mercoledì 31 marzo 2021

Well, You Needn’t (George Colligan)

 George Colligan, pianista eccellente e, se non sottovalutato (l’aggettivo favorito dai jazzomani), di sicuro sottoesposto, qui ha seguito un po’ quello che fa il suo collega Ethan Iverson e si è procurato un sezione ritmica di insigni veterani della musica – e afroamericani.

 Suona fra l’altro due pezzi di Monk, questo e Monk’s Dream. Che te ne pare di lui come interprete monkiano? Non è di quelli nati per suonare Monk, com’era, per dire, Steve Lacy, poiché tende anzi, pur con misura, al verboso, ma neanche è dei tanti per i quali, come diceva Marcello Piras, Monk è soltanto uno che ha scritto degli accordi su cui è divertente improvvisare.

 Well, You Needn’t (Monk), da «Again With Attitude», IYOUWE. George Colligan, piano; Buster Williams, contrabbasso; Lenny White, batteria. Registrato nel 2019.

martedì 30 marzo 2021

[Guest post #74] Alberto Arienti Orsenigo & Ray Charles

Come cantare contro l’orchestra e la canzone e creare un capolavoro.

 Ol’ Man River (musiche di Jerome Kern, testo di Oscar Hammerstein II) è una romanza nel 1927 tratta dal musical Show Boat. È nota per essere una canzone che parla del duro lavoro degli  afroamericani, ma è stata scritta da due ebrei. Ha una struttura operistica che ha messo spesso in crisi artisti di livello come Bing Crosby e Frank Sinatra; quest’ultimo l’ha pure cantata nel film dedicato al musicista, in un trionfo di bianco (vestito del cantante e scenografia) che potrebbe addirittura sembrare ironico. L'unico che sembrò trovarsi a suo agio fu Paul Robeson che creò lo standard interpretativo per tutti i bassi che l'avrebbe seguito nell’impresa.
 Poi nel luglio del 1963 Ray Charles decide d’inciderla per inserirla nell’album «Ingredients In A Recipe For Soul». L’arrangiamento di Marty Paich prevede che la strofa iniziale sia cantata da un coro che più bianco non si può, come usualmente è previsto nei dischi di Ray da quando è passato all’ABC-Paramount. Niente inflessioni gospel, niente Raylettes, siamo ancora nel regno di Ajax tornado bianco.


 Poi arriva lui a iniziare il ritornello e allora tutto si capovolge: il Genio fa a pezzi la linea melodica originale, così lineare, e la riassembla girandoci attorno fin dall’inizio: non c’è più un briciolo della consolidata concezione musicale dell’opera, nonostante gli archi e il coro continuino a squadrare, secondo partitura. Ray dribbla i passaggi scontati e dove le note sono troppo alte le tocca in falsetto. Affronta l’inciso in contrattempo e fa un finale elaboratissimo in un crescendo barocco, ma un barocco drammatico e per nulla estetizzante.
 Alla fine, la canzone non è più l’ingessato sermone buonista dell’originaria versione, non è nemmeno un gospel ed è lontana anche dall’estetica blues: è un corpo vivo e pulsante che è stato fatto a brandelli ed è bellissimo così.
 Ol’ Man River (Kern-Hammerstein II), da «Ingredients In A Recipe For Soul», ABC 465. Ray Charles con i Jack Halloran Singers e orchestra arrangiata e diretta da Marty Paich. Registrato nel 1963.

lunedì 29 marzo 2021

On The Sunny Side Of The Street (Lester Young)

 Lester Young suona nel 1947 il consunto standard, uno passato di moda, fra l’altro; se ne rimugina la melodia nella mente e a noi la fa sì e no intravedere, dopo avervi accennato con gesto vago nelle prime due battute.

 La sonorità del sax tenore di Lester è, da sola, una delle invenzioni più sorprendenti e caratteristiche del jazz ed è anche, secondo me, la più importante innovazione estetica che il jazz abbia conosciuto, quella con le conseguenze più feconde. Quel suono che Hugues Panassié assomigliò a un clacson d’automobile si manifestò già con Basie in assoli lontanissimi dall’accanimento feroce nello sviscerare ogni accordo, accanimento tipico di Hawkins e dei suoi seguaci (cioè, alla metà degli anni Trenta e per dieci anni ancora, di tutti i sax tenori), e comunica un senso di libertà e distacco che si ritrova, certo, nei tenori lesteriani del dopoguerra, del bop e del cool, ma anche più schiettamente in Wayne Shorter: riflettevo così su Jazz nel pomeriggio dieci anni fa nell’ascoltare uno dei primi assoli registrati di Shorter, in un disco di Wynton Kelly del 1959: «La sonorità è corpulenta e nebbiosa e la condotta melodica (che insiste su un frammento di scala a toni interi) e ritmica è curiosamente indipendente dalle armonie di base. È immaginabile o inevitabile che Shorter avesse ascoltato quanto Ornette andava facendo in quel torno di tempo, ma è certo, e quest’assolo lo dimostra, che avesse assorbito e fatto sua la lezione di Lester Young».

 On The Sunny Side Of The Street (Fields-McHugh), da «The Complete Aladdin Recordings Of Lester Young», Blue Note. Lester Young, sax tenore; Argonne Thornton (Sadik Hakim), piano; Fred Lacey, chitarra; Rodney Richardson, contrabbasso; Lyndell Marshall, batteria. Registrato il 18 febbraio 1947.

domenica 28 marzo 2021

Bolivia (Cedar Walton & Eastern Rebellion)

  Come spesso accade con Cedar Walton, la musica del quartetto Eastern Rebellion ha una qualità filante, aerodinamica, a momenti astratta, che ne fa un caso particolare nel panorama dell’hard bop, parca com’è in termini di funkiness e di puro groove.    

 Bolivia (Walton), da «Eastern Rebellion», Timeless CD SJP 101. George Coleman, sax tenore; Cedar Walton, piano; Sam Jones, contrabbasso; Billy Higgins, batteria. Registrato il 10 dicembre 1975.  

sabato 27 marzo 2021

[Guest post #73] Luigi Boledi & Duke Ellington

 Per scrivere di musica come si deve serve saper scrivere e sapere di musica; poi servirebbe sapere di un sacco di altre cose. Per scrivere di Duke Ellington nel 1933, saperne, ne dico una, di cinema, forse è poco meno che indispensabile. Luigi Boledi è uno storico del cinema di mestiere, e direi storico per disposizione naturale; conosce il jazz, ama Duke Ellington e sa scrivere, come constaterai subito. 

 Mi piacerebbe, questo pomeriggio,  aprire una pagina di Ellingtonia come si apre un grande narratore, da cui si trae godimento estetico e quasi il senso di tutta un’ esperienza culturale  anche quando la pagina aperta non è magari la sua migliore e nemmeno la più emblematica.

 Non so quanta musica abbia scritto Duke Ellington sotto il titolo di Harlem; in questo Harlem Speaks (inciso anche a Londra, circa un mese prima) i solisti che si ascoltano sono, nell’ordine,  Cootie Williams, Johnny Hodges, Freddie Jenkins, Harry Carney e Lawrence Brown ma, come fanno notare Antonio Berini e Giovanni M. Volonté  (Duke Ellington: un genio un mito, Ponte alle Grazie, Firenze, 1994), «la parte del leone è riservata a Joe Nanton», che prende un assolo con la sordina di idiomatica incisività.

 Questo quanto al godimento estetico. Ma dove sta l’esperienza culturale? Credo risieda innanzi tutto nel fatto che chiunque, aprendo questa paginetta, si rende immediatamente conto che non di pagina si tratta ma piuttosto di un’intera sceneggiatura, in cui il ruolo di ciascun attore e il découpage della chiamata in scena sono ordinati con calcolata misura.

 E poi, per riprendere la metafora cinematografica, c’è il programma, il tone parallel, in termini ellingtoniani. Che è subito avvertibilissimo, per esempio, nell’onomatopea dei suoni ferroviari.


 A questo riguardo: chissà se Ellington, in questa ed altre simili vignette sonore, era consapevole  di stare riconvertendo in musica quello che il cinema d’avanguardia, solo qualche anno prima, aveva tentato di tradurre in immagini «sinfoniche» e quindi musicali: in buona sostanza, l’esperienza eminentemente metropolitana della modernità.

Harlem Speaks (Ellington), da «The Real Duke Ellington», Sony 886912960702. Arthur Whetsol, Cootie Williams, Freddie Jenkins, tromba; Lawrence Brown, Joe «Tricky Sam» Nanton, Juan Tizol, trombone; Barney Bigard, clarinetto, sax tenore; Johnny Hodges, Otto Hardwick, sax alto; Harry Carney, sax baritono; Duke Ellington, piano; Fred Guy, chitarra; Wellman Braud, contrabbasso; Sonny Greer, batteria. Registrato il 15 agosto 1933.

venerdì 26 marzo 2021

Ghosts (Albert Ayler) (Peter Leitch)

 Prima, Albert Ayler suona Ghosts, la sua composizione più famosa, nell’indimenticabile suo primo disco per la ESP, 1964.

 Quarant’anni dopo Peter Leitch, chitarrista canadese, di proposito fraintendendolo, riporta Ghosts alle sue origini di calypso e lo suona così, come un piccolo, innocuo calypso.

 Ghosts (Ayler), da «Spiritual Unity», ESP 1002-2. Albert Ayler, sax tenore; Gary Peacock, contrabbasso; Sunny Murray, batteria. Registrato il 10 luglio 1964.

 Ghosts, da «Autobiography», Reservoir Music RSR CD179. Peter Leitch, chitarra; George Cables, piano; Dwayne Burno, contrabbasso; Steve Johns, batteria. Registrato il 24 gennaio 2004.


giovedì 25 marzo 2021

Giant Steps – Along Came Betty (Anthony Braxton)

 Si parlava due giorni fa, il pretesto ne era Archie Shepp, di saxofonisti «di avanguardia» ovvero reduci da una qualche avanguardia e dei diversi livelli di competenza con cui essi praticano l’improvvisazione jazzistica idiomatica, cioè su sequenze armoniche tonali e/o su strutture tematiche.

 In quel post paragonavo Shepp ad Anthony Braxton, un paragone svantaggioso per Braxton, a voler intendere come un vantaggio assoluto la disinvoltura in quel genere di invenzione estemporanea.

 Qui Braxton, nel 1979, affronta due classici del jazz moderno: uno, Giant Steps, è addirittura la pietra di paragone dell’improvvisatore su accordi. Si potrebbe pensare che, suonandoli in solitudine, Braxton abbia (non si dica per malizia) aggirato molti possibili ostacoli.

 Dico la mia: sono un ammiratore fervido del Braxton di quegli anni, che a suo tempo ebbi occasione di ascoltare in persona molte volte, e a me queste due esecuzioni piacciono; poco mi cale che Braxton, qui, non navighi fra gli accordi con la sicurezza da incrociatore di un George Coleman o di un Johnny Griffin – ma con sicurezza tuttavia, a modo suo. Diverso è il discorso per i molti dischi in cui Braxton ha voluto suonare standard associandosi a sezioni ritmiche «tradizionali»; lì anch’io cedo quasi sempre alla perplessità.

 Giant Steps (Coltrane), da «Alto Saxophone Improvisations 1979», Arista A2L 8602. Anthony Braxton, sax alto. Registrato il 21 giugno 1979.

 Along Came Betty (Golson), id.

mercoledì 24 marzo 2021

I Can’t Get Started – Exactly Like You (Ruby Braff)

 Ecco del jazz mainstream, colto proprio negli anni in cui questo concetto, fluido per natura, andava almeno vagamente precisandosi, e condotto qui in un alveo espressivo inconfondibilmente armstronghiano dalla tromba di Ruby Braff, titolare delle sedute.

 Del quale ho già detto in passato. Oggi voglio che tu noti una cosa, cioè le date di nascita dei compagni di Braff in questi due pezzi. Braff era del 1927; gli altri, tutti nati dal 1900 (Walter Page) al 1916 (Johnny Guarnieri), appartenevano per legittimazione generazionale al jazz classico, e si erano formati e affermati nella Swing era.

 Ruby Braff  era invece coetaneo di Miles e di Coltrane, anzi, di un anno più giovane di loro, ma aveva scelto di esprimersi nell’idioma di Louis Armstrong. Voglio farti una domanda e sarebbe cortesia da parte tua rispondere con sincerità, visto che non mi sembra di aver preteso mai nulla da te: nel fare così, Ruby Braff ha rinunciato all’espressione personale? Ha compiuto (come direbbe qualcuno) un atto esteticamente «reazionario»? Si è frapposto tra il progresso e il jazz? 

(NB Ascolta Bud Freeman in Exactly Like You e, se ti va, confrontalo con il Freeman di sedici anni prima, in duo con Jess Stacy. Troverai in lui un’indole opposta a quella di Ruby Braff: un musicista che desiderava, nei limiti del ragionevole, stare al passo con i tempi. Freeman, nato nel 1906, andò addirittura a prendere lezione da Lennie Tristano, nel 1947).

 I Can’t Get Started (Gershwin-Duke), da «The Complete Ruby Braff Betlehem Recordings», Solar 4569909. Ruby Braff, tromba; Johnny Guarnieri, piano; Walter Page, contrabbasso; Bobby Donaldson, batteria. Registrato nell’ottobre 1954.

 Exactly Like You (Fields-McHugh), ib. Braff; Bud Freeman, sax tenore; Kenny Kersey, piano; Al Hall, contrabbasso; George Wettling, batteria. Registrato nel luglio 1955.

martedì 23 marzo 2021

Donna Lee – Lady Bird – Flamingo (Archie Shepp)

 Chissà la storia che c’è dietro questo disco di Archie Shepp del 1978: una storia interessante deve pur esserci, perché questa non è una seduta come tante altre. Shepp, per cominciare, vi suona il sax contralto e non credo che l’abbia mai fatto in altri dischi (nel caso, confutami nei commenti); poi, il programma è per 4/5 di classici del bebop, e l’eteròclita sezione ritmica non la si assocerebbe normalmente a lui.

 Il risultato è buono: Shepp, che non è mai stato un changes player virtuoso, non inciampa nemmeno sui percorsi a ostacoli accordali di Donna Lee, anzi, li «negozia», come dicono gli americani, con scrupolo forse maggiore che non avrebbe avuto con il suo mezzo consueto, il sax tenore. 

 L’atout di Shepp, nel lavorare su materiali della tradizione come ha fatto ormai per la gran parte della sua carriera, è la concentrazione espressiva, il saper sempre esattamente dove andare; è una chiarezza di obiettivo che si traduce in una pulizia di segno, in una schiettezza di percorso e, in questa precisa circostanza, in un relax (in Flamingo Shepp cita Deep Purple) che soprassiede anche una limitata padronanza armonica. In questo Shepp è assai diverso da un David Murray, per dire un musicista che potrebbesi considerargli poeticamente affine, o da uno invece da lui così disforme come Anthony Braxton: tutti e due i quali, invece, sugli accordi non se la cavano tanto bene.

 È così che Archie Shepp va di eccellente conserva con il trio ritmico. Jaki Byard è saporoso e disinvolto come sempre, e come sempre fa se stesso in relativa autonomia o indifferenza rispetto al contesto: i suoi liquidi arpeggi un po’ à la Garner in Flamingo diluiscono bene l’alto astringente di Shepp. McBee e Haynes sono due padreterni per tutte le stagioni: sta’ attento all’assolo di McBee in Flamingo, allo straniante accompagnamento che Byard vi fornisce – l’intesa dei due è preziosa per tutto il disco – e al chorus che subito segue, con il ritorno del sax. 

 Donna Lee (Davis), da «Lady Bird», Denon DC-8546. Archie Shepp, sax alto; Jaki Byard, piano; Cecil McBee, contrabbasso; Roy Haynes, batteria. Registrato il 7 dicembre 1978.

 Lady Bird (Dameron), id.

 Flamingo (Anderson-Grouya), id.

lunedì 22 marzo 2021

Toy Room (Chick Corea)

  Nel 1970 Chick Corea era impegnato con Miles Davis, sotto la leadership del quale lo si sente in dischi famosissimi come «Filles de Kilimanjaro», «In a Silent Way», «Bitches Brew», «Jack Johnson» e anche meno famosi (e meno belli) come «Big Fun», «On the Corner» e «Get Up with It»; con Anthony Braxton, Dave Holland e Barry Altschul componeva il quartetto Circle, di un’avanguardia ardita, e trovò anche il tempo di incidere, con la ritmica di Circle, questo disco che è una delle sue cose più belle e anche uno dei più importanti dischi di jazz pianistico di quegli anni.

  Toy Room
(Holland) da «The Song of Singing», Blue Note 84353. Chick Corea, piano; Dave Holland, contrabbasso; Barry Altschul, batteria. Registrato nell’aprile 1970.

domenica 21 marzo 2021

The Chimento Files – Balladesque (WORMS)

 Mi arriva questo disco di un quintetto di non più giovani musicisti di Denver, Colorado, che dopo trent’anni hanno riformato per il disco un complesso che, dalle loro iniziali, si chiamava WORMS. L’unico che io conosca è il cornettista Ron Miles, che non per caso è l’unico dei sei ad aver fatto una bella carriera lontano da Denver, città che pure ha sempre avuto una buona scena jazzistica.

 Sono tutti bravi, ma il disco  l’ho ascoltato ora facendo dell’altro, ora dormicchiando. Solo gli assoli e gli accompagnamenti del pianista mi hanno procurato un modesto picco d’attenzione. Si chiama Andy Weyl.

 The Chimento Files (Oxman), da «Squirmin’», Capri 74154. Ron Miles, cornetta; Keith Oxman, sax tenore; Andy Weyl, piano; Mark Simon, contrabbasso; Paul Romaine, batteria. Registrato nel novembre 2017.

 Balladesque (Weyl), id.


sabato 20 marzo 2021

Miss Ann (Anthony Braxton)

  Interpretandola in compagnia di Muhal Richard Abrams, Anthony Braxton toglie alla composizione di Eric Dolphy ogni sia pur disallineata leggiadria.   

 Miss Ann (Eric Dolphy), da «Duets 1976 with Muhal Richard Abrams - The Complete Arista Recordings of Anthony Braxton», Mosaic 22. Anthony Braxton, sax alto; Muhal Richard Abrams, piano. Registrato il primo o il 2 agosto 1976

venerdì 19 marzo 2021

1944 Stomp (Don Byas)

 Agosto del 1944: il bebop è nato e ha già assunto tutti i suoi connotati più caratteristici. Don Byas ci si è trovato in mezzo e prenderà parte, pochi mesi dopo con Dizzy Gillespie, ad alcune delle prime incisioni che l’avrebbero rivelato compiutamente al mondo.

  Byas tuttavia non sarebbe mai stato in pieno un bopper, soprattutto per il suo più conservativo approccio ritmico. Nota come riesca qui a tenere il piede in due scarpe anche dal punto di vista compositivo: 1944 Stomp è un temino a riff à la Basie, sensazione rafforzata dal piano di Clyde Hart, ma il bridge, con la sua progressione cromatica discendente di accordi di settima, è puro bebop, così come la riesposizione conclusiva del tema.

  1944 Stomp (Byas), da «Complete American Small Group Recordings», Definitive Records DRCD11213. Charlie Shavers, tromba; Rudy Williams, sax alto; Don Byas, sax tenore; Clyde Hart, piano; Slam Stewart, contrabbasso; Jack «the Bear» Parker, batteria. Registrato il 17 agosto 1944.

giovedì 18 marzo 2021

Livery Stable Blues (Franco D’Andrea)

 Arriva anche Jazz nel pomeriggio, buon ultimo,  a festeggiare gli 80 anni del maggior jazzista italiano (posso sbilanciarmi, è il bello di non avere niente né da perdere né da guadagnare), soprattutto uno dei massimi pianisti jazz viventi, Franco D’Andrea.

 Mi scusa del ritardo il fatto che Jnp non abbia mai lesinato le dovute attenzioni a D’Andrea, teste la «nuvola» qui a fianco. Pubblico un pezzo da un suo lavoro recentissimo e ne approfitto per segnalare l’uscita di un bel libro a lui dedicato, una biografia critica scritta da Flavio Caprera, pubblicata dalla EDT e intitolata «Franco D’Andrea. Un ritratto». Non ho letto molti libri così completi su un jazzista: contiene davvero tutto quanto un appassionato di Franco D’Andrea possa desiderare ed è scritto con vera passione.

 Livery Stable Blues (LaRocca), da «New Things», Parco Della Musica. Mirko Casilino, tromba; Enrico Terragnoli, chitarra; Franco D’Andrea, piano. Registrato nel 2019.


lunedì 15 marzo 2021

Wandering Spirit Song (Herbie Hancock)

 Herbie Hancock lasciò nel 1969 il complesso di Miles Davis, dopo sei anni; l’ultima collaborazione discografica dei due è «In A Silent Way», in cui Herbie è uno di tre tastieristi elettrici (gli altri sono Chick Corea e Joe Zawinul). 

 Non ebbe dunque parte in «Bitches Brew», che per così tanti versi è lo spartiacque fra il jazz degli anni Sessanta e Settanta; eppure  con Mwandishi, la band dal nome swahili a formazione variabile che guidò dal 1971 fino  al 1973, l’anno in cui conquistò con «Headhunters» il successo commerciale, Hancock produsse tre dischi in cui il terreno dissodato da Miles in «BB» si dimostrò ubertoso, fertile di una musica nuova se non addirittura originale: «Mwandishi», 1971, «Crossings», 1972, «Sextant», 1973.

 Ai caratteri funky ed elettronici introdotti sistematicamente da Davis, Hancock aggiunse un suo caratteristico senso atmosferico e del colore e la passione per tutti gli ultimi gadget offerti dall’elettronica alla strumentazione musicale; e, sempre rispetto al Davis di quegli anni, una certa maggiore capziosità metrica (di tre pezzi contenuti in «Mwandishi», l’esordio discografico della band, due pezzi hanno l’unità di tempo di 15).

 Negli anni, alla musica del Mwandishi, ascoltata più volte anche su Jazz nel pomeriggio, si è voluto attribuire un valore profetico, contesta com’è di generi, culture e sonorità diverse di cui la popular music, più ancora che il jazz,  si sarebbe nutrita nelle sue varie declinazioni dei decenni successivi. Una decina di anni fa lo scrittore e musicista Bob Gluck ha dedicato al Mwandishi uno studio molto apprezzato.

 Oggi dal primo disco del Mwandishi senti Wandering Spirit Song, composizione di Julian Priester, un lungo pezzo dalle sonorità suggestive in cui la derivazione da «In A Silent Way» è ancora chiara e così la parentela con una lingua jazzistica grosso modo mainstream.

 Mwandishi significa «compositore» in swahili; tutti i componenti della band sono indicati nel disco anche con un nome swahili.

 Wandering Spirit Song (Julian Priester), da «Mwandishi», Warner Brothers. Mwandishi: Eddie Henderson (Mganga), tromba; Julian Priester (Pepo Mtoto), trombone; Bennie Maupin (Mwile), clarinetto basso, flauto contralto; Herbie Hancock (Mwandishi), piano elettrico, elettronica varia; Buster Williams (Mchezaji), contrabbasso e basso elettrico; Billy Hart (Jabali), batteria; Leon Chancler (Ndugu), percussioni. Registrato nel marzo 1971.


domenica 14 marzo 2021

A Shifting Design – Filters (Kurt Rosenwinkel)

 Dopo quasi undici anni di questo blog, che ha tutto il carattere di un diario e via via anzi sempre di più, non ho tante remore a dichiarare certi miei inappropriati disgusti; i miei ascoltatori, gli stessi di sempre, li conoscono e, o me li hanno perdonati, ovvero, tolleranti, ne sogghignano. Uno, per dire, è che non mi piace troppo Dexter Gordon; un altro, che la musica latin mi annoia, tutta no, ma buonissima parte sì, e pure tanto. Un terzo: mi annoiano anche le chitarre, se non si tratti proprio di Charlie Christian.

 Ma proprio a quest’ultimo proposito… C’è un chitarrista che non seguo, che non ascolto, a cui non penso o se ci penso trovo che abbia molto per non piacermi; poi ogni tanto la sua musica mi capita davanti alle orecchie senza che l’abbia cercata e mi piace, e costui è Kurt Rosenwinkel. Non mi sono mai domandato perché mi attraggano e infine mi incantino la sua sonorità effettata, il suo fraseggiare assorto e a tutta prima anodino, doppiato spesso quasi impercettibilmente dalla voce, la palette uniforme dei suoi complessi e dei suoi dischi, almeno i pochi che conosco io. Non me lo domando nemmeno questa volta. 

 Una cosa posso dirla, ed è che mi piace sempre sentire Mark Turner, e un’altra mi viene in mente mentre scrivo: la sua voce, memore di quella di Warne Marsh, conferisce alla musica e all’eloquio stesso di Kurt Rosenwinkel una luce tristaniana (da Lennie Tristano). In questa luce, appunto, parla chiaro il contrappunto fra i due in Filters. In altri pezzi del disco, p.e. in Use of Light che oggi non ti faccio sentire, l’unisono di chitarra, falsetto di Rosenwinkel e sax tenore nel registro acuto sortisce un effetto decisamente eerie, che conduce il disco verso atmosfere ECM lontane dal mio gusto.

 A Shifting Design (Rosenwinkel), da «The Next Step», Verve 549 162-2. Mark Turner, sax tenore; Kurt Rosenwinkel, chitarra; Ben Street, contrabbasso; Jeff Ballard, batteria. Registrato nel maggio 2000.

 Filters (Rosenwinkel), id.

sabato 13 marzo 2021

Groovin’ High / Whispering (Nick Brignola & Cecil Payne)

  Groovin’ High, classico del bebop composto da Dizzy Gillespie ed eternato in tre dei più bei minuti del jazz su disco, era il tipico contraffatto bebop, un tema basato sulle armonie di una canzone nota, in questo caso Whispering

 In questa esecuzione del 1979, mentre Cecil Payne esegue la melodia di Gillespie, Nick Brignola gli suona sotto Whispering (le note di copertina assegnano i ruoli invertiti). Prendi nota degli assoli dei due baritonisti, Payne il primo: tutti e due adepti del linguaggio bebop ma tanto diversi per suono, fraseggio e intento espressivo che quasi non li diresti neanche suonare lo stesso strumento. 

 Groovin’ High (Gillespie) / Whispering (Schonberger-Schonberger), da «Burn Brigade», Beehive BH 7010. Nick Brignola, Cecil Payne, sax baritono; Walter Davis Jr, piano; Walter Booker, contrabbasso; Jimmy Cobb, batteria. Registrato il 19 giugno 1979.

venerdì 12 marzo 2021

Body and Soul (Chu Berry & Roy Eldridge) RELOAD

                                                Reload dal 20 aprile 2014

 Buona Pasqua. Roy Eldridge è citato sempre
fra i precursori del bebop; sebbene non a pari titolo con lui – o con Charlie Christian o con Lester Young – , soprattutto per ragioni di ritmo, anche Chu Berry dovrebbe essere considerato in quel novero. Charlie Parker lo considerava senza meno «il più grande saxofonista mai esistito» e chiamò come lui (Leon) il suo primogenito.

 Sentilo qui in Body and Soul, palestra proverbiale di inventiva armonica. Nella matrice hawkinsiana (ma quest’esecuzione precede quella leggendaria di Hawkins di alcuni mesi), Chu ha un suono più mellifluo e velato, e individuali sono anche la sottigliezza armonica e l’accorta gradazione della climax espressiva, quest’ultima meno drammatica ed oratoria di quella di Hawkins. Gli fa seguito e bel contrasto espressivo, a tempo doppio, appunto Roy Eldridge.

 Body and Soul (Heyman-Green), da «Little Jazz Trumpet Giant», Properbox 69. Chu Berry & His «Little Jazz» Ensemble: Roy Eldridge, tromba; Chu Berry, sax tenore; Clyde Hart, piano; Danny Barker, chitarra; Artie Shapiro, contrabbasso; Sidney Catlett, batteria. Registrato l’11 novembre 1938.


giovedì 11 marzo 2021

She’s Funny That Way (Jess Stacy & Bud Freeman)

 Jazz nel pomeriggio riappare, come le rondini nunzio di primavera e come loro schivo dal trattenersi a lungo.

 Ritorna con Jess Stacy, quello squisito pianista ascoltato l’estate dell’anno scorso. Stacy suona una una musica che viene da lontano nel tempo ma che sembra venire da ancor più lontano, specie rispetto ad altri pianisti suoi contemporanei, per una sua vena contemplativa e astratta, lievemente linfatica, emotivamente un po’ sbiadita. Impressioni corroborate in questa She’s Funny That Way dal suono e dal fraseggio decisamente arcaici e fuori moda (non è un giudizio di valore, o casomai lo è in senso apprezzativo) di Bud Freeman, un saxofonista del quale non credo di aver mai scritto qui.

 She’s Funny That Way (Moret-Whiting), da «Jess Stacy 1935-1939», Classics 795. Bud Freeman, sax tenore; Jess Stacy, piano. Registrato il 13 giugno 1939.