lunedì 30 aprile 2018

Seven Minds – Bolivia – You Are The Sunshine Of My Life (Sam Jones)

 Tutti gli ascoltatori del jazz conoscono Sam Jones, che si ascolta in tantissimi dischi dagli Cinquanta all’anno della sua morte, il 1981 (era del ’24); tuttavia credo che non a molti verrebbe in mente di nominarlo nella prima schiera dei contrabbassisti moderni.

 Invece Jones, pur meno spettacolare, meno flashy di altri che hanno suonato il contrabbasso come una chitarra, è stato davvero un bassista eccezionale, di quelli che innalzano immediatamente il livello musicale di qualsiasi complesso. La sua pulsazione è solida, ovviamente, ma elastica e all’occasione sottilmente variata e la sua sonorità sempre profonda e «legnosa», di legno, come dovrebbe essere quella dello strumento, o almeno come piace a me.

Questo del 1977 è un gran bel disco di hard bop evoluto, decisamente segnato dalla presenza, credo anche come arrangiatore, di Cedar Walton, un classico collaboratore di Jones.

 Seven Minds (Jones), da «Something In Common», 32 Jazz CD 32217. Blue Mitchell, tromba; Slide Hampton, trombone; Bob Berg, sax tenore; Cedar Walton, piano; Sam Jones, contrabbasso; Billy Higgins, batteria. Registrato il 13 settembre 1977.

 Bolivia (Walton), id.

 You Are The Sunshine Of My Life (Stevie Wonder), ib. senza Mitchell, Hampton e Berg; Walton suona il piano elettrico.

sabato 28 aprile 2018

Flamingo – Pepi’s Tempo (Marion Brown)

 Mah, che robe strane circolavano una volta. Marion Brown un tipo strano lo era davvero, fin dall’aspetto vorrei dire; Coltrane lo volle in «Ascension» ma io non ho mica mai capito quanto sapesse davvero suonare; per il resto fece cose e cosette, appunto, strane, inclassificabili, addirittura (per me) incomprensibili come  «Afternoon Of A Georgia Faun» o questo disco del 1976 che sta fra funk, reggae, fusion, psichedelia of some sort, forse un po’ di ubriachezza ma non molesta: perché il disco, per quanto in tralice sotto ogni punto di vista, è colorito e si lascia ascoltare con piacere.

 Stranezza estrema, Marion Brown si concede il lusso di convocare Ed Blackwell come percussionista aggiunto.

 Flamingo (Grouys-Anderson), da «Awofofora», Disco Mate DSP-5002. Ambrose Jackson, tromba; Marion Brown, sax alto; René Arlain, chitarra; Fred Hopkins, contrabbasso; Chris Henderson, batteria; Juuma Santos, Ed Blackwell, percussioni. Registrato nel luglio 1976.

 Pepi’s Tempo (Brown), id.

venerdì 27 aprile 2018

Un libro su Prince

 L’editrice EDT di Torino ha pubblicato ieri una biografia di Prince opera di Ben Greenman; il titolo italiano è Purple Life; è un bel libro, documentato e avvincente, e l’ho tradotto io.

First Impressions – Meterologicly Tuned (Shamek Farrah)

 Ora della fine, le etichette discografiche che nel jazz rimangono come «iconiche», cioè come marchi caratteristici e al tempo stesso come emblemi di una temperie musicale e culturale, sono quelle che riescono a cogliere una sonorità generale, uno Zeitgeist o un’atmosfera, e a riprodurla in maniera efficace e riconoscibile pur nella varietà delle singole espressioni. A volte quell’atmosfera sonora arrivano a influenzarla di riflesso.

 Dagli anni Settanta fino a oggi la ECM ha fatto di questo un vero modus operandi e addirittura una ragione d’essere; prima ancora, fatte le distinzioni del caso, c’era stata la Blue Note ma per esempio, e così per chiarire, non lo avevano fatto etichette importantissime e fondamentali come la Prestige o la Riverside (mentre a mezza via, secondo me, si poneva la Atlantic degli anni Sessanta), che pubblicarono dischi cardinali della storia del jazz moderno ma senza l’idea di creare un’identità sonora inconfondibile, e non è detto che questo fosse un demerito.

 Negli anni Settanta si mise in in quel solco la newyorkese Strata-East di Charles Tolliver e Stanley Cowell; qui sopra ne ho parlato più di una volta. Per quell’etichetta, che aveva anche un distinto cachet visivo, registrarono dischi importanti i due fondatori e poi Clifford Jordan, Pharoah Sanders, Billy Harper, Charlie Rouse, Charles Brackeen, Cecil McBee, Max Roach con M’Boom, ma anche jazzisti oscuri come quelli che senti qui, nel 1974

 Riuniti sotto la leadership nominale dell’altista Shamek Farrah (nato Anthony Domacase nel 1947 a New York), mi sono tutti sconosciuti e lo restano anche dopo qualche ricerca, con l’eccezione del bassista Suggs e del pianista Sonelius Smith, assente in questi due pezzi e che tre anni dopo sarebbe stato co-titolare dell’altro disco Strata-East a nome di Shamek Farrah, The World of Children. Farrah avrebbe pubblicato un terzo LP nel 1980. 

 Il disco è una time capsule di quell’anno e di un decennio di jazz a cui io sono perdutamente affezionato; ed è inoltre un disco che contiene della musica bella, ispirata, autenticamente libera pur se non free ed eseguita ad alto livello; musica che, come gran parte di quella pubblicata dalla Strata-East, è perfettamente del suo tempo e insieme perfettamente attuale.

 First Impressions (Farrah), da «First Impressions», Strata-East. Norman Person, tromba; Shamek Farrah, sax alto; Kasa Mu-Barak Allah, piano; Milton Suggs, contrabbasso; Clay Herndon, batteria. Registrato nel 1974.

 Meterologicly Tuned (Farrah), id.

giovedì 26 aprile 2018

Hot House – Soultrane – Casbah (Barry Harris) RELOAD

 Reload dal marzo 2017 

È cosa risaputa: Barry Harris considera tutto quello che è avvenuto nel jazz dalla metà degli anni Cinquanta in poi “sbagliato”: non dico neanche il free jazz, ma sbagliato il cool, sbagliato il soul jazz, sbagliati Coltrane, Rollins, il jazz europeo, sbagliato tutto quello che non è il bebop rigoroso che lui pratica e insegna in giro per il mondo. O forse insegnava, ne ha compiuti 87 tre mesi fa.

 Non è questo di cui m’interessa parlare, anche se questo fa del vecchio Barry un tipo pittoresco e caratteristico di curmudgeon (ne ha anche  l’aspetto). In questo disco stupendo del 1975  senti come effettivamente Harris non abbia bisogno d’altro che del lessico bebop, che quando suona lui è vivo e attuale, per esprimersi in modo personale e incredibilmente espressivo e variegato; sotto le sue dita, quegli elementi che in tanti altri, anche suoi coetanei, suonano scuola, metodo e formula, sono un’autentica, articolata visione del mondo. Quale materiale migliore su cui esercitarla se non le composizioni di Tadd Dameron, un altro che del bebop aveva fatto la sua vita, in modo personalissimo?

 Hot House (Dameron), da «Plays Tadd Dameron», Xanadu 113. Barry Harris, piano; Gene Taylor, contrabbasso; Leroy Williams, batteria. Registrato il 4 giugno 1975.

 Soultrane (Dameron), id.

 Casbah (Dameron), id.

mercoledì 25 aprile 2018

Dem Tambourines (Don Wilkerson)

 Ciao.

 Era già capitato che Jazz nel pomeriggio tacesse per più di tre mesi senza mai neanche battere colpo, e non vale qualche scusa esalata nei commenti?

 Domanda retorica: no, non era ancora successo e infatti perfino la meccanica dell’editor di Blogspot mi risulta ormai poco agevole. Spero che non dovrà più succedere anche se non mi azzardo nemmeno a promettere che l’aggiornamento del blog sarà mai più, non dico assiduo, ma frequente come lo è pur stato per i trascorsi otto anni, che si compiranno il mese venturo. Potrà succedere, ma insomma ecco, non prendo impegni.

 Intanto io so che almeno una persona ha gettato qui sopra uno sguardo ogni mattina, perfino in questo jazzisticamente desolato inverno, e costui è il caro Paolo il Lancianese, di cui ho lasciato trascorrere il compleanno che si festeggiava l’8 aprile, due giorni prima del mio. Questo pezzo molto qualunque di soul jazz lo dedico quindi a lui, personificazione vivente dell’ascoltatore-lettore di Jnp.

 Dem Tambourines (Wilkerson), da «The Complete Blue Note Sessions», Blue Note 24555. Don Wilkerson, sax tenore; Sonny Clark, piano; Grant Green, chitarra; Butch Warren, contrabbasso; Billy Higgins, batteria; Jual Curtis, tamburino. Registrato il 18 giugno 1962.