La rubrica del guest post in quasi sei anni ha radunato contributi che sono le cose migliori presenti su questo blog, opera di poeti, critici, appassionati cultori tutti di ottima penna. Mancava un musicista, ed ecco a colmare la lacuna Alberto Forino, abituale commentatore e soprattutto pianista e compositore non solo di jazz, nonché didatta; il guest post che ha scritto, secondo me solo un musicista lo poteva fare.
Se non sbaglio dovremmo sentire Forino a Milano nel mese di maggio.
«If a guy needs a little spark, a boost, he can just be around Monk, and Monk will give it to him».
John Coltrane, «Down Beat», 1960.
Quando ho dovuto arrovellarmi nella scelta di un brano da proporre per il guest post di questo illustre spazio ho seguito il consiglio del buon Trane.
Credo sia superfluo per i lettori di questo blog ribadire i pregi e l’importanza di un musicista come Thelonious Monk, anche perché è stato già ampiamente ascoltato, discusso, trattato, analizzato e lodato. Allo stesso modo mi pare ancora più superficiale raccontare l’evidente, cristallina, profonda e incontaminata bellezza che scaturisce dalla sua musica.
Il brano è stato registrato durante una tournée in Europa nel 1965. Il quartetto vede Monk al piano con Charlie Rouse al sax tenore, Larry Gales al basso e Ben Riley alla batteria.
Dopo l’introduzione di Riley e l’esposizione del tema, il sax comincia a destreggiarsi sull’accompagnamento irruento di Monk che, come spesso accade, non vuole che nessuno si dimentichi cosa si sta suonando. Improvvisamente il sax si trova da solo a muoversi liberamente sull'accompagnamento di contrabbasso e batteria, il piano è in silenzio.
Ma è dopo il solo di Rouse, seppur sempre meritevole, che inizia qualcosa che ad ogni ascolto non finisce mai di stupirmi.
Monk riprende il tema (3:20), lo espone di nuovo con qualche piccola variazione accordale ma rimanendovi piuttosto fedele. Inizia poi ad inserire una variazione dopo l’altra sempre nel suo stile spigoloso e swingante. Le idee si inanellano inesorabili ma riportano sempre a frammenti di tema, miracolosamente, senza forzature: ora anticipati, ora modificati ritmicamente, ora inghiottiti in cluster dissonanti.
Dopo tre minuti di arpeggi, accordi, note ribattute, riff poliritmici e variazioni di un tema estremamente essenziale dal punto di vista melodico e armonico, a 6:00 l’assolo di pianoforte potrebbe tranquillamente essere finito.
Ma ecco l’idea! La nota grave finale del tema, spostata.
Il piano che risuona nel registro grave e attende, gioca, salta fuori all'improvviso come raccontava Mingus del modo di suonare di Monk.
Poi aspetta ancora.
Non molla quell’idea, no. Aspetta ancora.
Si inventerà qualcosa d’altro, forse.
No, ancora quella nota grave.
Poi silenzio.
Solo una nota acutissima a raddoppiare il basso arricchisce il timbro ma non cambia il gioco: attesa-agguato.
Ancora.
Ogni silenzio è un brivido, l’eccitazione cresce. Fino a quando?
A 7:54 finisce con una nota ben marcata e il contrabbasso lasciato da solo a terminare il giro. Assolo di batteria, esposizione finale, fine.
In quei due minuti Monk ci tiene con le orecchie tese ad ascoltare lui che non suona e ad aspettare. Un’attesa inebriante e piena di desiderio. Con una nota. Ripetuta. E un sacco di silenzio vibrante attorno.
In una conferenza a Vienna negli anni ’30 Anton Webern parlava di coerenza e ripetizione per la comprensibilità di un discorso musicale: «... da questo semplice fenomeno, da questa idea di dire qualcosa due volte, più volte, il maggior numero di volte possibile, per farsi capire, si sono originate opere di grande valore artistico... ».
Nella produzione monkiana ci sono molte cose che tornano, girate in un modo o nell’altro, montate e smontate, come se quasi fosse tutto una grande composizione. Basta osservare i temi o ascoltarlo autocitarsi con un tema in un solo di un pezzo diverso. Questa è la coerenza più radicale!
Ora io non so se ho capito il discorso di Monk, che di coerenza e ripetizione ha fatto consapevolmente o no un caposaldo di tutta la sua carriera e della sua opera. Quello che so è che ogni volta che lo ascolto mi sento un po’ più felice.
Jackie-ing (Monk), da «Thelonious Monk - April In Paris», Bandstand (J) TKCB-30143. Charlie Rouse, sax tenore; Thelonious Monk, piano; Larry Gales, contrabbasso; Ben Riley, batteria. Registrato il 23 maggio 1965.«Con le dita adesso… le metti lì sui tasti, sbatti e viene fuori la musica che va nelle orecchie alla gente». Mago Forrest
7 commenti:
"Quello che so è che ogni volta che lo ascolto mi sento un po' più felice". Anch'io, anch'io.
E chi lo sapeva che scrivevi così bene... mi hai fatto scoprire un nuovo (per me ovviamente XD) musicista! Grazie!!!!
un testo quasi thriller. bravo
Grazie a tutti, soprattutto a Marco, per l'ospitalità e questo prezioso blog! :)
Maestro musico e analitico con maestria ... grazie di suonare con me ogni tanto
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