giovedì 25 aprile 2019

My Old Flame (Eddie «Lockjaw» Davis) RELOAD

Reload dal 10 dicembre 2015. Buon 25 aprile!

  Non so, ovviamente, che cosa passasse per la testa di Eddie Davis quel giorno del 1958, ma alle mie orecchie questa sua esecuzione di My Old Flame suona omaggio devoto a Don Byas: come nelle interpretazioni delle ballad di quell’altro grande sax tenore, l’esposizione del tema si stempera nell’improvvisazione per il tramite di un’ornamentazione (e di note di passaggio, di volta, di appoggiature etc) che l’avvolge come una vegetazione invasiva e armonicamente divagante.

  L’assolo di Shirley Scott ha un drive, un punch e insomma un’espressività fantastica. Come invece credo di avere già osservato presentando un altro pezzo dai «Cookbook», il flauto qui ci sta come la panna sulle cozze, e non perché Jerome Richardson non fosse bravo.

  My Old Flame (Johnston-Coslow), da «Cookbook Volume 3», [Prestige] OJCCD-756-2. Eddie «Lockjaw» Davis, sax tenore; Jerome Richardson, flauto; Shirley Scott, organo; George Duvivier, contrabbasso; Arthur Edgehill, batteria. Registrato il 15 dicembre 1958.

mercoledì 24 aprile 2019

Berlin Erfahrung – Rumi Tales (The Revolutionary Ensemble)

  Il Revolutionary Ensemble si presentò negli anni Settanta coma un precipitato cameristico della poetica chicagoana dell’AACM, di cui Leroy Jenkins faceva parte. Il gruppo fu attivo dal 1971 al ’77 e si riunì nel 2004 producendo anche questo disco (e forse altri), un po’ diffuso e non proprio emozionante; ma oggi mi andava di ricordarli. 

  Berlin Erfahrung (Sirone), da «And Now…», Pi Recordings 08713 00132. The Revolutionary Ensemble: Leroy Jenkins, violino; Sirone, contrabbasso; Jerome Cooper, «multi-dimensional drums». Registrato il 18 luglio 2004.

  Rumi Tales (Jenkins), id.

martedì 23 aprile 2019

Silence Is The Question – Boo-Wah – Silence Is The Question (The Bad Plus)


  Non mi sono accinto a questo blog, nel 2010, con l’idea che dovesse servire mai ad altro che a trovarmi la compagnia di qualche jazzofilo e a pungermi a scrivere qualche rigo tutti i giorni. Dopo quasi dieci anni, constato che una sua funzione, non dirò «utilità», l’ha svolta nel farmi riflettere su come una stessa musica mi dica nel tempo cose diverse, quando non smetta proprio di parlarmi, e anche come l’immagine che ho di me mi si rifletta, nella musica, cambiata. 

  Niente di nuovo, sicuro, ma, soprattutto da quando ho cominciato la pratica del reload con cui ti ripresento musiche pubblicate anni prima con il relativo commento as it was, mi sono trovato a rivedere opinioni che sul momento mi parevano, ed erano, solide e articolate. La revisione è stata per lo più nel senso dell’approfondimento o dell’ampliamento, laddove ho colto in una musica o in un musicista più di quanto non vi avessi sentito dapprima; altre volte qualche aspetto di quella musica mi è apparso diverso o di  qualità opposta, ed è successo anche (l’ultima volta pochi giorni fa con un disco di Dorothy Ashby) che una passata preferenza mi risultasse addirittura incomprensibile. 

  Ho sentito per la prima volta i Bad Plus nel 2002, quando erano nuovi e seguivo già da tre o quattro anni con molto interesse Ethan Iverson. Negli anni successivi mi capitò di ascoltarli più di una volta in persona, di scrivere di loro qui e là e anche di intervistarli per la rivista Musica Jazz nel 2005. Fu su Musica Jazz, se non ricordo male, che trovai un paragone alla loro musica in certa letteratura americana contemporanea, per un certo senso che l’una e l’altra mi comunicavano di «pericolo e disastro imminente»; pensavo in particolare a David Foster Wallace, all’epoca ancora vivo, a Jonathan Lethem, a Rick Moody…

  A mio giudizio, che non è cambiato negli anni, dopo il 2005 i BP hanno intrapreso una parabola discendente; in particolare Ethan Iverson si è mostrato via via sempre meno compatibile con quello che in fondo era sempre stato un progetto di Reid Anderson. Da ormai più di un anno Iverson ha lasciato il trio, a quanto pare con sollievo degli altri due membri oltreché proprio; Orrin Evans ha preso il suo posto e dei nuovi BP non so dirti niente perché non li ho sentiti.

  Dopo questi anni rileggo quanto ne ho scritto e riascolto le musiche dei Bad Plus che ho pubblicato su Jazz nel pomeriggio. Quella edge, quel margine rischioso, com’è naturale, non ce lo sento più, il senno di poi ne ha smussato gli spigoli, l’intraveduto disastro forse compiutosi per tutti. Oggi un disco come «These Are The Vistas» (2002), che forse li rappresenta meglio, per me ha un sapore molto «d’epoca» e mi dà la misura di come i primi anni Duemila siano per ogni verso lontani, e di come anch’io fossi in parte altruom da quel che sono.

  I primi due pezzi che ti propongo vengono da «These Are the Vistas»; Boo-Wah mostra un’affinità con il prog rock che all’epoca mi era sfuggita. Di Silence is the Question, una composizione di Anderson molto caratteristica del suo estro narcotico, segue una versione che il trio, per l’occasione aumentato da Joshua Redman, ha dato in uno dei suoi ultimi dischi nella formazione originale.

  Silence is the Question (Anderson), da «These Are The Vistas», Columbia CK 87040. The Bad Plus: Ethan Iverson, piano; Reid Anderson, contrabbasso; David King, batteria. Registrato nel settembre o ottobre 2002.

  Boo-Wah (Iverson), id.

  Silence is the Question, da «The Bad Plus & Joshua Redman», Nonesuch 548920-2. The Bad Plus, Joshua Redman, sax tenore. Registrato nel 2015.

domenica 21 aprile 2019

Royal Flush (Second Version) (Sonny Clark)


  Buona Pasqua!

  Royal Flush (Second Version) (Clark), da «My Conception», Blue Note 7243 5 22674 2 2. Donald Byrd, tromba; Hank Mobley, sax tenore; Sonny Clark, piano; Paul Chambers, contrabbasso; Art Blakey, batteria. Registrato il 29 marzo 1959.

venerdì 19 aprile 2019

Monk’s Mood (Thelonious Monk & John Coltrane)


  Che male ci potrà mai essere nel pubblicare per una volta una musica famosissima e perfettamente ovvia se essa musica è Monk’s Mood suonata da Thelonious Monk e John Coltrane?

  Monk’s Mood (Monk), da «Thelonious Monk Quartet with John Coltrane at Carnegie Hall», Blue Note. John Coltrane, sax tenore; Thelonious Monk, piano; Ahmed-Abdul Malik, contrabbasso; Shadow Wilson, batteria. Registrato il 29 novembre 1957.

giovedì 18 aprile 2019

Changing Keys – Monk’s Medley (Sullivan Fortner)


  Dopo Teddy Wilson due giorni fa, oggi un pianista jazz  che, a trentatré anni, cioè giovane per l’odierno standard, mi appare straordinariamente together: è Sullivan Fortner, dal vivaio inesauribile di New Orleans.

  Fortner, che si è dotato anche di una formazione classica prestigiosa (Oberlin Conservatory e MA alla Manhattan School of Music), si è affermato come sideman di Stefon Harris e di Roy Hargrove e, come puoi sentire, ha mezzi strumentali cospicui e un notevole senso della forma, nonché la maturità musicale e spirituale per affrontare non indegnamente le composizioni di Monk. Questo suo primo disco da titolare [NdR: non è il primo, v. commenti] è in trio, con Roy Hargrove ospite nella Monk Medley, ma Sullivan si dimostra ferrato anche nel piano solo, situazione che in tanti praticano senza sapere veramente come; in questo programma della Voice of America lo senti in quella veste e anche intervistato da Eric Felten. 

  Changing Keys [Wheel of Fortune Theme] (Griffin), da «Moments Preserved», Impulse! 6752301. Sullivan Fortner, piano; Ameen Saleem, contrabbasso; Jeremy «Bean» Clemmons, batteria. Registrato nel giugno 2017.

  Monk Medley [Monk’s Mood, Ask Me Now], ib. Fortner; Roy Hargrove, tromba.

martedì 16 aprile 2019

Oh, Lady Be Good – Air Mail Special – Nice Work If You Can Get It (Teddy Wilson)


  Teddy Wilson è il pianista di jazz che tutti i pianisti di jazz citano quando devono nominare i loro pianisti di jazz preferiti: l’hanno ricordato per tale Bill Evans e Lennie Tristano, Horace Silver, Cecil Taylor, Brad Mehldau e sicuramente molti altri prima e dopo. Capita che qualche originale esprima perplessità o peggio su Monk, trovi Earl Hines scomposto, Art Tatum eccessivo, James P. Johnson pesante, Bud Powell troppo drammatico, Evans svenevole, Jarrett magniloquente, Taylor insensato, ma che cosa c’è in Teddy Wilson che possa non piacere? 

  Messa così, uno potrebbe pensare a Teddy sito in un’aurea «middle of the road», sprovvisto di evidenti difetti come di pregi grandi, e invece il fascino eterno del suo pianismo è quello dell’equilibrio consentito da un dominio compiuto dello strumento e del linguaggio, è nella capacità di affrontare la musica con un vocabolario amplissimo (penso alla sua duttilità ritmica) al servizio di una sensibilità in realtà inquieta, incandescente. 

  Da questa raccolta dei primi anni Cinquanta scelgo praticamente a caso; mi limito ad attirare la tua attenzione su Air Mail Special, il classico goodmaniano del 1941 con la famosa armonia diminuita nel bridge, di cui la versione pianistica risulta una specie di controtipo in bianco e nero.

  Oh, Lady Be Good (G.-I. Gershwin), da «Intimate Listening», Verve UCCV-9616. Teddy Wilson, piano; John Simmons, contrabbasso; Buddy Rich, batteria. Registrato il 16 dicembre 1952.

  Air Mail Special (Goodman-Mundy-Christian), Wilson; Arvell Shaw, contrabbasso; J.C. Heard, batteria. Registrato il 4 settembre 1953.

  Nice Work If You Can Get It  (G.-I. Gershwin), id.

domenica 14 aprile 2019

Behind the 8 Ball - Song of the Universe (Baby Face Willette) RELOAD

Reload dal 14 dicembre 2012 

  Roosevelt «Baby Face» Willette (1933-1971), organista, ha una distinzione speciale e un po’ strana: sul mercato dei collezionisti, le cui quotazioni com’è noto non hanno a che vedere con i valori musicali, la stampa originale del suo primo Blue Note «Face to Face» (1961) è un pezzo ricercatissimo, il più raro dell’intero catalogo Blue Note e valutato di conseguenza.

  Figlio di un ministro e di una missionaria e originario non si sa se della Louisiana o dell’Arkansas, sparito nel nulla prima di morire a Chicago, come e più di altri musicisti meridionali Baby Face si formò nel seno musicale della chiesa metodista nera. Rispetto agli altri organisti che nell’ultimo paio di mesi abbiamo ascoltato insieme, Willette resta legato assai più alle sue radici gospel, tanto che, invertendo la relazione consueta, l’hard bop nella sua musica risulta più una spezia aggiunta che una base stilistica. La parte migliore della sua carriera si svolse sotto l’egida Blue Note, dove esordì in dischi di Lou Donaldson e Grant Green per firmare quindi tre LP a proprio nome con sidemen di lusso, fra cui proprio Green. Passò poi alla chicagoana Argo ed è qui che lo cogliamo noi oggi, nello scorcio finale del 1964.

  I dischi Argo di Willette, meno noti dei Blue Note e pour cause, sono tuttavia particolarmente interessanti. Il loro suono – intendo la qualità della ripresa sonora – è più grezzo e quasi crudo rispetto alle alchimie vangelderiane, lo spazio è compresso e questo si addice bene alla musica di Willette del periodo, che a confronto con quella dei contemporanei colleghi di strumento ha una dimensione di secchezza, quasi di violenza, che mi ha evocato l’aggettivo «punk». Behind the 8 Ball è infatti nient’altro che rock’n’roll; Song of the Universe, con il precedente il solo altro original del disco, è un tiratissimo 6/8 che sembra mettere in qualche ambascia i modesti accompagnatori dell’organista, che qui come nel resto del disco sfoggia un drive implacabile.

  Su Willette, in italiano, ho trovato questo bell’articolo di Nico Toscani, che pare averne avuto l’idea giusto un mese prima di me.

  Behind the 8 Ball (Willette), da «Behind the 8 Ball», Argo LP-749. Baby Face Willette, organo; Ben White, chitarra; Jerold Donavon, batteria. Registrato il 30 novembre 1964.

  Song of the Universe (Willette), id.

sabato 13 aprile 2019

The Song Is You (Art Blakey)


  Tutto bello, ma l’assolo di McCoy Tyner in The Song Is You

  The Song Is You  (Kern-Hammerstein II), da «A Jazz Message», Impulse! 4547 964-2. Sonny Stitt, sax alto; McCoy Tyner, piano; Art Davis, contrabbasso; Art Blakey, batteria. Registrato il 16 luglio 1963.

  Cafe (Blakey-Stitt), id.

giovedì 11 aprile 2019

Figure and Spirit – Smog Eyes (Lee Konitz)


  Body and Soul è reimmaginata filosoficamente da Lee Konitz come Figure and Spirit. La pratica di apporre melodie nuove e capziose, in particolare ritmicamente, a progressioni armoniche di standard è naturalmente tristaniana e tristaniano, qui nel 1976, è l’assolo di Lee.

Il quale nel disco si è associato in front line Ted Brown (1927), altro tristaniano di vera fede e pratica costante, che a prima vista può suonare come una controfigura di Warne Marsh. Con Marsh e con un terzo fedele di Lennie, il pianista inglese Ronnie Ball, Brown costituì un tempo un quintetto che aveva in repertorio Smog Eyes (All of Me contraffatta), che ti presento di seguito. Precisa Konitz nelle note che Brown suona nel disco perché Marsh, sua prima scelta, era indisponibile…

  Ma, sorpresa!, la sezione ritmica è quanto di meno tristaniano potesse esserci. L’effetto sulle prime mi è stato strano, poi ho gradito questo contrasto piccante rispetto alle ritmiche tristaniane e dei tristaniani, bianchissime, metronomiche, smateriate come fantasmi. L’unica cosa che mi dispiace è il contrabbasso di Rufus Reid, non per lui, che è un grande bassista, ma per come lo strumento è ripreso nel disco: troppo forte e con un suono gommoso molto finto, com’era purtroppo prassi diffusa in quegli anni. 

  Figure and Spirit (Konitz), da «Figure and Spirit», Progressive PCD-7003. Lee Konitz, sax alto; Ted Brown, sax tenore; Albert Dailey, piano; Rufus Reid, contrabbasso; Joe Chambers, batteria. Registrato il 20 ottobre 1976.

  Smog Eyes (Brown), id.

mercoledì 10 aprile 2019

Myself When Young – Wax & Wane (Dorothy Ashby) RELOADED

Reload dal 19 marzo 2017. Anche qui, come in occasione dell’ultimo reload, un caveat: immutata la mia stima per Dorothy Ashby, proprio non so dire che cosa trovassi due anni fa di così bello in questo disco, di cui oggi colgo il kitsch e ben poco d’altro. Te lo ripropongo per cattiveria e anche per ricordare a me stesso che cosa futile e transitoria sia il gusto personale. Capace che di qui ad altri due anni ti riproponga estatico questa solfa.
  Di Dorothy Ashby si sarebbe forse parlato di più se avesse scelto uno strumento jazzisticamente più mainstream dell’arpa (ma Jnp ha la coscienza tranquilla a proposito). Del resto, si fosse illustrata come pianista – ed era anche pianista di vaglia –  Dorothy avrebbe quasi certamente avuto una visione meno angolata e fantasiosa della musica e forse non avrebbe costeggiato, come fa in questo disco o in «Afro-Harping» dell’anno prima, l’exotica e una marca molto particolare di fusion, con risultati molto personali e sempre musicalissimi.

 Rubaiyat è il titolo con cui è nota in Occidente una scelta di componimenti del poeta e polìmate persiano Omar Khayyám (1048-1131). La suggestione è forte ma resta generica; la Ashby collabora strettamente con quel bel personaggio che è stato Richard Evans, qui arrangiatore (le composizioni sono tutte dell’arpista), per figurarsi un sogno a episodi, «orientalista», lucidamente psichedelico, soavemente funky e cinematografico nell’immaginario, in cui si esibisce con eleganza anche come cantante ed esecutrice di koto, Dorothy Shahrazad.

 Myself When Young (Ashby), da «The Rubaiyat of Dorothy Ashby», [Cadet] Dusty Groove DGA 3002. Dorothy Ashby; Lenny Druss, flauto, oboe, ottavino; Stu Katz, vibrafono; orchestra arrangiata e diretta da Richard Evans. Registrato nel novembre 1969-gennaio 1970.

 Wax & Wane (Ashby), id. più Fred Katz, kalimba.

martedì 9 aprile 2019

If I Should Lose You – Fall from Grace (Kenny Werner)


  Càpita a volte, o spesso, di incontare musica che uno proprio non capisce. Non è da dire che gli sfugga concettualmente, come potrebbe una composizione dodecafonica a chi non abbia nozione di quella tecnica, o che sia percepita esteticamente o culturalmente lontana, o che la si trovi sgradevole ovvero troppo gradevole. No, la musica scorre, uno l’ascolta, la decifra, se vuole e se ne è in grado la classifica, ne apprezza la fattura ma alla fine si domanda: e allora? Che cosa ho sentito, e perché? Rozzamente: questa musica che cosa dice?

  L’impedimento di solito va cercato nell’ascoltatore. Per esempio, quelle reazioni e quelle domande me le ha suscitate tutte questo disco in solo di Kenny Werner (1951), reputato pianista, compositore, didatta newyorkese che è stato sideman di molti illustri fra cui Joe Lovano e Toots Thielemans nonché pianista e arrangiatore della Thad Jones-Mel Lewis Orchestra (poi Village Vanguard Orchestra) e di altre orchestre in America e in Europa, da anni titolare di un trio molto apprezzato.

  Il disco si apre con una suite, The Space, che rende giustizia al titolo nella sua natura diffusa e aritmica. Ci sono poi un omaggio jarrettiano, un paio di standard e due o tre composizioni che definirei anodine di Werner: il quale è un ottimo musicista e un pianista di classe, lodevolmente schivo di virtuosismi di sicuro alla sua portata, ma qui sembra essersi abbandonato a un suo estro forse meditativo, forse estatico, di sicuro negli intenti malinconico, nel quale non mi pare riesca mai a includere chi ascolta. 

  If I Should Lose You (Rainger-Robin), da «The Space», Pirouet PIT3106. Kenny Werner, piano. Registrato nel maggio 2016.

  Fall from Grace (Werner), id.

lunedì 8 aprile 2019

I’ll Remember April – Lady Bird (Don Byas)


  Ecco Don Byas con una sezione ritmica danese «mista»: mista quanto alla qualità, perché NHØP e Alex Riel filano con la proprietà e la forza propulsiva di una ritmica americana di classe (in quegli anni, al Jazzhus Montmartre di Copenhagen, accompagnarono praticamente tutti i più grandi solisti USA) mentre Bent Axen, che si sente con Dolphy in una famosa session dal vivo del 1961, è accompagnatore un po’ greve e invadente, e di dubbio swing. Neanche in assolo entusiasma. Magari mi sbaglio.

  Don nel 1966 già non era più all’apice della forma benché appena 54enne – al bicchiere si paga pegno – ma era ancora un bel sentire, con quel suono gonfio e lussureggiante e il fraseggio serpentino, che mi fanno pensare a un’allegra anaconda (?). In Lady Bird cominci a sentire l’influenza che, curiosamente, Coltrane esercitò su Byas dalla metà degli anni Sessanta.

  I’ll Remember April (Raye-De Paul), da «Ballads for Swingers», Polydor 623207. Don Byas, sax tenore; Bent Axen, piano; Niels Henning Ørsted Pedersen, contrabbasso; Alex Riel, batteria. Registrato nel 1966.

  Lady Bird (Dameron), id. 

sabato 6 aprile 2019

Ezz-thetic (Lee Konitz)


  Ezz-thetic, la più nota delle composizioni di George Russell, è basata sulle armonie di Love for Sale di Cole Porter e richiama nel titolo il peso massimo Ezzard Charles. Russell l’aveva scritta nel 1950 su richiesta di Charlie Parker, che avrebbe inteso usarla in una delle sue sedute with strings (aveva fatto analoga richiesta anche a Gerry Mulligan), cosa che non avvenne. 

  Ezz-thetic ebbe quindi la sua editio princeps nel 1951 in questa seduta a nome di Lee Konitz, che portò con sé altri tre tristaniani, Mosca, Bauer e Fishkin, più Miles Davis e Max Roach. Il tema di Russell siamo avvezzi a sentirlo enunciato in forma di incalzante unisono bebop; Konitz invece ha affidato qui una contromelodia a Miles.

  Nella sua concisione, con Konitz solista unico, per me questa rimane la versione più suggestiva di un pezzo inquietante, e quella che gli rende miglior giustizia.

  Ezz-thetic (Russell), da «Conception», Prestige 7000 Chronicle PRLP 7013. Miles Davis, tromba; Lee Konitz, sax alto; Sal Mosca, piano; Billy Bauer, chitarra; Arnold Fishkin, contrabbasso; Max Roach, batteria. Registrato l’8 marzo 1951.

venerdì 5 aprile 2019

Sing Me Softly of the Blues (Carla Bley) RELOADED


Reload dal 23 novembre 2010. Mi piace notare che, in quasi dieci anni, la mia opinione della musica di Carla Bley è cambiata in meglio, chissà poi perché, visto che non mi ci sono particolarmente dedicato.

Carla Bley ha composto molte melodie memorabili, interpretate memorabilmente soprattutto dall’un tempo suo marito Paul Bley, come And Now, the Queen, Ojos de Gato, Ida Lupino, ma nessuno dei dischi suoi che ho sentito mi ha mai entusiasmato (divertito, a volte sì): o inclinano a musiche e a estetiche per cui non provo interesse («Escalator Over the Hill») o ci sento un po’ troppo la formula, come in questo «Dinner Music» del 1976.

  Dal quale ti faccio sentire la versione che Carla offre di un’altra sua composizione,
Sing Me Softly of the Blues, famosa soprattutto in un'interpretazione (diversissima) di Art Farmer.

  Sing Me Softly of the Blues (C. Bley), da «Dinner Music», Watt/6. Michael Mantler, tromba; Roswell Rudd, trombone; Bob Stewart, tuba; Carlos Ward, sax alto e tenore; Richard Tee, piano; Carla Bley, organo; Eric Gale, Cornell Dupree, chitarra; Gordon Edwards, basso; Steve Gadd, batteria. Registrato dal luglio al settembre 1976.

giovedì 4 aprile 2019

Medley (Bud Shank & Bob Cooper)


  È vero, caro lettore, che sono sparito per mesi e per giunta dopo un anno o più di gestione  contumace del blog. Ma è vero anche che ti ritrovo infrollito: poco reattivo nei commenti e, peggio, spazientito davanti a qualcosa un po’ diverso dalle proposte solite, invero moderate. 

  Ecco una medley di sciroppose ballad da un complesso europeo guidato dai diòscuri del West Coast jazz, Shank & Cooper, quest’ultimo con l’oboe. Mi sarebbe stato difficile trovare qualcosa di più suadente e meno controvertibile. 

  Valuta tu se voglia rientrare nelle tue simpatie o se ti stia prendendo a gabbo.

  Stairway to the Stars (Malneck-Signorelli) / That’s All (Brandt-Haymes) / Easy Living (Rainger-Robin) / Lover Man (Davis-Ramirez-Sherman), da «European Tour 1957», Lone Hill Jazz LHJ10246. Albert Mangelsdorff, trombone; Bud Shank, sax alto; Bob Cooper, oboe; Joe Zawinul, piano; Johnny Fischer, contrabbasso; Victor Plasil, batteria. Registrato il 25 marzo 1957.

mercoledì 3 aprile 2019

Under Redwoods – B-40 M23-6K RS 4 W – Solar (Dave Holland)


  Ah ah ah, che mi viene in mente la storiella di quell’esploratore dAfrica i cui portatori indigeni si erano spaventati a morte al cessare improvviso di un tambureggiamento lontano che da molte ore accompagnava la marcia. 

  «Perché avete paura?», aveva domandato il bwana
  «Perché ora comincia l’assolo di contrabbasso», fu l’ovvia risposta.

  A vero dire l’assolo di contrabbasso di norma precede quello di batteria, fermo restando che sia con poche eccezioni una gran rottura di corbelli. Ma non quando il contrabbasso è nelle mani di Dave Holland, il quale, nel 1977, fece questo disco intero in solitudine.

  Under Redwoods (Holland), da «Emerald Tears», ECM 1109. Dave Holland, contrabbasso. Registrato nel 1977.

  B-40 M23-6K RS 4 W  (Braxton), id.

  Solar (Davis), id.

martedì 2 aprile 2019

Where Is Johnny? (Lol Coxhill & Pat Thomas)


  Dov’è Johnny? Non lo so, Lol Coxhill qualcosa congettura: si è perso nel bosco incantato, no, scherzo, sta guardando la tv. 

  Coxhill non ti sarà ignoto e qui sopra se n’è già parlato, v. la «nuvola» a destra. Il pianista ed elettricista Pat Thomas (1960), omonimo di un musicista ghanese di high life, per me me è nuovo. L’improvvisazione radicale, ammesso che di questo si tratti qui, mi persuade poco perché mi appare per lo più una pratica terapeutica, e sono a volte musicisti eccellenti a praticarla (a volte, invece, no). Direi che funzioni meglio quanto meno sia radicale e quanto più i suoi praticanti si conoscano e sappiano che cosa aspettarsi l’uno dall’altro. Ora, in questo disco Thomas e Coxhill adoperano come «boe» dei materiali riconoscibili, lessicalizzati, quindi forse non si può davvero parlare di improvvisazione radicale: chi può e vuole mi corregga.

  Questo set dal vivo del 1994 mi ha interessato anche nell’uso dei campionamenti, non dico di più. I due hanno un’ampia esperienza anche jazzistica che si sente benissimo, soprattutto quando Thomas, intorno ai dieci minuti, ingrana un inaspettato ma convincente walking bass (leggo che aveva cominciato da ammiratore di Oscar Peterson) e poi, dopo aver lasciato Coxhill da solo a starnazzare, un blues’n’boogie fino alla fine.

  Where Is Johnny? (Coxhill-Thomas), da «One Night in Glasgow», Scatter. Lol Coxhill, sax soprano; Pat Thomas, piano, electronics, campionamenti. Registrato il 2 luglio 1994.

lunedì 1 aprile 2019

Manic Maniac – Interlude for S.L.B. – Prepared for the Blues (Nick Sanders)


  Già al tempo del suo primo disco, o almeno del primo che io abbia ascoltato, del 2015, ti avevo raccomandato il giovane pianista Nick Sanders con il suo trio.  
  Non so che cos’abbia fatto nel frattempo, m'impegno a informarmi; intanto mi capita per le mani questo disco nuovissimo appena uscito e confermo: il Nick è molto bravo e così i suoi compagni,  e la musica è resa interessante fra l'altro dalla varietà delle sue ispirazioni: Ornette Coleman in Manic Maniac, il piano parzialmente preparato (giusto due note) nel blues Prepared for the Blues, Schumann in Interlude for S.L.B

  Altrove sentirai risuonare Monk, Jason Moran, Ran Blake, Brahms, i Bad Plus e sicuramente dell'altro e magari non quello che ho sentito io. Il bello è che a questa cornucopia di suggestioni non corrisponde una logorrea di note, una prolissità, la maniera sussiegosa e oratoria del primo della classe che tutto ha sentito e tutto sa (ri)fare. 

  Manic Maniac (Sanders), da «Playtime 2050», Sunnyside. Nick Sanders, piano; Henry Fraser, contrabbasso; Connor Baker, batteria. Registrato fra settembre 2017 e giugno 2018.

  Interlude for S.L.B. (Sanders), id.

  Prepared for the Blues (Sanders), id.