La settimana scorsa ti ho presentato in guisa di quiz un pezzo di Keith Jarrett di fantastica e deliberata bruttezza. Veniva da un disco suo del 1971 astratto e forse bizzarro ma che contiene anche della musica interessante e non disforme dallo spirito informale che ha informato il blog negli ultimi giorni.
Compio riparazione (forse, ma forse no) presentandotene per disdegnoso gusto un altro pezzo che ha il pregio di farci sentire Dewey Redman con il clarinetto e l’altro, più dubbio, di avere Jarrett al banjo, oltre che al pianoforte.
Remorse (Jarrett), da «Birth», Wounded Bird Records WOU 1612. Dewey Redman, clarinetto; Keith Jarrett, banjo, steel drum, piano; Charlie Haden, contrabbasso; Paul Motian, percussioni. Registrato nel luglio 1971.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
11 commenti:
Non sono mai riuscito ad appassionarmi alle digressioni di Keith Jarrett nel territorio da arte povera che il suo senso di colpa, divenuto ossessivo in dischi come questo, lo spingeva a fare. Non avrebbe mai potuto essere Ornette, anche se la cerchia dei musicisti e degli intellettuali che frequentava lo avrebbe tanto voluto. Keith ha origini europee, e questo è un fatto che non si può cambiare. Conosce bene la musica classica, il che non dovrebbe essere vissuto come un peccato, come sembra nel suo caso, e non arriva dal mondo di Ornette, la cui grandezza infatti sta proprio nel potere rivoluzionario e antisistema della semplicità della costruzione delle linee e del ricercato immiserimento del suono. Ma si sà, quando Ornette gli chiedeva se fosse certo di non essere nero, Keith rispondeva 'no, i'm not, but i'm working on it'. Credo che questo snobismo fosse all'origine del fatto che i critici bianchi lo avessero sempre un pò bistrattato. Il che, tra l'altro, la dice lunga sulla loro autorevolezza. E che, per fortuna, non ha oscurato il suo cammino verso la grandezza, una volta superato il periodo oscuro in questione.
Osservazioni molto acute che condivido in pieno, anche se non avrei saputo esprimerle così dsttagliatamente. Grazie.
PS In un prossimo post, Restoration Ruin…
Jarrett non faceva arte povera: era semplicemente onnivoro. Ha fallito come cantante folk, ha fatto musica ispirata ad Ornette già ai tempi del quartetto di Charles Lloyd, musica per organo si da quando accompagnava cantanti gospel in studio. Suonando per diletto tanti strumenti (alcuni maluccio) si è divertito a cercare una sua strada in tempi molto aperti alla sperimantazione. Ovviamente la sua via era il pianoforte e col tempo ha rinunciato al resto, apparentemente, visto che in camera caritatis incideva dischi rock da solo, che avrebbero fatto meglio continuare ad essere tenuti segreti.
Ho citato l'arte povera non per sminuire la produzione di Jarrett, che era già minima da sè, intenzionalmente, ne tantomeno la sua gigantesca figura. Quello che è avvenuto dai tardi '60 in poi nella cultura è stato un ampio movimento trasversale di mortificazione, per dirla con Gilberto Zorio, che ho conosciuto personalmente, di 'impoverimento del tratto', e si avverte nel cinema, nella letteratura, a cascata nella musica colta, che sbanda pericolosamente, e nel jazz che recupera, con l'allargamento/abbassamento della qualità dei canoni estetici, e una buona parte dei musicisti cosiddetti free lo testimoniano, il senso di partecipazione, molto caro all'ideologia nascente. Nel fiume della creatività democratica ci hanno bagnato i piedi un pò tutti. Jarrett si asciuga le mani e torna a ristabilire le distanze con Cecil Taylor, poco danno per Keith, che può permettersi di affrontare Shostakovic meglio di Ashkenazy. A noi è rimasto Michael Nyman, o peggio i minimalisti italiani, per non far nomi. Aggiungo che per me l'essere 'onnivoro' non è necessariamente una qualità, alla vastità preferisco la profondità.
"abbassamento della qualità" rispetto a queli canoni estetici? Quelli "classici"? Per una musica che è nata fuori da questi canoni, mi sembra un metro di valutazione improprio. Senza contare che in un discorso globale, secondo questa ottica, si finisce per premiare l'accademia ben fatta piuttosto che la vera ispirazione.
caro loopdimare, trovo invece impropria la contrapposizione accademia/vera ispirazione. Forse che l'accademia è falsa ispirazione? Non credo che tu volessi dire ciò; direi invece che la musica del mondo è fatta di formule magiche, che i grandi artisti apprendono in vari modi, dalla strada, dall'intuizione e dall'accademia, con lo studio, certo. Compito dell'accademia è di custodirle, e dell'artista di superarle, ma non di cambiarle. Vai a dire ad un percussionista cubano che deve cambiare la figura ritmica della clave, ti accuserà di blasfemia. Questo per dire che il nostro Keith ha tentato molte strade, ma poteva permetterselo, proprio per la sua fortissima preparazione accademica, sulla quale appoggiava la sua 'vera ispirazione', e grazie alla quale ha prodotto dei capolavori. Non si è mai sognato di suonare Bach in modo anticonvenzionale, anzi, i critici classici lo hanno accusato di essere troppo fedele alla lettura, semmai, di essere 'incolore'. E se ti capitasse di leggere cosa dice dell'improvvisazione, o di leggere le note sul Cellar door di Miles, scopriresti che gli accademici sono dei dilettanti al suo confronto. Mi spiego?
io facevo riferimento all'arte deglia anni 60 da te descritta come "impoverimento", punto di vista molto discutibile e non liquidabile con una frase ad effetto.
Quanto al discorso jazz-accademia, non userei il pianoforte come parametro di discussione, visto che è lo strumento più accademico usato nel jazz.
E quindi che facciamo col piano, e con Bud Powell, Tristano, Monk e tutti gli altri, ci immaginiamo come sarebbero stati sul sassofono, o li perdoniamo e li lasciamo nell'olimpo? Non sarai mica uno di quelli che al concerto di Bill Evans ad Umbria Jazz si alzarono in piedi e urlarono 'Basta! il jazz si fa con le trombe e coi tromboni!'? Ti saluto, intanto.
...(provocazione amichevole, s'intende...)
mi sembra evidente che il pianoforte trascini con se suggestioni classiche da Chopin a Busoni, da Rubistein a Pollini. è quindi consigliabile, ma solamente quando si vuole discutere di un dualismo accademia-autenticità, evitare esempi di pianisti che devono comunque portarsi sulle spalle un pesante fantasma,
Lascia stare Bill Evans che è un mio idolo.
Discutere di 'dualismo accademia-autenticità', come dici tu, non esiste. Non sono due concetti contrapponibili, autenticità essendo una qualità, e accademia un luogo o tuttalpiù un'attitudine (accademismo). Ma ho capito cosa vuoi dire, credo. No, Jarrett è autentico, e anche accademico, e anche naif, come dice il nostro blogmaster, contiene moltitudini, niente esclude niente, nel suo caso. Ma sopratutto, come Bill Evans e Coltrane e tanti altri, egli è profondo. Il che non gli ha impedito di cedere alla tentazione dell'etat d'esprit che attraversava l'arte degli anni '60, che era appunto quella di allargare i confini dell'estetica musicale, erroneamente percepiti fino ad allora come esclusivi ed elitisti, attraverso miscugli e sperimentazioni, che il più delle volte hanno appiattito, invece che innalzato, lo spirito della musica, e gli esempi sono quelli di cui sopra.
Lascia stare i 'lascia stare', non si addicono ad una discussione sul jazz, potrebbe sembrare che Bill Evans lo vuoi amare solo tu. Ti saluto.
Posta un commento