità enorme, in America e in Europa, dove si trasferì nel 1968, in Svezia, né a una band, ma se si volesse indulgere al passatempo ozioso delle classifiche dovrebbe entrare fra i primi contrabbassisti di ogni tempo e forse, dico forse, dovrebbe starci al primo posto. A un certo momento ebbe l’idea di cambiare l’accordatura dello strumento, che prese a suonare con l’accordatura del violoncello, ovvero non mi, la, re sol ma do, sol, re, la, cioè non per quarte ma per quinte. Se leggi l’inglese, cerca l’intervista che gli fece Gene Lees in «Cats Of Any Color», dove fra altre cose interessanti, Red racconta le ragioni della scelta.

 Questo disco del suo periodo californiano è splendido e Red è nella luce migliore. Una ragione specialissima d’interesse è la presenza al sax tenore e al flauto di James Clay, già sentito qui sopra. Clay, musicista californiano poco registrato, è stato citato da Ornette Coleman come un’influenza decisiva e voglio riportare qui la lode singolare che, nelle note al disco (di Nat Hentoff),  Mitchell ne fa e che corrobora in pieno l’affermazione piuttosto sorprendente di Ornette:

(…) credo che ora della fine potrebbe gettare le fondamenta del prossimo passo avanti del jazz. Già alla sua età [21 anni, ndr] padroneggia elementi che noialtri ancora arranchiamo nel tentativo di afferrare.

 Ascolta l’assolo di Clay in Scrapple alla luce di questi due autorevoli giudizi e la sua sonorità slabbrata e pure vocale, la lunghezza ineguale delle sue frasi un po’ sbieche sul tempo, il modo a momenti «lasco» di navigare la sequenza armonica ti lasceranno di stucco. Sul flauto la sua sonorità, asciutta e calda, quasi di strumento di legno, non somiglia a quella di nessun altro.

 Più che notevoli sono anche la sventurata Lorraine Geller, che vorrei approfondire, e naturalmente Billy Higgins – è come se Ornette proiettasse un’ombra retroattiva su questo disco, che è un gioiello anche per le liner notes, un’arte perduta, dove Hentoff compila con Red Mitchell una breve storia critica del contrabbasso jazz.

 Scrapple From The Apple (Parker), da «Presenting Red Mitchell», [Contemporary] OJCCD-158-2. James Clay, sax tenore; Lorraine Geller, piano; Red Mitchell, contrabbasso; Billy Higgins, batteria. Registrato il 26 maggio 1957.

 Rainy Night (Mitchell), id. ma Clay suona il flauto.

martedì 26 settembre 2017

Bunda Amerela - The Phantom (Duke Pearson) RELOAD

Reload dal 3 marzo 2013

Duke Pearson, che per dieci anni fu l’arrangiatore in house della Blue Note (artefice di decine di album fra cui di Donald Byrd e di Hank Mobley), era un musicista prezioso che non è stato adeguatamente documentato nei suoi diversi talenti, per esempio quello di fantasioso scrittore per big band. Aveva il dono e la scienza della semplicità elegante in qualunque repertorio e nelle più diverse compagnie, e un vero genio per la melodia. La sclerosi multipla se lo portò via appena quarantottenne, nel 1980.

 Di questo disco piuttosto tardo ha scritto Nat Hentoff: «(…) è un album perfetto. Non se ne potrebbe cambiare una singola nota. Gli assoli suonano così completi da sembrare scritti, e invece sono improvvisati e, come tanta parte della sua musica, sono affermazioni semplici e solari della gioia della vita».

 Bunda Amerela (Little Yellow Streetcar) (Pearson), da «The Phantom», [Blue Note] Water 133. Jerry Dodgion, flauto e flauto contralto; Bobby Hutcherson, vibrafono; Sam Brown, Al Gafa, chitarra; Duke Pearson, piano; Bob Cranshaw, contrabbasso; Mickey Roker, batteria, Victor Pantoja, conga. Registrato il 24 giugno 1968.

 The Phantom (Pearson), id.

venerdì 22 settembre 2017

Everything Happens to Me (Bob Graettinger & Stan Kenton) RELOADED

Reload dal 21 dicembre 2012

 Bob Graettinger (1923-1957) è stato un personaggio a dir tanto tangente il jazz, e forse la musica. Dovette il suo breve momento di notorietà – di fortuna non parlerei proprio – a uno dei tanti entusiasmi acritici di Stan Kenton, che se ne fece mentore incidendo alcuni dei suoi pezzi magniloquenti, cacofonici, «cattivi», fegatosamente traboccanti d’odio e di brutalità verso la musica e la vita (il più famoso fu una suite titolata City of Glass).

 Graettinger era infatti un outsider della vita, al punto da meritarsi l’onore di essere l’unico personaggio in qualche modo relato al jazz ad avere un capitolo a suo nome nel saggio sulla outsider music di Irwin Chusid, «Songs in the Key of Z» .

 Delle sue meste stranezze, se ti va, troverai sull’internet. Io qui te lo presento in una cosa che ha un suo fascino malsano. È un arrangiamento di Everything Happens to Me, quella specie di inno dell’outsider o dello sfigato, per l’orchestra di Kenton sotto nome di Bob Cooper con June Christy; la quale, cool come la sua voce, riesce a non fare una piega (ma niente di più facile che sia stata registrata a parte).

 Si tratta di musica a suo modo intelligente, scritta anche con abilità, repellente nel senso più pieno della parola.

 (Grazie a Luca Conti per la formazione e la data).

 Everything Happens to Me (Dennis-Adair), da «Stan Kenton Plays Bob Graettinger - City of Glass», Capitol Jazz – 7243 8 32084 2 5. June Christy con l’orchestra di Bob Cooper arrangiata da Bob GraettingerBuddy Childers, tromba; Johnny Mandel, tromba bassa; Bill Byers, trombone; Art Pepper, sax alto; Bob Cooper, sax tenore; Irv Roth, sax baritono; Hal Schaefer, piano; Joe Mondragon, contrabbasso; Don Lamond, batteria; Luis Miranda, conga; Jasper Horniak, violino; Cesare Pascarella, violoncello. Registrato il 28 marzo 1949.

giovedì 21 settembre 2017

Dream Dancing (Dave Liebman)

 Ascolta con attenzione che cosa fa Dave Liebman. Tante scale in su e in giù, ma attenzione a come le fa. Attenzione come le attacca le une alle altre, che cosa ci mette in mezzo.

 Dream Dancing (Cole Porter), da «Plays The Music Of Cole Porter», Red Records RR123236. Dave Liebman, sax soprano; Steve Gilmore; contrabbasso; Bill Goodwin, batteria. Registrato nel 1994.

venerdì 15 settembre 2017

Children’s Songs No. 1, 2, 3 (Chick Corea)

 Chick Corea ha detto di come queste piccole venti composizioni incise nel 1983 gli fossero suggerite, ovviamente, dall’infanzia. Io non dubito che un’ispirazione più squisitamente pianistica ne sia stata Bartók, non tanto i Mikrokosmos quando i due volumi di A Gyermekeknek, noti con il titolo inglese For Children, pubblicati nel 1909 poi sostanzialmente riveduti nel 1945; ma anche una raccolta di Prokofiev, Musique d’enfants del 1935.

 Nella nota che Corea ha apposto alla riedizione del 2010 di questo disco, in un album ECM che comprende anche le due serie delle «Piano Improvisations», Corea nomina i pianisti che considera suoi ispiratori: fra gli altri Hines, Ellington, Monk, Powell, Horowitz, Jarrett, Gould e… Stefano Bollani.

 Corea e Bollani hanno fatto insieme un disco per la ECM intitolato «Orvieto», che ha ripreso la loro esibizione in duo all’Umbria Jazz del 2010. Io l’ho sentito ma, giuro, non ne ricordo niente, neanche se mi fosse piaciuto (ma credo che se mi fosse piaciuto me lo ricorderei). Lo cercherò. Tu lo conosci?

 No. 1 (Corea), da «Solo Piano. Improvisations - Children’s Songs» ECM 2140-42. Chick Corea, piano. Registrato nel luglio 1983.

 No. 2 (Corea), id.

 No. 3 (Corea), id.

giovedì 14 settembre 2017

Moten Swing (Bennie Moten) RELOADED

Reload dal 22 febbraio 2014. 
 Un capolavoro del jazz orchestrale, nonché il seme (già più del seme) di quanto Count Basie avrebbe fatto di lì a poco, non a caso ereditando praticamente l’orchestra di Bennie Moten. Qui il Conte siede al piano e provvede l’introduzione e un assolo in uno stile già molto caratteristico, se pure meno conciso di quello poi assestato.

 Al sax tenore trovi un giovane Ben Webster e, fra i solisti, Hot Lips Page; il «quattro» di questa davvero formidabile esecuzione, che con invenzione brillante enuncia il tema solo alla fine,  è già quello delle orchestre di Basie, scandito da Walter Page.

 Moten Swing (Moten-Moten), da «The Chronological Bennie Moten’s Orchestra 1930-1932», Classics 591. Oran «Hot Lips» Page, Joe Keyes, Dee Stewart, tromba: Dan Minor, Eddie Durham, trombone; Eddie Barefield, sax alto; Ben Webster, sax tenore; Jack Washington, sax baritono; Count Basie, piano; Leroy Berry, chitarra; Walter Page, contrabbasso; Willie McWashington, batteria. Registrato il 13 dicembre 1932.

mercoledì 13 settembre 2017

Till We Meet Again – ’Til The Clouds Roll By (Charlie Mariano)

 L’idea di fare un disco di jazz composto in massima parte di canzoni degli anni della Prima guerra mondiale era nel 1957 insolita, moderna; molti anni dopo l’avrebbe avuta anche il pianista Bill Carrothers, che la realizzò in spirito tuttavia diversissimo, in una filologico e postmoderno.

 Questo disco uscì intitolato a Charlie Mariano e a Jerry Dodgion, in insolita front line di due sax alti. In entrambe queste canzoni Mariano è il primo solista, o almeno così pare a me. L’autore dei versi di ’Til the Clouds Roll By è P.G. Wodehouse of Jeeves fame.

 (Una volta Charles Mingus andò a fare un’intervista alla radio e decise di portare Charlie Mariano con sé. Mingus attaccò una tirata contro i musicisti bianchi, al che il conduttore gli chiese ragione della presenza di Mariano nel suo complesso. «Che cosa c’entra?» disse Mingus. «Mariano non è bianco. È italiano»).

 Till We Meet Again (Whiting-Egan), da «Beauties Of 1918», World Pacific PJ-1245. Charlie Mariano, Jerry Dodgion, sax alto; Victor Feldman, vibrafono; Jimmy Rowles, piano; Monty Budwig, contrabbasso; Shelly Manne, batteria. Registrato nel dicembre 1957.

  ’Til The Clouds Roll By (Kern-Wodehouse), id.

martedì 12 settembre 2017

Begin the Beguine (Dizzy Gillespie) RELOADED

Reload dal 6 aprile 2011. 

 Il concerto di Chester, Pennsylvania, del 14 giugno 1957 trova la big band di Dizzy nella formazione che un mese dopo sarebbe stata ripresa dal vivo al festival di Newport, e la trova direi in condizioni non meno smaglianti. Fra le trombe c’è Lee Morgan diciottenne, poi una sezione ance di notabili, con Ernie Henry, Benny Golson (anche arrangiatore) e Billy Mitchell e una ritmica fortissima.

  Begin the Beguine (Porter), da «Live in Stereo At Chester», Jazz Hour 1029. Talib Daawud, Dizzy Gillespie, Lee Morgan, Ermit V. Perry, Carl Warwick, tromba; Ray Connor, Al Grey, Melba Liston, trombone; Ernie Henry, Jimmy Powell, sax alto; Benny Golson, Billy Mitchell, sax tenore; Pee Wee Moore, sax baritono; Wynton Kelly, piano; Tommy Bryant, contrabbasso; Charli Persip, batteria. Registrato il 14 giugno 1957.

lunedì 11 settembre 2017

I Hear A Rhapsody – Circus (Art Blakey & The Jazz Messengers) RELOADED

Reload dal 4 ottobre 2014.

Coincidentalmente  all’arrivo di Cedar Walton, sul finire del 1961, e poi di Freddie Hubbard, i Jazz Messengers avrebbero visto accendersi e divampare la fantasia compositiva di Wayne Shorter e avrebbero così conferito all’hard bop, nel momento dell’apogeo di quello stile, un colore inconfondibile, una forma aerodinamica che lo tendeva verso il futuro senza fargli mai assumere i connotati dell’avant-garde.

 Qui, un attimo prima, con il bravissimo ma non avventuroso Bobby Timmons al piano e Lee Morgan, un Giano bifronte, la formazione è ancora «tradizionale» e così piena di succhi vitali, di forza muscolare esplosiva, di testosterone e di gioia irrequieta e pericolosa da risultare turgida, sovraccarica, «bursting at the seams» per usare una bella espressione inglese che suggerisce qualcosa di così florido e incontenibile da far saltare le commessure dell’involucro o indumento o tegumento che si sforzi di contenerla e di proteggerla. Altro che i cinque punti esclamativi del titolo, davvero.

 I Hear A Rhapsody (Fragos-Baker-Gasparre), da «Art Blakey!!!!! Jazz Messengers!!!!!», Impulse A-7. Lee Morgan, tromba; Curtis Fuller, trombone; Wayne Shorter, sax tenore; Bobby Timmons, piano; Jymie Merritt, contrabbasso; Art Blakey, batteria. Registrato il 13 giugno 1961.

 Circus (Alter-Russell), id.

domenica 10 settembre 2017

Unfiltered Universe (Rez Abbasi)

 Un disco nuovo a nome del chitarrista californiano Rez Abbasi (1965). Che te ne pare?

 Unfiltered Universe (Abbasi), da «Untiltered Universe», Whirlwind Recordings. Rudresh Mahanthappa, sax alto; Elizabeth Mikhael, violoncello; Vijay Iyer, piano; Rez Abbasi, chitarra;  Johannes Weidenmuller, contrabbasso; Dan Weiss, batteria. Registrato nel febbraio 201

venerdì 8 settembre 2017

Once In A While - There Never Will Be Another You (Sonny Clark & Jimmy Raney)

 Ho commesso in passato gli errori di sottovalutare Sonny Clark e di ignorare Jimmy Raney. Non li ripeterò, almeno per quanto riguarda Clark.

 Once In A While (Edwards-Green), da «Jimmy Raney & Sonny Clark Together!», Xanadu XCD 1228. Sonny Clark, piano; Red Mitchell, contrabbasso; Bobby White, batteria. Registrato il 14 febbraio 1954.

 There Never Will Be Another You (Warren-Gordon), id. più Jimmy Raney, chitarra.

giovedì 7 settembre 2017

African Ripples (Fats Waller) RELOADED

Reload da 30 luglio 2010. 

 Gli assoli di pianoforte di Fats Waller meritano almeno l’attenzione che si dedica a quelli di Art Tatum, e peccato che possano tutti contenersi su due CD. In essi Waller dimostra inoltre, a mio parere, un senso della forma più sviluppato di quello di Tatum.

  In African Ripples (1935), per esempio, Waller dà una presentazione formale solida e ingegnosa a un pezzo che ha legittime ambizioni concertistiche. Come in altri suoi pezzi solistici, Waller impiega due gruppi tematici, ciascuno dei quali nella forma canzone AABA; il primo brusco e scampanante, il secondo disteso. Di questo secondo tema, introdotto da quattro battute di transizione, vengono proposte due variazioni, la seconda in morbido e vigoroso stride a tempo medio. Il pezzo si conclude con una ricapitolazione invertita; chiude, a mo’ di coda, una variazione virtuosistica stride del primo tema.

 African Ripples (Waller), da «Turn on the Heat: The Fats Waller Piano Solos», Bluebird 2482-2-RB. Fats Waller, piano. Registrato l’11 marzo 1935.

mercoledì 6 settembre 2017

Close As Pages In A Book (Jimmy Knepper)

 Tromboni, Jimmy Knepper. Un paio di settimane fa ti ho fatto sentire un altro grande trombonista, Frank Rosolino, del quale per certi versi Knepper è l’opposto, per sonorità, per intenti, per orizzonte espressivo.

 La sonorità di Rosolino, come quella dei trombonisti del jazz «classico», era ricca e variegata, quella di Knepper al confronto è blanda e uniforme; il fraseggio spontaneamente bebop di Rosolino si adattava alle risorse dello strumento come una mano al guanto, il fraseggio capziosamente bebop di Knepper sembra a momenti volerle pervicacemente ignorare.

 Certo, poi uno non è per niente il trombonista preferito di Mingus.

 Close As Pages In A Book (Romberg-Fields), da «A Swinging Introduction to Jimmy Knepper», Betlehem VICJ-61473. Gene Roland, tromba; Jimmy Knepper, trombone; Bill Evans, piano; Teddy Kotick, contrabbasso; Dannie Richmond, batteria. Registrato nel settembre 1957.

martedì 5 settembre 2017

A Foggy Day (Bud Powell)

 A Foggy Day (G. & I. Gershwin), da «The Genius Of Bud Powell On Verve Vol. II», Verve VE-2-2526. Bud Powell, piano; George Duvivier, contrabbasso; Art Taylor, batteria. Registrato nel giugno 1954.

lunedì 4 settembre 2017

Visitors - In Depth (Lafayette Gilchrist) RELOADED

Reload dal 5 settembre 2013. 
 Lafayette Gilchrist (il nome!), quarantenne, nato a Washington D.C. e operante a Baltimora, è uno di quei musicisti che, pur ben provvisti in senso jazzistico, riconoscono come riferimento culturale più immediato l’hip-hop e di questo hanno fatto un’ipotesi di lavoro: pensa anche al ben più noto Robert Glasper, per restare fra i pianisti.

 Io ho ascoltato troppo poco di questi due per poterne dire qualcosa di sensato; superficialmente, mi interessa di più Gilchrist (che fa una musica bruna, colloidale e grumosa, che procede lenta con una sua solennità e in cui la fonte hip-hop è attinta con naturalezza), di Glasper, che pure è chiaramente pianista superiore a Gilchrist. Tu conosci questi due meglio di me? Puoi e vuoi dirne qualche cosa?

 Il primo di questi pezzi è dedicato a Sun Ra; il secondo, a James Brown.

 Visitors (Gilchrist), da «3», Hyena HYN 9358. Lafayette Gilchrist, piano; Anthony «Blue» Jenkins, basso elettrico; Nate Reynolds, batteria. Registrato nel 2007.

 In Depth (Gilchrist), id.

domenica 3 settembre 2017

Snake Catcher (John Zorn)

 Oggi o forse ieri John Zorn ha compiuto gli anni. Secondo me Zorn è il tipo che se gli dici «tanti auguri» ti manda affanculo, minimo.

 Ad ogni modo questo disco s’intitola Il dono, e dice l’Autore che è un disco «for lovers only». Le illustrazioni poi la dicono lunga.

 Snake Catcher (Zorn), da «The Gift», Tzadik TZ 7332. Marc Ribot, chitarra; Jamie Saft, piano elettrico; Trevor Dunn, basso elettrico; Joey Baron, batteria. Registrato nel 2000.

sabato 2 settembre 2017

Shenandoah (Keith Jarrett)

 Pubblicata già un Natale di alcuni anni fa. La valle del fiume Shenandoah in Virginia ha ispirato questa bella canzone tradizionale americana, che per quanto mi riguarda chiude in sé tante cose belle e commoventi che io associo, per ascolti, per letture, per visioni o per semplici esperienze personali a quella parola grande e terribile, America. Io però nella valle dello Shenandoah non sono mai andato e probabilmente non ci andrò mai.

 Keith Jarrett, comunque, è l’interprete ideale di una musica così.

 Shenandoah (trad.), da «The Melody At Night, With You», ECM 1675. Keith Jarrett, piano. Registrato nel 1998.

venerdì 1 settembre 2017

Makin’ Out – Back In Jersey – Like Someone In Love (John Wright)

 Non stare a impazzire cercando l’«uno» all’inizio  del blues in 3 Makin’ Out: non so se per uno sbaglio della registrazione o per che cosa, il pezzo s’inizia in battuta acefala, per questo non riuscirai a trovare l’«uno» prima che sia entrato il piano e abbia fatto quattro battute…

 John Wright (1934), chicagoano di cui ti ho parlato una manciata d’anni fa, pianista bravo e personaggio larger than life come il jazz produceva una volta, secondo me è quello che ci vuole il primo di settembre. Non era un padreterno del pianoforte come quelli che senti di solito su Jazz nel pomeriggio, ma una delle cose più belle del jazz come linguaggio è che permette a chi abbia talento, e voglia di farlo di dire la sua in modo inconfondibile.

 Forte anche il sax tenore Williams.

 Makin’ Out (Williams-Wright), da «Makin’ Out», Prestige PR 7212. Eddy «Cat Eye» Williams, sax tenore; John Wright, piano; Wandell Marshall, contrabbasso; Roy Brooks, batteria. Registrato il 23 giugno 1961.

 Back In Jersey (Williams- Wright), id.

 Like Someone In Love (Buyrke-Van Heusen), c.s. ma senza Williams.

mercoledì 30 agosto 2017

The Chant (Jelly Roll Morton) RELOADED

Reload dal 3 maggio 2014. 
 Audacia di Jelly Roll Morton arrangiatore: la fanfara di cornetta e clarinetto che apre il pezzo, non accompagnata, sembra alludere alla tonalità di re bemolle maggiore; ma la risposta è addirittura in re maggiore, la tonalità più lontana. Unita al ritmo sincopato, questo jump cut armonico ha un effetto strano, sconcertante.

 Per quanto mi riguarda, tutto quanto ha a che vedere con questo incredibile artista è sconcertante, e prima di tutto le musiche da lui registrate con i Red Hot Peppers: musiche da una parte conservatrici, chiuse al jazz contemporaneo che aveva imboccato già un’altra strada, legate a filo triplo come sono  al ragtime e al blues; musiche, dall’altra parte, fermamente incise in una «avanguardia» poetica dell’anima che non ha veramente a che vedere con gli anni in cui furono suonate.

 The Chant (Stitzel), da «Jelly Roll Morton», JSP Jazzbox 309. Jelly Roll Morton’s Red Hot Peppers: George Mitchell, cornetta; Kid Ory, trombone; Omer Simeon, clarinetto; Jelly Roll Morton, piano; Johnny St. Cyr, banjo; John Linsday, contrabbasso; Andrew Hilaire, batteria. Registrato il 15 settembre 1926.

martedì 29 agosto 2017

Composition No. 114 (+ 108A) – Composition No. 110D - Nickie’s Journey To The City of Clouds To Make A Decision (Anthony Braxton)

 E oggi, giusta la nota cura scozzese, Anthony Braxton (al clarinetto) con il suo famoso quartetto degli anni Ottanta, che non valeva i quartetti e i quintetti degli anni Settanta, ma comunque averne: soprattutto il secondo pezzo, col titolo più strano del solito. Nickie era, o è, la moglie di Braxton, un’ispirazione per lui insolitamente lirica e sempre legata al clarinetto.

  Composition No. 114 (+ 108A) (Braxton), da «Six Compositions (Quartet) 1984», Black Saint BSR 0086 CD. Anthony Braxton, clarinetto; Marilyn Crispell, piano; John Lindberg, contrabbasso; Gerry Hemingway, batteria. Registrato nel settembre 1984.

 Composition No. 110D - Nickie’s Journey To The City of Clouds To Make A Decision (Braxton), id.

lunedì 28 agosto 2017

Funky Skulls Parts 1 & 2 – Ma, She’s Makin’ Eyes At Me – Dance Of the Dervish (Melvin Jackson)

 Che forte questo funk colorato, fantasioso, intelligente e allegro, concepito da un contrabbassista a lungo con Eddie Harris e che a nome suo ha solo questo disco del 1969. La seconda formazione schiera dei nomi che non ti aspetteresti e il leader Melvin Jackson deforma musicalmente il suono del contrabbasso, anche con l’arco, filtrandolo attraverso – copio dalle note perché non ci capisco un zoca – Maestro G-2 filter box for guitar, Boomerang, Echo-Plex and Ampeg amplifier.

 Musica datata, certo. E allora? Comunque ci tornerò, su questo disco, per ora te lo offro come viatico a una buona fine dell’estate.

 Funky Skulls Parts 1 & 2 (Jackson), da «Funky Skull», Limelight DGA 3001. Donald Towns, Tom Hall, tromba; Bobby Pittman, James Tatum, sax tenore; Tobie Wynn, sax baritono; Phil Upchurch, chitarra solista e ritmica, basso elettrico; Pete Cosey, chitarra; Melvin Jackson, contrabbasso; Morris Jennings, batteria. Registrato nel 1969.

 Ma, She's Makin’ Eyes At Me (Jackson), ib. Lester Bowie, Leo Smith, tromba; Steve Galloway, trombone; Roscoe Mitchell, sax alto; Byron Bowie, sax tenore, flauto; Jodie Christian, piano, organo, Echo-Plex; Melvin Jackson; Billy Hart, batteria. Coro The Sound Of Feeling.

 Dance Of the Dervish (Jackson), id.

domenica 27 agosto 2017

Jack Of Clubs – Cathedral Song (Paul Motian)

 Non ho il sentimento del «campanile», credo, ma quando un bel disco è stato registrato a Milano (molti lo sono) non manco mai di segnalarlo.

Segnalo anche che Paul Motian, oltre a essere un batterista personalissimo, era anche un compositore dotato, e un compositore vero, non l’estensore di sedici battute di riff, che usava i colori strumentali in funzione strutturale, nella vena melodica memore di Monk e di Ornette. Questo suo quintetto del 1984 era ispirato.

Jack Of Clubs (Motian), da «Jack Of Clubs», Soul Note SN 1124. Jim Pepper, sax soprano; Joe Lovano, sax tenore; Bill Frisell, chitarra; Ed Schuller, contrabbasso; Paul Motian, batteria. Registrato a Milano nel marzo 1984.

 Cathedral Song (Motian), id.

sabato 26 agosto 2017

Passion Flower – Take The “A” Train – Multi-Colored Blue (Billy Strayhorn) RELOADED

Reload dal 3 marzo 2015 

 «The peaceful side of jazz» è il titolo del disco: è il 1961 e Billy Strayhorn, a Parigi, lontano dall’orchestra di Duke Ellington, suona sue composizioni famose e quasi tutte risalenti al suo primo decennio di attività. Sceglie di farlo sedendosi al piano ora solo, ora con un bassista, ora con un quartetto d’archi o perfino con un piccolo coro misto. Trovo notevole che, in questa intrapresa a nome proprio, lo Strayhorn pianista somigli più del suo solito al pianista Ellington.

 Peaceful, piacevole ma, più ancora che serena e rilassata, l’atmosfera che ne viene è come rassegnata, sfibrata ai margini, crepuscolare, e questo perfino in Take the “A” Train, che dopo la versione ellingtoniana (ma scritta e arrangiata da Strayhorn), uno dei pezzi di musica più celebri di tutti i tempi, chissà come Strayhorn sentiva risuonare dentro di sé. Chissà come l’aveva sentita in primo luogo.

 Forse il contributo di Duke a quella collaborazione così misteriosa e così malignata era proprio in un nerbo, un’estroversione che non erano nell’indole quieta e in fondo rinunciataria di Strayhorn; o forse era stato il logorìo di quel rapporto, fecondo ma ineguale, probabilmente poco sano, a decolorare l’espressione di Strayhorn, sia pure in modo così suggestivo e musicale.

 Passion Flower (Strayhorn), da «The Peaceful Side Of Jazz», Capitol Jazz CDP 7243 8 52562 2 5. Billy Strayhorn, piano; Michel Goudret, contrabbasso. Registrato nel maggio 1961.

 Take The “A” Train (Strayhorn), ib. Strayhorn; Paris String Quartet.

 Multi-Colored Blue (Strayhorn), ib. Strayhorn; Goudret; Paris Blue Notes, coro.

venerdì 25 agosto 2017

Most Unsoulful Woman (Jack Wilson)

 Titolo dispettoso per un pezzo viceversa decisamente soulful, presago dello spiritual jazz che diventerà comune di lì a uno o due anni ma con un nerbo ritmico e melodico ancora molto hard bop.

 Most Unsoulful Woman (Wilson), da «Something Personal», Blue Note BN 4521. Roy Ayers, vibrafono; Jack Wilson, piano; Buster Williams, contrabbasso; Ray Brown, violoncello; Varney Barlow, batteria. Registrato nell’agosto 1966.


giovedì 24 agosto 2017

As I Open My Eyes - I Came and Saw the Beauty of Your Love (Chico Hamilton) RELOAD

 Reload dal settembre 2011. Questo è stato uno dei post più controversi di Jnp, ne ricevetti vituperio perfino in separata sede e rischiai di far bruciare il soffritto del risotto a Mauro, v. i commenti (Mauro, che fine hai fatto?). Per questo, per disdegnoso gusto, oggi lo ripropongo. 

 Avventura fusion di Chico Hamilton nel 1970. Abbandonate le nuance coloristiche di flauto, clarinetto e violoncello che avevano distinto i suoi primi organici, Hamilton si butta a testa prima nelle pieghe più sperimentali di quel tessuto composito che ha ricevuto la troppo generica etichetta di fusion, intrecciato com’era di tanti fili diversi. Io, per esempio, preferisco questa musica dimenticata e scabra al plasticone fluorescente dei Weather Report anche nel loro supposto momento d’oro.

  La versione di Hamilton della fusion non è particolarmente sollecita dell’orecchiabilità né della piacevolezza dello smalto sonoro: ne faccia fede la presenza dominante del sax elettrificato di Arnie Lawrence, un musicista interessante.

  As I Open My Eyes (Hamilton), da «El Exigente», Flying Dutchman FDS-135. Arnie Lawrence, sax alto elettrificato; Bob Mann, chitarra; Steve Swallow, basso elettrico; Chico Hamilton, batteria. Registato nel 1970.

  I Came and Saw the Beauty of Your Love (Swallow-Hamilton), id.

mercoledì 23 agosto 2017

Danse de Travers n. 4 – Gnossienne n. 1 (Upbit Motion)

 Ma, ora della fine, che cosa diavolo è il jazz? Come diceva Louis Armstrong, se devi domandartelo, sta’ tranquillo che non lo saprai mai.

 Non è che io cerchi qui di cavarmela a buon mercato, mi fosse mai riuscito nella vita. Questi quattro bresciani, segnalatimi dal nostro amico, pianista e compositore raffinato Alberto Forino, si sono ispirati a Erik Satie, compositore che presenta parecchie attrattive per il jazzista, e poi hanno suonato qualcosa che è irrefragabilmente jazz, senza rinunciare per un momento a quell’impulso ritmico in avanti che chiamiamo «swing» – ritmica notevolissima, qui.

 Musicisti del talento e della fantasia degli Upbit Motion dimostrano che in quel linguaggio si possono ancora dire un sacco di cose non ancora dette, e non solo: alla luce di quel linguaggio, si possono dire in modo diverso cose già dette da altri.

 Danse de Travers n. 4 (Soggetti-Satie), da «InsenSatie», Fuorirotta FR20-2017. Upbit Motion: Angelo Peli, sax alto; Roberto Soggetti, piano; Giacomo Papetti, contrabbasso; Marco Tolotti, batteria.

 Gnossienne n. 1 (Soggetti-Satie), id.

martedì 22 agosto 2017

How Long Has This Been Going On – Fallout (Frank Rosolino)

 Ieri mi è occorso di nominare Frank Rosolino parlando con Sergio Pasquandrea (a proposito di un film di Jerry Lewis, pensa te le vie circuitose della conversazione) ed ecco che ripesco per te questo disco molto bello, che oltre a Rosolino ci offre Richie Kamuca, un mio pallino, Vince Guaraldi, il pianista dei Peanuts, e una classicissima ritmica West Coast che qui tira come una pariglia di cavalli – ma Stan Levey è stato di più, uno dei pochi bianchi fra i bopper originali.

 Come ho osservato qualche altra volta, How Long di Gershwin è una delle canzoni che meglio si presta al trombone e Frank Rosolino è stato uno dei trombonisti massimi del jazz, uno che suonava il trombone come andrebbe suonato; che paradosso che un musicista così pieno di vita, di humor, di esuberanza e di naturale virtuosismo abbia poi dovuto lasciare memoria di sé come di una delle figure più tragiche del jazz.

 How Long Has This Been Going On (G. & I. Gershwin), da «5», [Mode] V.S.O.P. #16 CD. Frank Rosolino, trombone; Richie Kamuca, sax tenore; Vince Guaraldi, piano; Monty Budwig, contrabbasso; Stan Levey, batteria. Registrato nel giugno 1957.

 Fallout (Holman), id.

mercoledì 16 agosto 2017

Whisper Not – Eronel (Fred Hersch)

 È veramente bello questo disco nuovo di Fred Hersch, una specie di stato dell’arte (uno dei possibili) del piano jazz di oggi. Contiene anche un’improvvisazione non preordinata di venti minuti, Through The Forest, che non ti faccio sentire perché non è stagione.

 Eronel è nota come una composizione di Monk ma pare che il vero autore ne sia stato Sadik Hakim (Argonne Thornton); sul disco è accreditata a entrambi.

 A risentirci fra qualche giorno, ciao.

 Whisper Not (Golson), da «Open Book», Palmetto 7 5397 21862. Fred Hersch, piano. Registrato nell’aprile 2017.

 Eronel (Monk-Hakim), id.

martedì 15 agosto 2017

Maynard Ferguson (Stan Kenton)

 Buon Ferragosto!

 Maynard Ferguson (Shorty Rogers), da «Say It With Trumpets», MJCD 1185. Maynard Ferguson, tromba, con l’orchestra di Stan Kenton diretta da Pete Rugolo; composizione e arrangiamento di Shorty Rogers. Registrato il 5 giugno 1950.

lunedì 14 agosto 2017

Nights At The Turntable – Walkin’ Shoes (Gerry Mulligan & Chet Baker)

Ho scritto questo pezzetto, con altri simili, per una rivista che l’anno scorso ha avuto vita meno che breve, ed è stato un peccato; al che puoi imputare un certo didascalismo  di norma estraneo a Jnp, che si rivolge a lettori evoluti. Absit iniuria.

 Il quartetto «pianoless» di Gerry Mulligan nella sua formazione originale con Chet Baker alla tromba durò meno di due anni, fra il 1952 e il ’53, ma s’incise indelebile, prima ancora che nella storia del jazz, nella coscienza collettiva, ideale colonna sonora di un momento e di un luogo, la California meridionale, anche se il suo successo sarebbe stato mondiale e avrebbe diffuso innumerevoli emuli e imitatori, più ancora in Europa che in America.

 Mulligan, nato nel 1927 e affermatosi giovanissimo come dotato arrangiatore e compositore al tramonto dello Swing e poi con il nonet di Miles Davis, si trovò di contraggenio, lui così individualista, a essere caposcuola di quella declinazione quasi esclusivamente bianca del cool jazz che prese il nome di «West Coast jazz», dalla costa della California, e che dal 1952 per circa un quinquennio riportò il jazz a livelli di popolarità che non aveva più conosciuto dopo l’epoca delle big band. Riconciliò infatti il pubblico bianco middle class con la musica afroamericana, fosse pure in una versione molto temperata, per non dire sedata.

 Ma le ambizioni di Mulligan erano più vaste e quell’etichetta non gli piacque mai. Fatto è che la musica del quartetto, in cui fece colpo la mancanza del pianoforte, mostrava in pezzi quali Bernie’s Tune, Walking Shoes, Nights at the Turntable tutti i caratteri della West Coast che presto sarebbero diventati formulari nelle mani di musicisti meno originali, attivi a Los Angeles e negli studios di Hollywood: dinamiche quiete, uno swing rilassato, semplicità ritmica quasi pre-moderna, melodie elaborate ma cantabili, armonie raffinate e colori sommessi, voci interne e accenni di contrappunto e, caratteristica questa tipicamente mulliganiana, una vena particolare di umorismo, quasi di clownerie.

 Contraltare assai indovinato al sax baritono di Mulligan fu Chet Baker, subito dipinto come un James Dean del jazz, trombettista musicalmente analfabeta ma d’istinto melodico infallibile, che nei gusti di critica e pubblico, in quei pochi mesi assolati e un po’ storditi, superò perfino, incredibile dictu, Miles Davis.

 Nights at the Turntable (Mulligan), da «The Best of the Gerry Mulligan Quartet with Chet Baker», Pacific Jazz CDP 7 95481 2. Chet Baker, tromba; Gerry Mulligan, sax baritono; Bob Whitlock, contrabbasso; Chico Hamilton, batteria. Registrato il 15 o 16 ottobre 1952.

 Walkin’ Shoes (Mulligan), id.

domenica 13 agosto 2017

Spring In Naples – Early Awedom – Music For A Strip Teaser (Ralph Burns) RELOADED

Reload dal 27 febbraio 2015 

 Ralph Burns (1922-2001) occupa il suo posto nella memoria dei jazzofili di buona cultura per molte partiture composte per Woody Herman durante gli anni Quaranta e Cinquanta: Apple Honey, Northwest Passage, Early Autumn, Bijou e tante altre. La sua carriera si esplicò in tutti gli ambiti della musica americana, anche a Hollywood e a Broadway, procurandogli riconoscimenti d’ogni tipo fra cui due Oscar (per Cabaret e per All That Jazz, pellicole di Bob Fosse).

 Burns, ch’era anche un buon pianista, era un compositore enormemente dotato. In questo disco a suo nome del 1955 impiega due formazioni «di studio» piene di bei nomi, una big band con molti hermaniani e un nonetto, il quale qui non sentirai; le sue musiche, di scrittura sempre molto raffinata, superano il mero ingegno per dispiegare una vera spontanea eleganza e uno swing naturale. Early Awedom già nel nome è una specie di take autoparodica di Early Autumn; Music For A Strip Teaser, con scoperto fonosimbolismo, costruisce una climax dinamica e armonica con un’infittimento progressivo della scrittura e con un chorus che s’innalza cromaticamente di otto in otto battute.

 Spring In Naples (Burns), da «Perpetual Motion», [Verve] Fresh Sound FSRCD 2216. Roy Eldridge, Al Porcino, Bernie Glow, Al DeRisi, tromba; Bill Harris, Lou Oles, trombone; Hal McKusick, Sam Marowitz, sax alto; Flip Phillips, Al Cohn, sax tenore; Danny Bank, sax baritono; Oscar Peterson, piano; Ray Brown, contrabbasso; Louis Bellson, batteria. Registrato il 4 febbraio 1955.

 Early Awedom (Burns), id.

 Music For A Strip Teaser (Burns), id.

sabato 12 agosto 2017

The Way You Look Tonight (Billie Holiday)

 A dispetto del titolo di questa arguta antologia italiana (di Alessandro Protti e Roberto Capasso), con Billie Holiday qui di ellingtoniano c’è solo Ben Webster.

 Nel 1936 Billie era nel pieno dei suoi mezzi vocali, ma interpreta lo standard di Kern con una nota asprigna e disincantata già caratteristica, di fatto dirigendo il piccolo gruppo in direzione di uno swing potente e schietto.

 Una curiosità è Vido Musso, il tenorista illustratosi soprattutto con Kenton, qui al clarinetto.

 The Way You Look Tonight (Fields, Kern), da «The Complete Billie Holiday With The Ellingtonians, 1935-1937», King Jazz KJ 143 FS. Billie Holiday con Irving «Mouse» Randolph, tromba); Vido Musso, clarinetto; Ben Webster, sax tenore; Teddy Wilson, piano; Allan Reuss, chitarra; Milt Hinton, contrabbasso; Gene Krupa, batteria. Registrato il 21 ottobre 1936.

mercoledì 9 agosto 2017

The Confined Few (Booker Little)

 Booker Little è inconfondibile come solista, compositore e arrangiatore; anche come leader, per l’urgenza ineffabile che conferiva alle esecuzioni di tutti i suoi complessi.

 Un jazzista di questa statura non poteva che cercare collaboratori del pari inconfondibili (solo il bianco batterista Shaughnessy, pur musicista rispettabile, appare qui un po’ fuori posto). Il titolo di questa composizione, come spesso i titoli di Little, alludono a qualche cosa di oscuramente penoso, mentre la composizione stessa si pone emotivamente in una terra di nessuno o meglio di tutti, in cui pena o gioia sono categorie che non sembrano più rilevare.

 The Confined Few (Little), da «The New York Sessions Feat. Booker Ervin», Lonehill Jazz 10110. Booker Little, tromba; Booker Ervin, sax tenore; Teddy Charles, vibrafono; Mal Waldron, piano; Addison Farmer, contrabbasso; Ed Shaughnessy, batteria. Registrato il 25 agosto 1960.

lunedì 31 luglio 2017

[Tacet]

 La festa, appena cominciata, è già finita, come diceva, mi pare, Severino Kierkegaard. Jazz nel pomeriggio si ferma per qualche giorno, non per sempre; riprenderà prima di ferragosto. Non resterai solo in quei giorni pericolosi dell’anno.

 The Sultan (Salim), da «Blues Suite», Savoy SV-0142. Paul Cohn, Nat Adderley, tromba; Buster Cooper, trombone; Phil Woods, sax alto; Selden Powell, sax tenore; Sahib Shihab, sax baritono; Eddie Costa, piano; George Duvivier, contrabbasso; Wilbur Hogan, batteria; A. K. Salim, arrangiamento e direzione. Registrato nel settembre o ottobre 1958.

domenica 30 luglio 2017

Home (Mike Westbrook)

 Home (Westbrook), da «Marching Song Vol. 1», Deram 844 853-2. The Mike Westbrook Concert Band: Dave Holdsworth, Greg Bowen, Ronnie Hughes, Henry Lowther, tromba; Malcolm Griffiths, Mike Gibbs, Paul Rutherford, Eddie Harvey, trombone; Martin Fry, tuba; Mike Osborne, John Warren, sax alto; Alan Skidmore, Brian Smith, sax tenore; John Surman, sax baritono; Mike Westbrook, piano; Harry Miller, Chris Lawrence, contrabbasso; Alan Jackson, John Marshall, batteria. Registrato nel 1969.

sabato 29 luglio 2017

Mapa (Ornette Coleman) RELOAD

 «Ornette On Tenor», del 1961, registra l’unica testimonianza di Ornette Coleman sul sax tenore, che fu a lungo il suo strumento, quando si esibiva come honker di rhythm’n’blues in orchestre di seconda e terza schiera nel Texas e immediate vicinanze. Se è vero che sul tenore Ornette non fa nulla di diverso che sull’alto, è anche vero che le diverse risorse sonore e retoriche dello strumento più grave stimolano la sua memoria fisica degli anni passati suonando altre musiche.

 Questo disco testimonia anche del breve transito nei gruppi di Ornette di Jimmy Garrison, per inciso l’unico bassista non bianco che Ornette abbia mai impiegato. Garrison lasciò Ornette per Coltrane, non senza prima aver  manifestato il suo disagio per la musica che gli toccava suonare, come ha raccontato Ornette parlando con A. B. Spellman, in un pittoresco meltdown pubblico, una sera. In questi pezzi Garrison è più interattivo di Charlie Haden e di Scott LaFaro, ma commette l’errore di rimanere troppo accosto a Ornette e a Cherry, cercando di seguirli e anche di prevenirli nei loro spostamenti armonici, cioè non praticando quel genere di «indipendenza empatica» che Ornette chiedeva ai suoi collaboratori.

 Ed Blackwell, come sempre, è la perfezione.

 Mapa (Coleman), da «Ornette On Tenor», Atlantic 8122-79640-5. Ornette Coleman, sax tenore; Don Cherry, cornetta; Jimmy Garrison, contrabbasso; Ed Blackwell, batteria. Registrato nel marzo 1961.

venerdì 28 luglio 2017

Capricious – Empty Ballroom [Une salle de bal vide] (Billy Taylor)

 Billy Taylor, pianista di jazz.

 Capricious (Taylor), da «Improptu», Mercury MG 20722. Billy Taylor, piano; Jim Hall, chitarra. Bob Cranshaw, contrabbasso; Walter Perkins, batteria. Registrato nel maggio 1962.

 Empty Ballroom (Une salle de bal vide) (Taylor), id.

giovedì 27 luglio 2017

It Might As Well Be Spring – Just One More Chance (Bill Harris)

 Con un disco così è facile e difficile al tempo stesso scegliere; poi, alla fine, è facile, perché le esecuzioni sono una più bella dell’altra. Non dico niente di Webster e Rowles, di cui ho detto tanto qui sopra negli anni (compulsa se vuoi la «nuvola» qui a destra) e neanche di Red Mitchell, sul quale mi sono diffuso or non è molto.

 Invece non ho mai parlato di Bill Harris (1916-1973), ma anche qui non dovrebbe essercene bisogno. Colonna dei tromboni di Woody Herman e poi del Jazz at the Philarmonic, è di quei jazzisti di una volta che, come del resto Ben Webster, si esprimevano con la pura sonorità e e la pronuncia ritmica prima ancora che con il fraseggio, sonorità che in lui era calda e riusciva a essere in una morbida e rasposa, «sensuale» fino all’impudicizia e seme generatore di uno swing potente. 
Gli eccessi sudoripari in cui poteva incorrere sono qui contenuti da una sezione ritmica astringente ma eloquente.

 Nell’head di Just One More Chance ti sembra che Harris e Webster stiano un po’ facendo la caricatura di se stessi? Non ti sbagli, ascolta il siparietto fra il primo e il secondo chorus.

 It might As Well Be Spring  (Mac Donald), da «Bill Harris And Friends», [Fantasy] OJC-083. Bill Harris, trombone; Jimmy Rowles, piano; Red Mitchell, contrabbasso; Stan Levey, batteria. Registrato nel 1957.

 Just One More Chance (Coslow-Johnston), ib. più  Ben Webster, sax tenore.

mercoledì 26 luglio 2017

Moment’s Notice (Billy Hart)

 Qui, sembra dapprima che i quattro accennino appena a Moment’s Notice, la nota corsa a ostacoli accordale di Coltrane, per subito dimenticarsene.

 No! Suonano proprio Moment’s Notice, certo non come la suonavano Coltrane, Lee Morgan & C. in quel Blue Note famoso. Esecuzione bellissima, dal primo disco di una delle migliori formazioni del jazz americano presente che conteneva anche una sorprendente versione di Confirmation di Parker, presentata qui sopra anni fa.

 Moment’s Notice (Coltrane), da «Quartet», Highnote HCD 7158. Mark Turner, sax tenore; Ethan Iverson, piano; Ben Street, contrabbasso; Billy Hart, batteria. Registrato il primo agosto 2006.

martedì 25 luglio 2017

Time Of the Barracudas (Gil Evans)

Ho scritto questo pezzetto, con altri simili, per una rivista che l’anno scorso ha avuto vita meno che breve, ed è stato un peccato; al che puoi imputare un certo didascalismo  di norma estraneo a Jnp, che si rivolge a lettori evoluti. Absit iniuria.

 Può darsi che «The Individualism of Gil Evans», pur nella sua eccellenza, non sia il capolavoro di Gil Evans, ma per certi versi si può dire che sia uno dei suoi dischi più rappresentativi. A cominciare dal titolo: se tutti i grandi jazzisti sono degli individualisti, Gil Evans lo è stato in modo eclatante perché si è espresso per lo più nel medium della big band, che nell’ambito del jazz è per forza di cose il più formalizzato in quanto legato alla scrittura, dunque a una tradizione forte.

 Eppure gli organici di Evans – il quale, altra eccentricità, non guidò mai una formazione stabile: non è mai esistita una Gil Evans Orchestra al di là dei dischi e degli ingaggi – non somigliano a nessuna della big band classiche, Basie o Ellington, Herman o Kenton. Già nel suo lavoro per Claude Thornhill, negli anni Quaranta, Evans modificò la strumentazione inserendo flauti, tuba e corni francesi, strumenti che avrebbe sempre mantenuto a cominciare dai suoi arrangiamenti per il nonet di Miles Davis del 1949, la formazione di cui fu l’eminenza grigia. E la sua scrittura, benché jazzisticamente ferratissima, non rispettò che molto di rado il «manuale» dell’arrangiatore per quanto riguarda impasti timbrici, dialettica delle sezioni, raddoppi, armonizzazioni: in questa così pronunciata originalità, Evans fu davvero l’unico caporchestra paragonabile a Duke Ellington, anche se raramente si cimentò con la composizione, specializzandosi in quella forma dissimulata di composizione che è l’arrangiamento.

 A paragone con «Out of the Cool» (1960) e con i capolavori con Miles Davis degli anni Cinquanta, questo disco del 1964 presenta arrangiamenti quasi sparuti. Evans concede un notevole spazio agli assoli, in modo fino a quel momento per lui insolito (i solisti sono Wayne Shorter, Phil Woods, Thad Jones, Kenny Burrell, Elvin Jones), e nel farlo dà ampia prova di possedere la qualità che è solo dei grandi fra i compositori di jazz: il saper integrare senza lacune le parti scritte con quelle improvvisate. È in questo modo che la musica acquista un senso di libertà e di imprevedibilità che non trascende mai nel casuale o nello sciatto, conservando l’inconfondibile colore evansiano.

 Time Of the Barracudas (Evans-Davis), da «The Individualism Of Gil Evans», Verve 8330804-2. Orchestra diretta da Gil Evans: Frank Rehak, trombone; Ray Alonge, Julius Watkins, corno; Bill Barber, tuba; Wayne Shorter, Al Block, sax tenore; Andy Fitzgerald, clarinetto basso; George Marge, Bob Tricarico, flauto; Bob Maxwell, arpa; Kenny Burrell, chitarra; Gary Peacock, contrabbasso; Elvin Jones, batteria. Registrato il 9 luglio 1964.

lunedì 24 luglio 2017

Lalene (Keith Jarrett) RELOAD

Reload dal 13 agosto 2010.

Questo è il Keith Jarrett che a me piace di più; «Facing You» è uno dei pochi dischi suoi che riascolto ogni tanto, insieme con alcuni pezzi dell’American quartet (e chi se ne frega, vero).

 Lalene ha un passo disteso, apparentemente divagante nel suo tono dolcemente folk, ma una costruzione spontaneamente rigorosa: nota come Jarrett arrivi al culmine del pezzo per gradi, dal minuto 3:45 al 4:00 circa, esattamente a metà dell’esecuzione, e poi ne ridiscenda per una strada assai più accidentata di quella da cui vi è arrivato, come se dopo aver preso un sentiero diretto verso la cima della collina ora percorresse dei tornanti, sul versante opposto.

Lalene (Jarrett), da «Facing You», ECM 827132-2. Keith Jarrett, piano. Registrato nel novembre 1971.

domenica 23 luglio 2017

Pannonica (Thelonious Monk)

Ho scritto questo pezzetto, con altri simili, per una rivista che l’anno scorso ha avuto vita meno che breve, ed è stato un peccato; al che puoi imputare un certo didascalismo  di norma estraneo a Jnp, che si rivolge a lettori evoluti. Absit iniuria.

 Non c’è arte la cui storia non sia contesta di personaggi e di episodi pittoreschi e il jazz non ne conta di sicuro meno di nessun’altra. In particolare, le circostanze relative alla registrazione di molti dischi famosissimi presentano un materiale che, nelle mani di uno scrittore abile, si presterebbe bene a un racconto o a una sceneggiatura cinematografica.

 «Brilliant Corners» è uno dei dischi più celebri di Thelonious Monk, e giustamente; contiene le versioni definitive di due delle sue composizioni più note, Pannonica e Bemsha Swing, nonché l’unica di una composizione insolita e affascinante, Brilliant Corners, appunto. A suonare è una all-stars se mai ve n’è stata una (Sonny Rollins al sax tenore, Oscar Pettiford al contrabbasso, Max Roach alla batteria, più lo sventurato Ernie Henry al sax alto), formazione quale poche altre volte capitò a Monk di guidare. Sorprende quindi che le sedute di registrazione siano state travagliatissime: Monk, sempre esigente ma in quei giorni particolarmente pestifero, cominciò subito a dare il tormento al grande Oscar Pettiford (i due, che una quindicina d’anni prima erano stati insieme nel manipolo dei creatori del bebop, non si sarebbero mai più rivolti la parola); i fiati incontrarono tali difficoltà nell’esecuzione dello spigoloso tema di Brilliant Corners che l’esecuzione che oggi ne ascoltiamo è il risultato del paziente taglio e cucito di ben venticinque diverse takes, operato dal produttore della Riverside Orrin Keepnews con una prassi all’epoca inconsueta. Infine, due delle più suggestive e poetiche invenzioni presenti nel disco, cioè l’uso della celesta in Pannonica e dei timpani in Bemsha Swing, sono frutto del caso, perché Monk si ritrovò quegli strumenti nello studio e decise lì per lì che li avrebbe impiegati. Un tratto questo d’improvvisazione, anzi, di serendipità, squisitamente  jazzistico, a suggello di un disco che, pur con tutto il suo percorso accidentato, è forse il più esteticamente coerente e uniformemente godibile del suo autore.

 Pannonica (Monk), da «Brilliant Corners», [Riverside] OJCCD-026-2. Ernie Henry, sax alto; Sonny Rollins, sax tenore; Thelonious Monk, piano, celesta; Oscar Pettiford, contrabbasso; Max Roach, batteria. Registrato nel dicembre 1956.

sabato 22 luglio 2017

I’m All Smiles – The Girl And The Turk (Francy Boland)

 Eccoci qui. Non lascerò mai Jnp del tutto, né per il vero posso garantire che lo manterrò con la frequenza a cui eravamo abituati. Non lo so: forse che sì, forse che no.

 Si riprende per il momento con Francy Boland, squisito compositore, arrangiatore e caporchestra (con  Kenny Clarke), pianista ricco di swing. Come in molti pianisti jazz europei della sua generazione – Boland era nato in Belgio nel 1929, è morto nel 2005 – si sente in lui l’ammiratore di Lennie Tristano. The Girl And The Turk era nel repertorio della Clarke-Boland Big Band; il turco era Ahmed Muvaffak «Maffy» Falay, un trombettista che fece brevemente parte dell’orchestra e che doveva essere un personaggio colorito, visto che ispirò un’altra composizione di Boland, Muvaffak’s Pad.

 Kenny Clarke è una costante meraviglia, così nel trio come nella big band; se non è stato il massimo batterista del jazz, credo che ne sia stato il più fantasioso.

 I’m All Smiles (Martin), da «Playing With The Trio», Schema/Rearward RW 148 CD. Francy Boland, piano; Jimmy Woode, contrabbasso; Kenny Clarke, batteria. Registrato il 19 febbraio 1967.

 The Girl And The Turk (Boland), id.