Ho scritto questo pezzetto, con altri simili, per una rivista che l’anno scorso ha avuto vita meno che breve, ed è stato un peccato; al che puoi imputare un certo didascalismo di norma estraneo a Jnp, che si rivolge a lettori evoluti. Absit iniuria.
A dare retta alle storie del jazz, nella vicenda della musica ogni momento procede come di necessità biologica, evolutiva, dal precedente, e ne è spiegato. Eppure, nel jazz come in tutte le altre storie, si dànno opere alle quali è difficile trovare precedenti prossimi o lontani. Nel caso di «Out To Lunch» potremmo dire lo stesso del suo autore. Eric Dolphy, morto trentaseienne sei mesi dopo quest’incisione, si era fatto notare con Chico Hamilton e poi con Charles Mingus e Ornette Coleman, con i quali prese parte a imprese leggendarie, quindi con John Coltrane, nonché come solista di sax alto, clarinetti e flauto in molti dischi con gruppi proprî, nonché in esperimenti di Third Stream che tentarono di fondere prassi e scrittura concertistica “europea” con l’improvvisazione jazzistica.
Ma all’inizio del 1964, con l’hard bop da una parte e dall’altra la New Thing al calor bianco (Shepp, Taylor, Ayler e i prodromi della conversione coltraniana all’informale che sarebbe deflagrata l’anno dopo in «Ascension»), da dove diavolo veniva una cosa come «Out To Lunch»? La cui alienità al contesto, oltretutto, era denunciata già dal titolo, che significa sì «in pausa pranzo», ma anche «bislacco», «non proprio a posto» se non addirittura «un po’ scemo». Dolphy raduna qui una all-stars – Freddie Hubbard alla tromba, Bobby Hutcherson al vibrafono, Richard Davis al contrabbasso e Tony Williams alla batteria, manca il pianoforte – tutta di scuderia Blue Note, musicisti avanzati ma nessuno propriamente ascrivibile al free, e l’adibisce a composizioni capziose, ora angolose ora limpidamente impressionistiche (in Gazzelloni sentiamo il suo flauto; Hat And Beard è un ritratto cubista di Monk; Straight Up And Down s’inizia con una stralunata movenza funky), precise e al tempo stesso a maglie larghe, in cui l’improvvisazione è libera ma indirizzata. Musica suggestiva di dimensioni ulteriori che l’ascoltatore, al quale è richiesta un’attenzione senza remissioni, percepisce con certezza ma non potrebbe definire esattamente.
Così come con gli ultimi dischi di un altro caro agli dèi, Booker Little, ascoltando «Out To Lunch» viene da pensare che, se il destino l’avesse permesso, la storia del jazz come la conosciamo sarebbe stata diversa. A più di cinquant’anni dalla sua pubblicazione, resta un testo sibillino, un manoscritto del Mar Morto della musica afroamericana, mai completamente interpretato, fertile di una bellezza reticente, abbagliante di una verità che non si esaurisce, come un vero classico o un testo sapienziale.
Hat And Beard (Dolphy), da «Out to Lunch», Blue Note CDP 7 46524 2. Freddie Hubbard, tromba; Eric Dolphy, clarinetto basso; Bobby Hutcherson, vibrafono; Richard Davis, contrabbasso; Tony Williams, batteria. Registrato il 25 febbraio 1964.
Straight Up And Down (Dolphy), ib. ma Dolphy suona il sax alto.
6 commenti:
Già. Perché l'impresa non è riuscita? La rivista non era fatta male, poteva ben nutrire l'ambizione di rivolgersi a un pubblico più ampio di quello specialistico, sembrava (mi sembrava) che si fosse aperto anche un certo spazio di mercato visto che altre iniziative stavano nascendo, eppure... Peccato! (Quanto al tuo commento, didascalico o no, è perfetto. Bellissimo era anche quello dell'altro giorno su Bley. Ho mancato di dirtelo. Te lo dico adesso).
Misteri dell'editoria, in questo caso periodica. Non cerco più di penetrarli…
Grazie!
Non ho idea su come gira la stampa periodica. Da parte mia posso dire che non avendolo comprato appena uscito, non l'ho più trovato nemmeno nei negozi del centro (Mondadori incluso).
Quanto al disco in oggetto, pur adorando Eric, è un disco che non è mai entrato nel mio cuore (e nemmeno altrove). Comprato in un momento che ascoltavo altro, solo perchè in offerta, è stato ascoltato male e qualcosa nell'approccio iniziale mi ha disturbato. Forse Hubbard che non mi sembrava tanto omogeneo a Dolphy. O forse ero io che pensavo ad altra musica. Dopo questo imprinting negativo, altri tentativi timidi hanno sortito risultati simili.
Sono conscio della mia colpevolezza.
altri tentativi timidi hanno sortito risultati simili.
«No hay caminos, hay que caminar».
Nella stessa area linguistica, potrei portare a tuo conforto un florilegio da San Juan de la Cruz, che leggevo l'anno scorso più o meno in questo periodo..
San Juan de la Cruz diceva così?
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NO… è un'epigrafe a certi lavori di Luigi Nono
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