Ho scritto questo pezzetto, con altri simili, per una rivista che l’anno scorso ha avuto vita meno che breve, ed è stato un peccato; al che puoi imputare un certo didascalismo di norma estraneo a Jnp, che si rivolge a lettori evoluti. Absit iniuria.
Può darsi che «The Individualism of Gil Evans», pur nella sua eccellenza, non sia il capolavoro di Gil Evans, ma per certi versi si può dire che sia uno dei suoi dischi più rappresentativi. A cominciare dal titolo: se tutti i grandi jazzisti sono degli individualisti, Gil Evans lo è stato in modo eclatante perché si è espresso per lo più nel medium della big band, che nell’ambito del jazz è per forza di cose il più formalizzato in quanto legato alla scrittura, dunque a una tradizione forte.
Eppure gli organici di Evans – il quale, altra eccentricità, non guidò mai una formazione stabile: non è mai esistita una Gil Evans Orchestra al di là dei dischi e degli ingaggi – non somigliano a nessuna della big band classiche, Basie o Ellington, Herman o Kenton. Già nel suo lavoro per Claude Thornhill, negli anni Quaranta, Evans modificò la strumentazione inserendo flauti, tuba e corni francesi, strumenti che avrebbe sempre mantenuto a cominciare dai suoi arrangiamenti per il nonet di Miles Davis del 1949, la formazione di cui fu l’eminenza grigia. E la sua scrittura, benché jazzisticamente ferratissima, non rispettò che molto di rado il «manuale» dell’arrangiatore per quanto riguarda impasti timbrici, dialettica delle sezioni, raddoppi, armonizzazioni: in questa così pronunciata originalità, Evans fu davvero l’unico caporchestra paragonabile a Duke Ellington, anche se raramente si cimentò con la composizione, specializzandosi in quella forma dissimulata di composizione che è l’arrangiamento.
A paragone con «Out of the Cool» (1960) e con i capolavori con Miles Davis degli anni Cinquanta, questo disco del 1964 presenta arrangiamenti quasi sparuti. Evans concede un notevole spazio agli assoli, in modo fino a quel momento per lui insolito (i solisti sono Wayne Shorter, Phil Woods, Thad Jones, Kenny Burrell, Elvin Jones), e nel farlo dà ampia prova di possedere la qualità che è solo dei grandi fra i compositori di jazz: il saper integrare senza lacune le parti scritte con quelle improvvisate. È in questo modo che la musica acquista un senso di libertà e di imprevedibilità che non trascende mai nel casuale o nello sciatto, conservando l’inconfondibile colore evansiano.
Time Of the Barracudas (Evans-Davis), da «The Individualism Of Gil Evans», Verve 8330804-2. Orchestra diretta da Gil Evans: Frank Rehak, trombone; Ray Alonge, Julius Watkins, corno; Bill Barber, tuba; Wayne Shorter, Al Block, sax tenore; Andy Fitzgerald, clarinetto basso; George Marge, Bob Tricarico, flauto; Bob Maxwell, arpa; Kenny Burrell, chitarra; Gary Peacock, contrabbasso; Elvin Jones, batteria. Registrato il 9 luglio 1964.
4 commenti:
Disco impeccabile ma mi dà l'impressione di un disco molto editato e poco spontaneo.
Alberto, dimmi una cosa che ti piace senza riserve e prometto che ci faccio DUE post :-D
se restiamo a Cil Evans, direi New Bottle and old Wine e Great Jazz Standards.
Preso nota.
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