mercoledì 30 novembre 2016

Waltzing in the Sagebrush – How About You? (Hod O’Brien)

 Jnp di norma non pubblica necrologie; fa eccezione quando il morto è poco noto ma meritevole, e magari sia già comparso sul blog. È questo il caso del pianista Hod O’Brien (Chicago, 1936), che se ne è andato settimana scorsa e che qui abbiamo ascoltato con Roswell Rudd, in una sua bella composizione, e un’altra volta con un suo trio.

 Ripubblico la prima, dove c’è anche Sheila Jordan in grande forma, e vi aggiungo un’altra brillante esecuzione dello stesso trio.

 Waltzing in the Sagebrush (O’Brien), da «Flexible Flyer», [Arista] Black Lion BLCD 760215. Sheila Jordan con Roswell Rudd, trombone; Hod O’Brien, piano; Aril Andersen, contrabbasso; Barry Altschul, batteria. Registrato nel marzo 1974.

 How About You? (Freed-Lane), da «Blues Alley - Second Set», Reservoir RSRCD 180. Hod O’Brien, piano; Ray Drummond, contrabbasso; Kenny Washington, batteria. Registrato il 7 luglio 2004.

lunedì 28 novembre 2016

’S Wonderful – Baby, Won’t You Please Come Home (Bobby Hackett & Jack Teagarden)

 «Jazz Ultimate», «il nec plus ultra del jazz», esprime bene i miei sentimenti nei confronti dei due titolari, Bobby Hackett e Jack Teagarden, qui in compagnia meglio che congeniale.

 ’S Wonderful (G.-I. Gershwin), da «Jazz Ultimate», Capitol 7-933. Bobby Hackett, tromba; Jack Teagarden, trombone; Ernie Caceres, clarinetto; Peanuts Hucko, sax tenore; Billy Bauer, chitarra; Gene Schoeder, piano; Jack Lesberg, contrabbasso; Buzzy Drootin, bateria. Registrato nel 1957.

 Baby, Won’t You Please Come Home (Warfeld-Williams), id. ma Caceres suona il sax baritono.

domenica 27 novembre 2016

Minor Run-Down (Paul Chambers)

 In teoria, visto anche l’anno, questo sarebbe hard bop quintessenziale. Ma poi c’è Tommy Flanagan, un pianista che, non so bene, ma definire semplicemente hard bop non mi viene bene; e c’è Elvin, che qui si comporta da perfetto hard bopper, è vero, ma sapendo che è lui, non lo si può proprio ascoltare come se fosse un Art Taylor o un Louis Hayes.

 Insomma, vedi un po’ tu, comunque è un pezzo tutto da gustare.

 Minor Run-Down (Golson), da «Paul Chambers Quintet», Blue Note TCOJ 7152. Donald Byrd, tromba; Clifford Jordan, sax tenore; Tommy Flanagan, piano; Paul Chambers, contrabbasso; Elvin Jones, batteria. Registrato il 19 maggio 1957.

sabato 26 novembre 2016

Water Torture (Herbie Hancock)

 La versione 45 giri di questo pezzo del periodo Mwandishi di Herbie Hancock, qui con l’esordio del sintetizzatorista Patrick Gleeson, unico in formazione, et pour cause, a non avere un alter ego africano.

 Water Torture (Hancock), da «Crossings», Warner Bros. BS 2617. Eddie Henderson /Mganga, tromba, flicorno, percussioni; Julian Priester/Pepo Mtoto, trombone basso, tenore, alto, percussioni; Bennie Maupin/Mwile, sax alto e soprano, flauto contralto, clarinetto basso, ottavino, percussioni; Herbie Hancock/ Mwandishi, piano, piano elettrico, Mellotron, percussioni; Patrick Gleeson, sintetizzatore; Buster Williams/Mchezaji, contrabbasso, basso elettrico, percussioni; Billy Hart/Jabali, batteria, percussioni. Registrato nel dicembre 1971.

venerdì 25 novembre 2016

The Eraser – Angola, LA & The 13th Amendment (Christian Scott)

 Christian Scott (1983), trombettista di New Orleans, è un nome fra i più segnalati della new wave jazzistica razzialmente connotata, diciamo così.

 Fra gli affezionati di Jnp, a cui sono a mia volta affezionato, c’è di sicuro almeno un suo sostenitore strenuo. Io non trovo ragioni per entusiasmarmi della musica di Scott, che è intelligente, abbastanza piacevole e per me, dopo ben poco, noiosa, perché troppo sollecita di un suono e poco di un linguaggio: come, paradossalmente, certa avanguardia jazzistica che da questa musica sembrerebbe lontanissima, l’una e l’altra preoccupate di presentarsi come oggetti contemporanei. Come strumentista, Scott mi sembra al di sotto di altri trombettisti americani suoi contemporanei come Ambrose Akinmusire, Marquis Hill, Jonathan Finlayson o Sean Jones.

 Il disco è stato registrato, per volontà di Scott, da Rudy Van Gelder.

 The Eraser (Scott), da «Yesterday You Said Tomorrow», Concord Jazz. Christian Scott, tromba; Milton Fletcher jr, piano; Matthew Stevens, chitarra; Kristopher Keith Funn, contrabbasso; Jamire Williams, batteria. Registrato il 30 marzo 2010.

  Angola, LA & The 13th Amendment (Scott), id.

giovedì 24 novembre 2016

Bugle Call Rag – It Had To Be You (Adrian Rollini)

 E poi ogni tanto passa a farci un saluto quel capo ameno di Adrian Rollini con uno dei suoi tanti strumenti più o meno loschi – qui è il sax basso, di cui Rollini rimane il più insigne esponente – e i suoi spensierati arrangiamenti, sempre eseguiti da musicisti di prim’ordine; in It Had senti anche un assolo di Benny Goodman.

 Sempre un piacere sentir cantare la scozzese Ella Logan (1910-1969), che qui ricorda un po’ Ella Fitzgerald giovane; quest’ultimo pezzo è un reload dal 21 ottobre 2015.

 Bugle Call Rag (Pettis-Meyers-Schoebel), da «Adrian Rollini 1934-1938», Retrieval RTR 79042. Jonah Jones, tromba; Sid Stoneburn, clarinetto e sax alto; Adrian Rollini, sax basso; Fulton McGrath, piano; Dick McDonough, chitarra, Al Sidell, batteria. Registrato il 17 marzo 1937.

 It Had To Be You (Jones-Kahn), id. Adrian Rollini And His Orchestra: Manny Klein, Dave Klein, tromba; Jack Teagarden, trombone; Benny Goodman, clarinetto; Arthur Rollini, sax tenore; Adrian Rollini, sax basso; George van Eps, chitarra; Artie Bernstein, contrabbasso; Stan King, batteria; canta Ella Logan. Registrato il 23 ottobre 1934.

mercoledì 23 novembre 2016

I Remember You (Doug Watkins)

 Tre giorni prima di questa registrazione, Doug Watkins (1934-1962) non aveva mai preso in mano un violoncello, Ira Gitler racconta nelle note al disco.

 I Remember You (Schertzinger-Mercer), da «Soulnik», [Prestige] OJCCD-1848-2. Yusef Lateef, flauto; Doug Watkins, violoncello; Hugh Lawson, piano; Herman Wright, contrabbasso; Lex Humphries, batteria. Registrato il 17 maggio 1960.

martedì 22 novembre 2016

Moanin’ – Playboy Theme (Henry Mancini)

 Questa sicuramente è la versione meno funky e più silly (nel senso anche affettuoso che ha l’inglese) del classico di Bobby Timmons. Arrangiata da Henry Mancini come se fosse la incidental music di una di quelle commedie simpatiche con Doris Day e Rock Hudson, ha se non altro il pregio di farci sentire Art Pepper che suona il clarinetto. Io mi diverto a leggervi una spiritosa e acida rivalsa del West Coast jazz – il disco fu registrato a Hollywood – verso l’hard bop newyorkese che già da qualche anno l’aveva seppellito.

 In realtà, come dimostra a usura e fin dal titolo il pezzo successivo, qui dal jazz siamo lontani: si tratta di musica lounge di fattura pregevole, allestita usando alcuni jazzisti della West Coast e alcuni suoni del jazz.

 Moanin’
(Timmons), da «Combo!», RCA Victor LPM-2258. Pete Candoli, tromba; Dick Nash, trombone; Art Pepper, clarinetto; Ted Nash, sax alto e flauto; Ronnie Lang, sax baritono; John Williams, clavicembalo; Bob Bain, chitarra; Rolly Bundock, contrabbasso; Shelly Manne, batteria; Ramon Rivera, conga; Larry Bunker, vibrafono e marimba. Registrato nel giugno 1960.

 Playboy Theme (Mancini), id.

lunedì 21 novembre 2016

Blue Goose (Duke Ellington)

 Io qui non ho parole se non quelle che servono a nominare l’evidenza. Dalla stupefacente introduzione pianistica alla sequenza di assoli (Hodges! Carney!! Webster!!! Cootie Williams!!! Lawrence Brown!!!) ai due ineffabili chorus orchestrali, il primo incredibilmente con il baritono di Carney come lead che emerge e s’immerge nel tessuto orchestrale come un filo di trama, al finale sospeso su una settima minore, questo è uno dei più grandi pezzi di jazz mai confidati al disco.

 Blue Goose (Duke Ellington), da «Never No Lament: The Blanton-Webster Band», Bluebird 82876 50857 2. Wallace Jones, Cootie Williams, tromba; Rex Stewart, cornetta; Joe Nanton, Lawrence Brown, trombone; Juan Tizol, trombone a pistoni; Barney Bigard, clarinetto e sax tenore; Johnny Hodges, sax alto e soprano; Otto Hardwick, sax alto; Ben Webster, sax tenore; Harry Carney, sax baritono; Duke Ellington, piano; Fred Guy, chitarra; Jimmy Blanton, contrabbasso; Sonny Greer, batteria. Registrato il 28 maggio 1940.

domenica 20 novembre 2016

Initiation (Albert Ayler)

 I cinquant’anni trascorsi da queste registrazioni hanno reso più semplice parlare di Albert Ayler o il codice del suo linguaggio è perduto o inaccessibile come quello di altri suoi contemporanei nel catalogo ESP?

 Certo, molte delle stesse loro caratteristiche si applicano ad Ayler e mi piace ricordare come Arrigo Polillo le avesse colte «in tempo reale» con efficacia insuperabile proprio in una cronaca dallo Slugs’ del 1967. La critica spesso ha circoscritto Ayler in qualche formula azzeccata: il suono da Bechet gonfiato oltremisura (Lewis Porter), la glossolalia sostituita alle note (Gary Giddins). Come John  Kruth nelle note di copertina di questa riedizione, noi incliniamo a considerarla «uno strano manufatto del passato, perturbante prima che piacevole». Come per le testimonianze frammentarie di epoche remote o preistoriche o per i frammenti «archeologici» dell'inconscio, l'importanza di questa musica è più chiara se la considera mezzo per ricuperare un’esperienza che altrimenti sfugge, di cui non costituisce che un aspetto e che in qualche modo è rimasta inconclusa: proprio come questi pezzi, che cominciano e finiscono nel nulla.

 È ormai tardi per il mondo, ebbe a dire Albert Ayler, artista apocalittico: i colori accesi della sua musica restano i più allarmanti del periodo ed è questo il carattere che più consuona con gli umori del mondo, a tanti anni di distanza. La band trae grande partito dal violino dell’olandese Michel Samson, usato anche come valvola di decompressione, per esempio qui in Initiation in un raro momento di relax, e dalla percussione tempestosa ma musicale di Ronald Shannon Jackson.

 Initiation (Ayler), da «At Slugs’ Saloon», ESP 4025. Donald Ayler, tromba; Albert Ayler, sax tenore; Michel Samson, violino; Lewis Worrell, contrabbasso; Ronald Shannon Jackson, batteria. Registrato il primo maggio 1966.

sabato 19 novembre 2016

Things Ain’t What They Used To Be (Booker Little) RELOADED

Reload dal 13 aprile 2011. 

 Senti questa: un’esecuzione del blues di Duke Ellington da parte di cannoni come il grandissimo Booker Little, titolare della seduta, Frank Strozier, Louis Smith, George Coleman e Phineas Newborn: pregevolissima, come è lecito aspettarsi, ma insomma, niente più che una parata di begli assoli.

  Sì, se non fosse per un particolare: le quattro battute d’introduzione, che riprendono le ultime quattro del tema, Little le ha arrangiate per tre voci in quarte parallele, la prima delle quali aumentata, che è un voicing dissonante anzi bitonale, estraneo alla cordialità della composizione:
  
  Questo dispositivo armonico estende su quanto segue una specie di velo, un tono asprigno, una distanza; è lo stesso voicing a cui Booker ricorrerà quasi sistematicamente negli ultimi suoi due dischi, sconcertanti e sublimi, «Out Front» e «Victory and Sorrow», entrambi incisi l’anno della sua morte (1961).

  Things Ain’t What They Used To Be (Ellington), da «Booker Little 4 & Max Roach», Blue Note CDP 7 84457 2. Booker Little, Louis Smith, tromba; Frank Strozier, sax alto; George Coleman, sax tenore; Phineas Newborn, piano; Calvin Newborn, chitarra; George Joyner, contrabbasso; Charles Crosby, batteria. Registrato nel 1958 o ’59.

venerdì 18 novembre 2016

John’s Delight (Tadd Dameron)

 Su Tadd Dameron, quieto eroe del jazz moderno la cui importanza si è mostrata con il passare degli anni, ho detto quello che avevo da dire qui.

 John’s Delight è una composizione di 32 battute in forma AA’, dunque senza bridge, dove gli assoli si svolgono sulla sola sequenza  A; la A’, che prevede anche un break di due battute, riempito la prima volta dalla chitarra e la seconda dalla batteria, torna solo come outchorus. Il terzo chorus, dopo gli assoli di chitarra e di trombone, è stupendamente arrangiato omoritmicamente per la front line al completo; singolare, quasi minaccioso, è anche l’assolo di piano che segue, in cui Dameron trae ottimo partito anche dalle sue modeste doti di pianista, quasi parodizzando con un’ostentata flatted fifth il lessico bebop. Nota anche la bellezza delle otto battute di intro e come da lì, con soluzione insolita di arrangiamento, la chitarra si unisca ai fiati nell’esecuzione del tema.

 Il John del titolo immagino che sia il chitarrista Collins, presente come chitarrista ritmico in tanti dischi, soprattutto di Nat King Cole, e che qui dà una bella prova da solista.

 John’s Delight (Dameron), da «Strictly Bebop», Capitol M-11059. Miles Davis, tromba;  J.J. Johnson, trombone;  Sahib Shihab, sax alto; Benjamin Lundy, sax tenore; Cecil Payne, sax baritono; Tadd Dameron, piano; John Collins, chitarra; Curley Russell, contrabbasso; Kenny Clarke, batteria. Registrato il 21 aprile 1949.

giovedì 17 novembre 2016

Conversation (Max Roach)

 E qui c’è un’interessante intervista del 1986 di Max Roach con Ben Sidran.

 Conversation ( Roach), da «Deeds, Not Words», [Riverside] OJC 20 304-2. Max Roach, batteria. Registrato il 4 settembre 1958.

mercoledì 16 novembre 2016

Chemical Intuition (Steve Coleman)

 Iersera ho ascoltato sulla Radiotré il concerto di Steve Coleman & Council of Balance in diretta dal teatro Duse di Bologna. La faccio breve: mi sono piuttosto annoiato. Non tanto tanto, un po’.

 L’organico era simile a quello che alcuni anni fa aveva registrato «Functional Arryhtmias» e la musica è anche simile. Ho ripreso il disco e, pur trovandolo più stimolante dell’esibizione di Bologna, non mi ha destato il quasi entusiasmo che evidentemente avevo provato quando lo ascoltai per la prima volta, per raccomandazione di Stefano Zenni, e te presentai anche un pezzo. A due anni di distanza, è musica che mi appare grosso modo sulla linea di quello che nel frattempo ho ascoltato, ma questo sì davvero senza alcun entusiasmo, di Steve Lehman, dico prima della sua ultima svolta hip hop (considerazione puramente sincronica, eh: so bene che, casomai, è Lehman che ha preso da Coleman).

 Coleman, tuttavia, è musicista di gran pezza superiore a Lehman sotto ogni rispetto, e la musica di «Functional Arrhythmias» mi sembra superiore a quella di Bologna. Ma è musica gelida e speculativa, com’è del resto nell’indole di Coleman, ed è musica del genere di cui io, in questo momento, non so molto che cosa fare.

 Chemical Intuition (Coleman), da «Functional Arrhythmias», PI Recordings PI47. Jonathan Finlayson, tromba; Steve Coleman, sax alto; Miles Okazaki, chitarra; Anthony Tidd, basso elettrico; Sean Rickman, batteria. Registrato nel maggio 2012.

martedì 15 novembre 2016

Dancing In The Dark – Stallion (The Jazz Modes) RELOADED

Reload dal 5 novembre 2012. 

 Scrisse Bill Simon nelle note di copertina originali di questo disco (1956): «Grazie alla sua padronanza del corno, Julius Watkins può ben sostenere di aver aggiunto una voce nuova al jazz moderno».

 Non andò proprio così. Il corno avrebbe bensì trovato posto come strumento di sezione nelle compagini più estese. Gil Evans aveva cominciato ad adoperarlo già negli anni Quaranta per l’orchestra di Claude Thornhill, e non avrebbe mai smesso d’impiegarlo in seguito; lo si ritrova spesso nelle partiture di Quincy Jones e altri arrangiatori dagli anni Cinquanta in poi. È un colore essenziale, fra l’altro, dell’orchestra arrangiata da Eric Dolphy per «Africa/Brass» di Coltrane.

 Ma il corno era troppo ingrato per affermarsi veramente come strumento solista, anche nelle mani talentuose di un Julius Watkins (senz’altro il cornista numero uno nel jazz) o, oggi, di un Tom Varner: il suono, alonato e distante e per ciò tanto amato dai compositori del Romanticismo, manca del punch richiesto dalla maggior parte del jazz moderno, l’intonazione è per meccanica dello strumento difettiva e le agilità, per queste due ragioni, restano problematiche.

 Ciò non toglie che Watkins (1921-1977) fosse un fior di musicista, impiegato in un paio di occasioni discografiche da Monk e una volta anche da Hampton Hawes. Il principale progetto musicale a suo nome è il quintetto dei Jazz Modes, co-diretto per pochi anni e con scarsa fortuna con Charlie Rouse. La mezza dozzina di dischi che il complesso ha lasciato è interessante anche se non memorabile (di memorabili ci sono tutti gli assoli di Watkins e molti di Rouse); si tratta di musica elegante, quando non cede al lezioso, ed eseguita benissimo, ma che a tratti richiama il jazz californiano di pochi anni prima senza averne il relax. È comunque bello il brio di una Dancing in the Dark più veloce del consueto e in cui il timbro diffuso e indistinto del corno è messo a ottimo profitto contro quello astringente del tenore di Rouse.

 Fra i meriti di questi dischi c’è anche quello di proporre Gildo Mahones, uno degli ultimi pianisti di Lester Young, qui sopra già sentito con Bennie Green e con Charlie Rouse, che contribuisce anche con alcune elaborate composizioni.

 Dancing in the Dark (Schwartz-Dietz), da «The Complete Jazz Modes Sessions», Solar Records 456991. Julius Watkins, corno; Charlie Rouse, sax tenore; Gildo Mahones, piano; Paul West, contrabbasso; Art Taylor, batteria. Registrato nel giugno 1956.

 Stallion (Mahones), ib. Watkins, Rouse, Mahones; Paul Chambers, contrabbasso; Ron Jefferson, batteria. Registrato il 12 giugno 1956.

lunedì 14 novembre 2016

Spontaneous Combustion (Hank Jones)

 Questo è un post parzialmente di riparazione. Tempo fa ho pubblicato una delle poche prestazioni subpar del glorioso Hank Jones, e l’ho rilevata in modo che ora mi sembra un po’ cafone: non ce n’era davvero bisogno, e comunque l’assolo non era indecoroso. A chi non capita quel quarto d’ora di svoglia?

 Eccolo adesso nel pieno dei suoi mezzi. In più, al flauto, c’è Bobby Jaspar (1926-1963), un belga di grande promessa che brillò brevemente anche in USA, dove sposò la cantante Blossom Dearie, prima di sfinirsi di eroina.

 Spontaneous Combustion (Adderley), da «Hank Jones’ Quartet», Savoy MG 12087. Bobby Jaspar, flauto; Hank Jones, piano; Paul Chambers, contrabbasso; Kenny Clarke, batteria; Registrato il 21 agosto 1956.

domenica 13 novembre 2016

Lady Jane – Mother’s Little Helper (Joe Pass)

 Joe Pass alle prese con i Rolling Stones nel 1966: «necessity is the mother of invention» o, per dirla col Folengo, necessitas aguzzat ingegnum. Gli arrangiamenti per trombone choir di Bob Florence limano alquanto la vivida rozzezza degli originali e per quanto mi riguarda, poco appassionato come sono degli Stones, li migliorano.

 Lady Jane (Jagger-Richard), da «The Stones Jazz», World Pacific WP-1854. Joe Pass con Milt Berhnardt, Dick Hamilton, Herbie Harper, Gale Martin, trombone; Dennis Budimir, chitarra; Bob Florence, piano e direzione; Ray Brown, contrabbasso; John Guerin, batteria; Victor Feldman, percussioni. Registrato il 20 luglio 1966.

 Mother’s Little Helper (Jagger-Richards), id.

sabato 12 novembre 2016

Unit 7 (Harold Danko & Rich Perry)

 Rich Perry (Cleveland, 1955) è, come Jerry Bergonzi sentito due giorni fa, un saxofonista tenore bianco della generazione di mezzo, meno noto di Bergonzi o, non so, di Joe Lovano, tuttavia interessante.

 Qui te lo faccio sentire in un disco a nome dell’eccellente Harold Danko, apparso qua una volta in duo con Konitz e che ha voluto intitolare questo disco all’occasionale front line. Non dico che Perry sia per tutti i gusti, frammentario, armonicamente ricercato e poco sollecito di piacevolezze com’è (nota come, nel blues Unit 7, riesca a evitare le più apparentemente inevitabili cadenze melodiche); la sua sonorità nebbiosa, memore ora di Warne Marsh ora, curiosamente, di Hank Mobley, e il modo di porgere in certo modo rinunciatario, con i finali di frase sempre aperti e «sfilacciati», ne fanno comunque una presenza inconfondibile nel panorama del sax tenore.

 Unit 7 (Sam Jones), da «Oatts & Perry», SteepleChase SCCD 31588. Dick Oatts, sax alto; Rich Perry, sax tenore; Harold Danko, piano; Michael Formanek, contrabbasso; Jess Hirschfeld, batteria. Registrato nell’aprile 2005.

venerdì 11 novembre 2016

Susette – Bassing Around (Joe Newman & Zoot Sims)

 Beh, che cosa vuoi che ti dica di un disco così: è bello. Oscar Pettiford vi figura con rilievo non minore dei due titolari Newman e Sims e Bassing Around è tutta per lui. Sugoso anche il pianista Acea.

 Susette (Acea), da «Locking Horns», [Rama] Fresh Sound FSR-CD 34. Joe Newman, tromba; Zoot Sims, sax tenore; Adriano «Johnny» Acea, piano; Oscar Pettiford, contrabbasso; Osie Johnson, batteria. Registrato il 10 aprile 1957.

 Bassing Around (Johnson), id.

giovedì 10 novembre 2016

With Reference (Jerry Bergonzi)

 Jerry Bergonzi dichiara fin dal titolo di questo disco disco la natura pura, di studio, della sua ricerca musicale, personificata nel corpo (e nel suono corporeo, dalla superficie organica e cangiante) del suo strumento. La musica profitta della presenza della chitarra di John Abercrombie al posto del pianoforte: l’astrattezza di temi e svolgimenti trova un cachet sonoro più appropriato. In With Reference il «riferimento» è ai duetti Marsh-Konitz o ancora meglio Marsh-Ted Brown. Warne Marsh è un’influenza qui più del solito avvertibile nello stile di Bergonzi.

 With Reference (Bergonzi), da «Tenorist», Savant SCD 2085. Jerry Bergonzi, sax tenore; John Abercrombie, chitarra; Dave Santoro, contrabbasso; Adam Nussbaum, batteria. Registrato il 21 dicembre 2006.

mercoledì 9 novembre 2016

Self-Portrait in Three Colors – Pithecanthropus Erectus (Steve Lacy)

 Steve Lacy aveva fra le molte una qualità non ovvia: era un interprete rispettoso e sensibile, ma sempre fantasioso, della musica di altri jazzisti, come dimostrò tante volte con Ellington, con Monk (soprattutto con Monk) e come qui dimostra con Mingus, di cui suona composizioni quasi tutte notissime. Non ho idea se Pithecanthropus Erectus sia stato mai ripreso da altri.

 Questo disco registrato dal vivo a Parigi ci fa anche ascoltare il pianista Eric Watson in un’atmosfera e in un ruolo diversi da quelli in cui l’abbiamo qui sopra già sentito (l’ultima volta giusto un anno fa) e a momenti in umore giustamente malwaldroniano.

 Self-Portrait in Three Colors (Mingus), da «Spirit Of Mingus», FRLCD 016. Steve Lacy, sax soprano; Eric Watson, piano. Regstrato nel dicembre 1991.

 Pithecanthropus Erectus (Mingus), id.

martedì 8 novembre 2016

Jeannine – Donna Lee (Teddy Edwards)

 Un altro sax tenore la cui notorietà non è all’altezza del talento, dopo James Clay due giorni fa, è Teddy Edwards, come Clay californiano, a cui però Jnp non ha negato negli anni attenzioni. Attenzione anche a Ronnie Matthews.

 Jeannine (Duke Pearson), da «Ladies Man», HighNote HCD 7067. Eddie Allen, tromba; Teddy Edwards, sax tenore; Ronnie Matthews, piano; Chip Jackson, contrabbasso; Chip White, batteria. Registrato il 17 maggio 2000.

 Donna Lee (Davis), id.

lunedì 7 novembre 2016

Wrap Your Troubles In Dreams - Humoresque (Don Byas)

 Mi sembra che Don Byas ed Erroll Garner vadano insieme a pennello.

 Wrap Your Troubles In Dreams (Koehler-Moll-Barris), da «Tenor Giant», Drive Archive DE2-42447. Don Byas, sax tenore; Erroll Garner, piano; Slam Stewart, contrabbasso; Harold «Doc» West, batteria. Registrato il primo novembre 1945.

 Humoresque (Dvorak), id.

sabato 5 novembre 2016

Changes (Paul Whiteman) RELOADED

L’egida del blog è «tutti i giorni un pezzo di jazz» e non intendo venirvi meno in favore di critica d’arte amatoriale, per giunta sociologizzante. Resto nell’ambito del riciclo di roba vecchia con un reload dal 24 agosto 2014 del tutto incongruo.

 Fino a pochi anni fa, Paul Whiteman era l’Uomo Nero delle storie del jazz, il  bianco grassatore ed edulcoratore dell’Arte Nera, incarnazione di uno stereotipo che, mutate le mutande, va forte anche oggi, magari con Manfred Eicher della ECM messo al posto di Whiteman: l’importante è avere sottomano un plausibile cattivo, un white man (Eicher poi è addirittura tedesco, figurarsi).

 In realtà Whiteman era un esperto musicista le cui orchestre, grazie al lavoro di arrangiatori come Bill Challis, di cui sentiamo qui un esemplare, hanno dato contributi laterali ma significativi alla nascita del jazz orchestrale. Whiteman impiegò spesso jazzisti di vaglia: in questa formazione del ’27, Bix Beiderbecke, che ha un breve assolo, e i fratelli Dorsey, oltre che Bing Crosby (cantante importantissimo, oggi ingiustamente dimenticato).

 Changes («sequenza armonica») riflette spiritosamente sul  materiale musicale: la melodia, tramite arguti ritardi, presenta delle audacie armoniche, mentre all’inizio del bridge l’armonia modula, con effetto sorprendente, con un salto di terza maggiore.

 Changes (W. Donaldson), da «Changes», MJCD 1135. Paul Whiteman and His Orchestra: Bix Beiderbecke, cornetta; Henry Busse, Charlie Margulis, tromba; Tommy Dorsey, Wilbur Hall, trombone; Jimmy Dorsey, Charles Strickfaden, Nye Mayhew, sax alto e baritono; Chester Hazlett, Jack McLean, sax alto; Kurt Dieterle, Mischa Russell, Matty Malneck, Mario Perri, violino; Harry Perrella, piano; Mike Pingitore, banjo; Mike Trafficante, tuba; Steve Brown, contrabbasso; Harold McDonald, batteria; Bing Crosby e coro: Jack Fulton, Charles Gaylord, Austin Young, Al Rinker, Harry Barris. Arrangiamento di Bill Challis. Registrato il 23 novembre 1927.

[Extraxurricolare] Basquiat a Milano 2006, 2016

 Al MUDEC, Museo delle culture di Milano, sarà aperta fino a tutto febbraio venturo un’ampia mostra restrospettiva del pittore afroamericano Jean-Michel Basquiat. Al di là dell’interesse intrinseco, che mi pare più culturale che artistico, la mostra rileva a questo blog perché l’artista aveva rapporti stretti con il jazz, espliciti ed impliciti.

 Esattamente dieci anni fa la Triennale di Milano aveva dedicato a Basquiat una mostra analoga, tanto che la ripetizione un po’ mi sorprende; non so confrontarla con la presente perché questa ancora non l’ho vista né sono certo che ci andrò. All’epoca, su un altro blog che tenevo e che non c’è più, ne scrissi una breve nota in cui fra l’altro esprimevo un entusiasmo che non credo riproverei oggi. La riporto qui perché mi sembra comunque abbastanza centrata; l’avevo intitolata Jazz sbagliato alla mostra di Basquiat.

 Questa mattina [31 dicembre 2006] ho visitato la mostra retrospettiva del pittore statunitense Jean-Michel Basquiat alla Triennale di Milano, al parco Sempione (che, per inciso, si è giovato molto della recente ristrutturazione e di un più accurato mantenimento ed è ora il parco più piacevole di Milano. Sì, non ha certo una gran concorrenza…). Resterà aperta fino al 28 gennaio 2007.

    La mostra, a cura di Gianni Mercurio e intitolata The Jean-Michel Basquiat Show, completa un trittico che ha visto retrospettive accurate di Andy Warhol (due anni fa) e di Keith Haring (l’anno scorso). La mostra di Warhol compendiava bene un personaggio sfuggente; quella di Haring, per me che ne avevo un’idea vaga, era affascinante.

    Ma questa di Basquiat, afroamericano di Brooklyn con radici a Portorico e Haiti, mi ha addirittura entusiasmato. In questo blog mi impongo (me lo impone la pigrizia, anzi) di limitare l’off-topic, quindi sarò allo stretto proposito conciso: l’eredità africana-americana di Basquiat, a quasi vent’anni dalla sua morte  si mostra – ai miei occhi, almeno – incomparabilmente più ricca, feconda, profonda e articolata di quella del quasi coetaneo e sodale Keith Haring, bianco che più bianco non si può. Questo si deve a molte ragioni: prima, la differenza etnica, quindi culturale (eh sì); un’altra, più sottile, l’essere Basquiat pittore in un senso molto tradizionale, come Haring non è né ha mai voluto essere (e non ne faccio una questione di talento, perché non credo che Basquiat sia pittore di grande talento). Basquiat non è un artista pop: non usa, se non molto raramente e radicalmente trasfigurati, elementi dell’ambito pubblicitario, industriale, della televisione, del fumetto, della pop culture insomma (e quando questo avviene, in un paio di collaborazioni con Warhol, la sua caratteristica espressività si raffredda subito). I lavori modulari, ricercatamente formulari e riproducibili di Haring decorano e decoravano, lui ancora vivente,  servizi da tè, piastrelle, teli da spiaggia e magliette; è impensabile che questo accada mai con Basquiat, che forgia personalmente gli elementi linguistici del proprio universo espressivo, i quali non si trovano pre-dati in un repertorio visuale comune e non possono quindi essere tolti dal loro contesto e riusati; questo non leva niente al suo rapporto fortissimo con le immagini della realtà. In qualche modo, Haring (e Warhol prima di lui, per limitarci a quel milieu newyorkese) erano cronisti-saggisti integrati nel mondo e nei processi produttivi che descrivevano; Basquiat è un narratore, un romanziere le cui opere vivono di più livelli, ma, in quanto narratore, necessariamente un po’ – o molto – al di fuori: ed è anche questo un marchio della razza e qualcosa che ne rende il lavoro politico in una misura sconosciuta a Haring (o a Warhol).

    Vengo ora al punto di querela, di cui al titolo di questo post: Basquiat era un jazzofilo. Nelle sue dichiarazioni ricorrono  i nomi di Charlie Parker e di Louis Armstrong; cosa ben più importante, ricorrono nei suoi quadri i loro nomi, i titoli dei loro pezzi (di Armstrong soprattutto, e anche del classico bluesman Robert Johnson); Armstrong, stilizzato, compare raffigurato in due o tre occasioni.
    Ebbene, la colonna sonora della mostra (oggi chi rinuncia al multimedia?) si compone di Straight No Chaser e Milestones da «Milestones» di Miles Davis, Spiritual di Coltrane dal «Live At Village Vanguard» e da un Jimi Hendrix che non ho saputo identificare. Ora, sarebbe bastato leggere i titoli che Basquiat ha inscritto profusamente in tanti dei quadri presenti alla Triennale per comporre senza sforzo alcuno una colonna sonora appropriata. Quella del Jean-Michel Basquiat Show non si giustifica nemmeno per essere le musiche contemporanee all’attività del pittore, nato nel 1960: «Milestones» è del 1958, «Live At Village Vanguard» del 1961, Hendrix dei tardi anni Sessanta.

    Sono pedante? Non credo, perché la mostra è bella e ben curata sotto ogni altro aspetto e dispiacciono queste disattenzioni (un’altra è l’orribile, sgrammaticato italiano nei sottotitoli di un documentario), che non sono secondarie vista l’importanza della musica per l’artista. Fra l’altro Basquiat, che trafficava col clarinetto, nel 1983 incise anche un disco, di cui alla Triennale è esibita la copertina: non sarebbe stato interessante diffonderne qualche po’?


venerdì 4 novembre 2016

Eighty-One (Miles Davis)

 Primo disco in studio, 1965, del secondo quintetto di Miles Davis. Eighty-One è un blues accreditato al leader e a Ron Carter che alterna un «quattro» swingante a un tempo latin.

 Eighty-One (Carter-Davis), da «E.S.P.», Columbia CK 65683. Miles Davis, tromba; Wayne Shorter,  sax tenore; Herbie Hancock, piano; Ron Carter, contrabbasso; Tony Williams, batteria. Registrato nel gennaio 1965.

giovedì 3 novembre 2016

‪Wachet auf, ruft uns die Stimme (Tootie Heath)

 Il Preludio corale per organo Wachet auf, ruft uns die Stimme‬ BWV 645 («Svegliatevi, la voce ci chiama»), che origina dalla cantata BWV 140, è eseguito qui grosso modo alla lettera, essendo difficile potervi togliere o aggiungere – è Bach, perbaccho (la terza voce è frutto di overdubbing).
 La cosa più bella, come scrive nelle note il pianista della seduta Ethan Iverson, è «lo stupefacente lavoro di spazzole “in stile tergicristallo”» di Tootie Heath.

Wachet auf, ruft uns die Stimme (J.S. Bach), da «Philadelphia Beat», Sunnyside SSC 1403. Ethan Iverson, piano; Ben Street, contrabbasso; Albert «Tootie» Heath, batteria. Registrato nell’ottobre 2014.

mercoledì 2 novembre 2016

Fools Rush In [Where Angels Fear To Tread] (Brew Moore)

 Milton Aubrey «Brew» Moore (1924-1973) era quel tale – bianco, del Mississippi – che diceva che «chi non suona come Lester Young, si sbaglia». Lui certo non si sbagliava, e suonava anche molto bene, vicino a Pres in maniera moderna e non servile, in quegli anni gremiti di saxofonisti tenori giovani, bianchi, di talento e tutti lesteriani sfegatati: oltre a Moore, Stan Getz, Zoot Sims, Al Cohn, Allen Eager, Don Lanphere, Bill Perkins e ne dimentico senz’altro.

 Lo accompagna qui un trio di oscuri di San Francisco, dove Moore all’epoca viveva e che, con un trombettista che qui non suona, costituivano la sua working band. La canzone di Johnny Mercer prende titolo da un verso di Alexander Pope (da An Essay on Criticism).

 Fools Rush In [Where Angels Fear To Tread] (Mercer-Bloom), da «The Brew Moore Quintet», Fantasy OJCCD-100-2. Brew Moore, sax tenore; John Marabuto, piano; Max Hartstein, contrabbasso; Gus Gustofson, batteria. Registrato il 22 febbraio 1956.

martedì 1 novembre 2016

What Is This Thing Called Love? (James P. Johnson) RELOADED

Reload dal 28 luglio 2010.
 Da James P. Johnson, massimo rappresentante dello stride piano e uno dei maggiori pianisti di jazz, ecco la prima versione mai registrata di questa celeberrima canzone di Cole Porter, incisa l’anno dopo la sua pubblicazione. 

 Alle nostre orecchie, avvezze a migliaia di interpretazioni moderne, potrà sembrare strana, cupa o addirittura truculenta nei suoi accenti così marcati; in realtà James P. Johnson è più vicino al testo di chiunque, data anche l’ovvia vicinanza temporale alla composizione: nota fra l’altro come ne esegua il verse, cioè la strofa, non si limitandosi al chorus secondo la prassi moderna; quindi, come improvvisi mantenendosi strettamente accosto alla melodia.
What Is This Thing Called Love? (Porter), da «King Of Stride Piano 1918-1944», Giant Of Jazz Recordings. James P. Johnson, piano. Registrato nel gennaio 1930.

Steeplechase (Jackie McLean & Bill Hardman)

 Bill Hardman (1932-1990) è stato un trombettista dell’hard bop valoroso e anche piuttosto riconoscibile, con una caratteristica articolazione lievemente staccata. Non fu fortunato, però. Suonò in tre diverse riprese con i Jazz Messengers e arrivò a registrare con loro un disco memorabile, quello che testimonia l’incontro dei Messengers con Monk, il quale nell’occasione trovò modo di umiliarlo, ma continuò a restare in ombra relativa; credo che abbia inciso ben poco a proprio nome.

 Eppure aveva esordito sotto buoni auspici, nel 1956 per la Prestige; il suo coetaneo Jackie McLean, già relativamente affermato, gli fece da sponsor tanto da associarselo nell’intitolazione di questo suo disco, sulla cui copertina i due compaiono in atteggiamento cameratesco. Tipica seduta Prestige con Mal Waldron, in quegli anni quasi lo house pianist della casa.

 Steeplechase (Parker), da «Jackie’s Pal», Prestige LP 7068. Bill Hardman, tromba; Jackie McLean, sax alto; Mal Waldron, piano; Paul Chambers, contrabbasso; Philly Joe Jones, batteria. Registrato il 31 agosto 1956.