domenica 31 marzo 2019

Yesterdays (Coleman Hawkins-Sonny Rollins) RELOADED

Reload dal 27 gennaio 2011  

  Che cosa diavolo sta facendo Sonny Rollins nell’assolo che segue quello di Coleman Hawkins in questo Yesterdays che apre il loro storico incontro del 1963? Che cosa sta cercando di dirgli? Perché è chiaro che stia cercando di dirgli qualcosa, con quei suoni inumani. Li ha preannunciati con balbettìo demente della cadenza iniziale, quasi un sardonico biglietto di sfida. Hawk ha capito e, in particolare nel secondo chorus della sua improvvisazione, fa capire al giovane discepolo che sa benissimo dove quello voglia andare a parare. Sonny raddoppia e vede, o forse gli fa solo uno sberleffo. Quello che so per certo è che il vecchio maestro, subito dopo, lo riprende quasi alla lettera e poi, senza battere ciglio, gli risponde a tono. Wow.

  Bene gli altri.

  Yesterdays (Kern), da «Sonny Meets Hawks!», BMG 74321221072. Coleman Hawkins, sax tenore; Sonny Rollins, sax tenore; Paul Bley, piano; Bob Cranshaw, contrabbasso; Roy McCurdy, batteria. Registrato il 15 luglio 1963.


sabato 30 marzo 2019

Medula Sonata – Psychicemotus – First Gymnopedie (Yusef Lateef)


  1965, anno di free forms nel jazz. Yusef Lateef, come tutti i veri artisti, era stato free fin dai suoi esordi senza doversi neanche porre il problema. La libertà la trovava entro una forma, conoscendole bene tutte, e la sua forma era poi la sua libertà. Libera e felicissima, per esempio, fu la scelta del pianista George Arvanitas per questa seduta.

  Medula Sonata (Lateef), da «Psychicemotus», Impulse! 5362765. Yusef Lateef, sax tenore; George Arvanitas, piano; Reggie Workman, contrabbasso; James Black, batteria, percussioni. Registrato nel luglio 1965.

  Psychicemotus (Lateef), ib. Ma Lateef suona il flauto.

  First Gymnopedie (Satie), id.

venerdì 29 marzo 2019

Line for Lyons (Enrico Rava)


  Questo è l’esordio discografico di Enrico Rava, il 30 marzo 1960. L’occasione ne fu un EP (tre pezzi) della collana jazzistica Fonit Cetra a nome del pianista Maurizio Lama, che guidava un quartetto torinese. Lama era romano e sarebbe morto giovanissimo nel 1968 in un incidente d’auto.

  A rendere disponibile questo disco sull’internet è stato alcuni anni fa il bellissimo e ormai fossile blog Jazz from Italy. Il suo encomiabile curatore era un tempo lettore e commentatore di questo blog, al quale ha fornito diversi pezzi, ed era, spero sia ancora, anche un affascinante, personalissimo jazz writer. È bello questo suo articolo appunto  su Enrico Rava.

 Line for Lyons (Mulligan), da «Jazz in Italy n. 2», Cetra EPD 37. Enrico Rava, tromba; Maurizio Lama, piano; Filippo Faguttin, contrabbasso; Franco Mondini, batteria. Registrato il 30 marzo 1960.

giovedì 28 marzo 2019

Talkin’ the Blues – The Lion’s Roar (Leo Parker)


  Baritone once more. Leo Parker (1925-1962). Una volta, a Porta Portese, trovai ma non comperai un vecchio LP americano nelle cui note Leo Parker era presentato con tutta sicurezza come Bird’s younger brother. Non esisteva parentela alcuna. Parker, che era nato a Washington, in gioventù aveva suonato in una delle prime formazioni discografiche bop oriented di Coleman Hawkins, quando quel grande aveva voluto, fra i primi, mostrarsi al passo coi tempi, e poi nell’orchestra di Billy Eckstine, leggendaria incubatrice del bop. 

  Nella 52° strada suonò un po’ con tutti, soprattutto Dizzy e Illinois Jacquet, che senz’altro lo influenzò, e registrò fra gli altri con Fats Navarro. La faccio breve: si drogò, sparì quasi dalla circolazione; al principio degli anni Sessanta parve fosse lì lì per tornare alla grande con due dischi incisi per la Blue Note invece niente, morì di eroina nel 1962.

  Un bebopper con l’inclinazione bluesy di un tenorista r’n’b (l’influsso di Jacquet di cui dicevo), Leo Parker, al quale spetta il primato di pioniere baritonista del jazz moderno insieme con Cecil Payne ascoltato ieri, non temeva d’indulgere al côté rumoroso proprio di tutti gli strumenti a frequenze basse ma particolarmente dei saxofoni. Credo di rendergli giustizia presentandotelo in due blues.

  Questo disco, il secondo dei suoi Blue Note, vide la luce solo nel 1980.

  Talkin’ the Blues (Parker), da «Rollin’ With Leo», Blue Note BST 84095. Dave Burns, tromba; Bill Swindell, sax tenore; Leo Parker, sax baritono; Johnny Acea, piano; Al Lucas, contrabbasso; Wilbert Hogan, batteria. Registrato il 20 ottobre 1961.

  The Lion’s Roar (Parker), id.

mercoledì 27 marzo 2019

Martin Luther King – Follow Me – Girl, You Got A Home (Cecil Payne)


  Sax baritono. Cecil Payne, che non è nuovo su queste pagine, è stato fra i primi a praticare sul saxofono grave l’idioma moderno e io lo novero fra i grandi dello strumento, anzi fra i grandi saxofonisti del dopoguerra in generale; su di lui non mi dilungo e se vuoi potrai leggerne facendo clic sul suo nome nella «nuvola» qui a destra

  Questo disco Strata-East, registrato nel 1968 con la «produzione» di Clifford Jordan, si presenta aggiornato all’epoca (l’atmosfera da spiritual jazz in Martin Luther King, Jr., il marcato backbeat e l’organo overdubbed in Girl, You Got A Home), e in Follow Me Payne sfoggia i suoi bebop chops, ma nel complesso comunica un’impressione di stanchezza alquanto crepuscolare proprio nelle prestazioni intense ma come affaticate di Payne e di Kenny Dorham, che pure all’epoca erano tutt’altro che anziani. Il disco uscì solo nel 1973, quando Dorham era morto da un anno e Wynton Kelly da due; a loro risulta dedicato.

  Un altro sax baritono domani.

  Martin Luther King, Jr. I Know Love (Payne), da «Zodiac», Strata-East SES 19734. Kenny Dorham, tromba; Cecil Payne, sax baritono; Wynton Kelly, piano; Wilbur Ware, contrabbasso; Albert Kuumba Heath, batteria. Registrato il 16 dicembre 1968.

  Follow Me (Payne), id.

  Girl, You Got A Home (Payne), id. ma Kelly anche all’organo.

martedì 26 marzo 2019

Son of Ice Bag – Seven Steps to Heaven (Lonnie Smith)


  Ai tempi d’oro del blog, in un periodo in cui avevo deciso di occuparmi degli organisti, pubblicai qualcosa di Lonnie Smith (n. 1942), che secondo me si distingue nella pletora di organisti dei tardi anni Sessanta per due motivi: il primo, che pur essendo partito come tutti gli organisti di quegli anni dal soul jazz, diede poi alla sua musica uno spin personale, psichedelico senza per questo essere specialmente rockeggiante. Il secondo, perché, convertitosi sullo scorcio finale del decennio al sikhismo, da allora non è più apparso in una sola fotografia sprovvisto del turbante caratteristico degli adepti di quella confessione religiosa.

  Comunque fosse, quel post dedicato a Lonnie Smith non lo lesse quasi nessuno e infatti ricevette due commenti due, spregiosi l’uno e l’altro. Ma Lonnie piace a me e, ho scoperto, al mio amico e già contributore di JnP Alessandro Achilli, per cui rieccotelo, dapprima nel pezzo del 1968 che ti avevo propinato quell’estate del 2011, e poi in una strana, forse parodica versione di Seven Steps to Heaven del 1970, dove c’è anche Ronnie Cuber che suona il baritono a una velocità che su quello strumento non avevo mai sentito.

   Son of Ice Bag (Hugh Masekela), da «Think!», Blue Note 63843. Lee Morgan, tromba; David Newman, sax tenore; Lonnie Smith, organo; Melvin Sparks, chitarra; Marion Booker Jr., batteria; Norberto ApellanizWillie Bivens, conga; Henry Pucho Brown, timbales. Registrato il 23 luglio 1968.

  Seven Steps to Heaven (Davis-Feldman), da «Drives», Blue Note BST 84351. Dave Hubbard, sax tenore; Ronnie Cuber, sax baritono; Lonnie Smith, organo; Larry McGee, chitarra; Joe Dukes, batteria. Registrato il 2 gennaio 1970.

domenica 24 marzo 2019

April (Lee Konitz, Warne Marsh, Bill Evans)


  Sessant’anni fa come oggi, Lennie Tristano si riuniva eccezionalmente con i suoi discepoli Lee Konitz e Warne Marsh per un ingaggio all’Half Note di New York, un incontro che si sarebbe ripetuto un’altra sola volta nel 1964.

  Tristano a quel punto si era già dedicato a tempo pieno all’insegnamento e Konitz ha congetturato che a persuaderlo ad accettare l’ingaggio fosse stata anche una solidarietà etnica con i padroni e gestori del club, i fratelli Canterino, i quali, onorati dall’accondiscendenza del maestro, vollero perfino fargli scegliere il pianoforte.

  Il giovedì sera, tuttavia, Tristano insegnava e Konitz chiese a Bill Evans di sostituirlo; la cosa poté avvenire perché il repertorio dei tristaniani era in massima parte costituito da standard contraffatti (qui April è ovviamente I’ll Remember April, in una rielaborazione effettivamente piuttosto decettiva). La registrazione di quelle due sere sarebbe uscita anni dopo a nome di Konitz.

  Jimmy Garrison era stata la prima scelta di bassista di Evans quando, lasciato il complesso di Miles Davis, costui aveva cominciato ad esibirsi in trio, anche se testimonianze discografiche di quella situazione non ne sono rimaste. Paul Motian avrebbe fatto parte del trio più famoso di Evans, quello con Scott LaFaro, e poi anche di un trio discografico a mio giudizio poco riuscito, quello di «Trio ’64»  con Gary Peacock.

  Proprio perché Evans qui non cerca di suonare come Tristano, la sua derivazione dallo stile di lui (fra altri) risulta in special modo evidente. Nota come il pianista eviti per lo più di suonare sotto Konitz, probabilmente perché Konitz era quella sera alquanto crescente (a me francamente non pare, ma così ha detto Konitz, che ha un orecchio più sottile del mio).

 Evans, Konitz e Marsh avrebbero registrato ancora insieme nel 1977 in «Crosscurrents», disco a nome di Evans, quella volta con la ritmica del trio di Bill.

  April (Tristano), da «Live at the Half Note», [Verve] Jazz Lips JL760. Lee Konitz, sax alto; Warne Marsh, sax tenore; Bill Evans, piano; Jimmy Garrison, contrabbasso; Paul Motian, batteria. Registrato il 24 marzo 1959.

sabato 23 marzo 2019

Epistrophy (Richard Davis) RELOADED

Reload da qualche momento del 2014 

 Si parlava due giorni fa delle composizioni di Monk come parte del repertorio. Beh, dimmi che cosa ti pare di questa Epistrophy. Occhio che è bella lunga, più di venti minuti.

 Sotto la guida nominale di Richard Davis, uno dei più maestosi e registrati bassisti moderni (qui, purtroppo, ripreso con il brutto suono gommoso di moda negli anni Settanta per lo strumento), questo è un quintetto quantomai cooperativo del 1972 di cui a me piacciono particolarmente Joe Bonner su un pianoforte di lattine e Freddie Waits, grande batterista padre di un batterista grande a sua volta, Nasheet Waits. Naturalmente un ascolto sempre graditissimo è quello di Hannibal, che forse non è mai apparso qui sopra e che a un certo momento cita fuggevolmente A Love Supreme. Comunque tutti i solisti, qui, onorano il famoso precetto di Monk nei loro assoli: «quando non sai che cosa suonare, suona la melodia».

 Un ricordo anche per una delle più belle e classiche etichette del jazz degli anni Settanta, la Muse di Joe Fields, che qui ha colto, dal vivo al Jazz City di NY, un momento molto tipico del meraviglioso, proteiforme, indefinibile jazz che si faceva a New York in quel decennio e il cui clima acceso, survoltato si riflette anche nelle note di copertina di un Gary Giddins che, molto insolitamente, sembra essersi fumato il cervello.

 Epistrophy (Monk), da «Now’s The Time», Muse MCD 6005. Marvin «Hannibal» Peterson, tromba; Clifford Jordan, sax tenore;  Joe Bonner, piano; Richard Davis, contrabbasso; Freddie Waits, batteria. Registrato il 7 settembre 1972.

giovedì 21 marzo 2019

Is It necessary? – Infant Eyes (Charles Earland)


  Il jazz funkeggiante non è  il genere di jazz che mi faccia sognare, ma se una cosa ho capito del jazz è che alla fine dipende tutto da chi suona o canta. Quando lo fa Charles Earland, che suona oltretutto uno strumento che mi attrae poco, va benissimo, perché è un musicista sincero, espressivo, con uno swing da una tonnellata e un gusto generalmente impeccabile in un genere (e su uno strumento) che facilmente vi si oppone. 

  Qui lo ascolti nei tardi anni Settanta su un disco dell’etichetta Muse di Joe Fields, della quale – e di altre contemporanee e assimilabili – ho detto poco tempo fa parlando di un altro musicista che è presente in questa front line agguerrita, Bill Hardman. Tutti suonano benissimo, ma gli assoli di Charles sono esaltanti per verve ritmica, estro e pura gioia.

 Is It necessary? (Earland), da «Infant Eyes», Muse MR 5181. Bill Hardman, tromba; Frank Wess, sax tenore; Charles Earland, organo; Melvin Sparks, chitarra; Grady Tate, batteria; Lawrence Kilian, percussioni. Registrato nel 1978.

 Infant Eyes (Shorter), id.

martedì 19 marzo 2019

NYC’s No Lark (Bill Evans), Nica - Second Balcony Jump (Sonny Clark)


 L’ultima volta che ho scritto qui sopra di Conrad «Sonny» Clark (1931-1963) ho ammesso di non avergli mai dato la considerazione dovuta; riconosco di essermi anche abbandonato, sempre qui, a pisquanesche superficialità, videlicet «apprezzo Clark come accompagnatore (…); non mi ha mai entusiasmato come solista». Non posso nemmeno invocare l’ignoranza per attenuante, perché quando pensavo, scrivevo e dicevo così, i dischi più importanti di Clark li conoscevo già abbastanza bene. Di lui, come di altri del resto, mi sfuggiva tuttavia la cosa importante.

  Farò ammenda infine, ma la prenderò alla lontana, anche perché il blog riapre, inopinatamente in primo luogo per me stesso (costanza degli aggiornamenti: non prometto nulla), e mi va di passeggiarvi divagando, senza premura di arrivare al punto.

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  Sono diversi i jazzisti che hanno ricevuto l’omaggio postumo di una composizione da parte di colleghi: due istanze note a tutti, I Remember Clifford e Django, hanno trasceso l’occasione funebre e sono diventate quasi immediatamente degli standard del jazz, le belle ed elegiache canzoni che sono.

  A Sonny Clark è toccato un omaggio d’altro genere, più complesso, ambiguo e irreplicabile. Clark morì la mattina del 13 gennaio 1963 di una morte quanto poche altre annunciata, e il caso volle che fosse fra l’una e l’altra delle sedute che a Bill Evans servirono per registrare «Conversations with Myself». Ti parlo di quel disco strano in cui Evans ha sovrapposto tre parti di pianoforte e che per questo è rimasto immeritamente circonfuso di un’aura di terribilità: sulle pagine di Musica Jazz, Nino De Rose lo definì«Il Finnegans Wake del jazz moderno», nonché disco «mostruoso» e «inascoltabile». 

  De Rose esagerava: al di là della pratica dell’overdubbing, all’epoca ancora un po’ malfamata, nel disco Evans mise in atto delle tradizionali strategie di orchestratore, con un pianoforte al centro e due ai lati, e si abbandonò a una vena esornativa (è senz’altro il disco di Evans con più note) e perfino, direi, easy listening, in un repertorio che comprendeva sei standard e tre composizioni di Monk, ma poi, a fare dieci, una composizione di Evans assai particolare, numero 7 della tracklist finale. Questa non fa davvero corpo con il resto di «Conversations with Myself», in primo luogo perché il suo inserimento non vi poté essere calcolato. 

  È NYC’s No Lark, l’omaggio all’amico e collega morto di cui dicevo. Secondo una prassi della titolistica di Evans, punster impenitente (RE: Person I Know > Orrin Keepnews; Yet Ne’er Broken > Robert Kenney), il titolo anagramma “Sonny Clark” in una frase, «New York City non è uno scherzo», quasi una riflessione aforistica sulla vita di un jazzista a New York. Ha un carattere di dirge, di nenia funebre, che a me ha ricordato gli ultimi due dischi di Booker Little, un altro caro agli dèi; musicalmente rappresenta l’istanza più articolata di Bill Evans compositore e improvvisatore modale. 

  Evans dispone sei elementi di due battute in tempo ordinario, largo, con quattro accordi per battuta su pedale ora di un intero ora di due minime, elementi da ripetersi ad libitum ma reciprocamente proporzionati secondo istruzione dello spartito pubblicato, che riporta appunto i sei ostinati, così Evans li chiama: il secondo deve durare la metà del primo, il terzo e il quarto la metà del secondo, il quinto il doppio dei due precedenti, il sesto (identico al primo) non ha altra indicazione che diminuendo. I cinque elementi suggeriscono altrettanti modi sulla scala di do, rispettivamente eolico (minore naturale), dorico, ionico, lidio, locrio e infine ancora eolico a chiudere. Chiosa il pianista in calce allo spartito: «[nell’LP] (…) sovrappongo due tracce a una prima che in questo caso era un ostinato, improvvisato, simile a quello riportato qui. La seconda traccia è essenzialmente un’improvvisazione melodica sull’ostinato e la terza un “commento” sulle prime due». 

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  Va bene, diranno i miei piccoli lettori, ma in tutto ciò, Sonny Clark… ? La sua musica non presenta somiglianze apparenti con l’epicedio dedicatogli da Evans, né del resto è facile trovare somiglianze di NYC’s No Lark con altre musiche, fossero pure di Bill Evans stesso;  quella summentovata con Booker Little è appena di tono o d’intenzione. L’omaggio di Bill Evans sarebbe dunque esclusivamente sentimentale, risolvendosi nella dedica, nell’intenzione appunto? Io penso di no, perché sono persuaso che la musica di Sonny Clark e quella di Bill Evans abbiano delle radici estetiche e psicologiche comuni (non mi soffermo invece sugli accidenti biografici che avvicinavano i due e in ragione dei quali la morte di Clark, in quel gennaio già rigidissimo del ’63, dovette mettere il gelo nelle ossa di Evans). 

  Mi è piaciuta un’osservazione che ho letto di Nate Chinen: «Se mai c’è stato un jazzista che combinasse un’estrema chiarezza con un’oscurità estrema, questo è stato Sonny Clark», e anche un’altra di Ben Sidran sulla «costruzione quasi letteraria delle idee musicali [di Clark]». Trovo che tutte e due potrebbero bene applicarsi anche a Bill Evans per motivi che mi sembrano lampanti. C’è poi da dire ancora che Clark ed Evans erano entrambi ammiratori di Lennie Tristano e non soltanto, che i due sono fra i non molti pianisti nel cui stile quello di Tristano effettivamente riecheggi, per quanto in Sonny Clark più «per li rami» (altri pianisti reminescenti di Tristano, al di là della sua cerchia ristretta – Sal Mosca, Ronnie Ball, Connie Crothers – , sono stati Herbie Hancock con Miles, Paul Bley e per tramite di questo Keith Jarrett, Denny Zeitlin, Franco D’Andrea). 

  Il pianismo di Clark, in cui io percepisco anche l’influsso di Kenny Drew, vedeva la mano destra filare melodie a momenti anche attorte ma sempre sostenute da una logica narrativa di sviluppo (così interpreto l’osservazione di Ben Sidran) e a uno swing potente: ascoltando i suoi fraseggi interminabili ma che, a differenza di quelli  di altri pianisti di lungo respiro, non restano né lasciano mai a corto di fiato, viene da pensare alla frase di Ugo Foscolo/Didimo Chierico davanti alle onde del mare: Così vien poetando l’Ariosto! 

  Clark, nativo della Pennsylvania, veniva da una scuola pianistica illustre, Pittsburgh, distinta dal rilievo canoro conferito alla melodia all’interno di un impianto strutturale anche concettoso e a una particolare sensibilità testurale: Earl Hines, Mary Lou Williams, Erroll Garner, Ahmad Jamal (e ora che ci penso, Hines non fu forse un’ispirazione importante per Lennie Tristano?). E se è vero che la preferenza che accordavo ai suoi accompagnamenti rispetto agli assoli era una baggianata, è pur anche vero che Clark era accompagnatore di qualità uniche. Portare esempi non serve, perché in quella veste brillò in tutti i pezzi che incise, da leader o da sideman. Sotto il solista, Clark non sembra sollecito dell'interplay, di integrare cioè o di prevedere quanto il fiato va enunciando; a quel livello di esecuzione d’insieme, quel tipo d’interplay è quasi una goffaggine. Clark accompagna, fa la sua parte tenendosi accosto non alle note del solista, che è la cosa più facile per dei musicisti professionisti, ma alla radice dell’impulso ritmico condiviso, alla radice dello swing, a un impulso naturale come il respiro. 

  Sonny Clark aveva vissuto e lavorato piuttosto a lungo, in due riprese, sulla West Coast, a Nord e a Sud, molto richiesto come collaboratore dai musicisti più in vista di quell’area e di quella temperie stilistica di successo breve e intensissimo. Ebbe a dire poi in interviste che quella musica non gli apparteneva; che nel jazz della costa Est trovava «più fuoco», che quel jazz gli pareva – affermazione capitale – più vicina al «traditional meaning», insomma ai caratteri idiomatici, folkorici, orali, etnici se vogliamo, della musica. In questo, dunque, più che nei modi della sua espressione, è la sua vicinanza all’hard bop, categoria generica e troppo vaga per definire tanti musicisti così diversi.

  Ti lascio per oggi con una notula alla quale voglio tu rifletta: prima che Sonny Clark venisse riscoperto negli ultimi quindici-vent’anni negli Stati Uniti e in Europa, la sua popolarità era sempre stata forte, of all places, in Giappone. La fantasia corre.

  NYC's No Lark (Evans), da «Conversations with Myself», Verve 821 984-2. Bill Evans, piano. Registrato nel febbraio 1963.

  Nica (Clark), da «Max Roach, Sonny Clark, George Duvivier», Time Records S/2101. Sonny Clark, piano; George Duvivier, contrabbasso; Max Roach, batteria. Registrato il 23 marz0 1960.

  Second Balcony Jump (Eckstine-Valentine), da «Go», Blue Note BLP 4112. Dexter Gordon, sax tenore; Sonny Clark, piano; Butch Warren, contrabbasso; Billy Higgins, batteria. Registrato il 27 agosto 1962.

venerdì 1 marzo 2019

Den Tex – In A Capricornian Way (Booker Ervin)

 Perbaccho, che forza, che drive, che etc etc. etc. Ecco due pezzi e un complesso che di eccezionale non hanno che le personalità esuberanti che suonano, soprattutto Booker Ervin e Woody Shaw i quali vanno insieme come zucchero e caffè [idiomatico: non zucchero il caffè] e quindi la pura energia e il conseguente slancio ritmico e smalto sonoro.
 
 Il tema di Den Tex, ma anche quello di In A Capricornian Way, non sono niente, le armonie sono banali e quelle «modali» ancora più banali, contano poco perfino le note che vengono suonate; nel primo piano – l’unico che si veda, perché questa è una musica del momento anche se esce da un disco di cinquant’anni fa, è musica tutta ortogonale, senza prospettiva – c’è la sonorità coriacea, davvero unica, di Booker Ervin e le sue statuarie torsioni ritmiche, eleganti, ineleganti, animalesche. Ogni altro parametro qui è uno schizzo frettoloso e perfino Woody Shaw (che in In A Capricornian Way riversa dalla tromba fuoco liquido), Kenny Barron e Billy Higgins vi appaiono laconici comprimari.

 Den Tex (Ervin), da «Back From The Gig», Blue Note Re-issue Series. Woody Shaw, tromba; Booker Ervin, sax tenore; Kenny Barron, piano; Jay Arnett, contrabbasso; Billy Higgins, batteria. Registrato il 24 giugno 1968.

 In A Capricornian Way (Ervin), id.