Sergio Pasquandrea prosegue il suo percorso reinhardtiano.
Django Reinhardt, si sa, era analfabeta. Da vero zingaro, aveva preferito la strada alla scuola; solo da adulto imparò a tracciare la propria firma, e alla fine diventò abbastanza abile da riuscire a redigere un'intera lettera in un francese dall'ortografia, diciamo così, piuttosto creativa.
Idem per la musica. Stéphane Grappelli, che invece aveva fatto i suoi bravi studi al Conservatorio, raccontò che una volta Django, sentendolo discutere di scale musicali, gli chiese candidamente: «Che cos'è una scala?».
Ora, il problema è che, per i critici di formazione eurocolta (ivi inclusi molti critici di jazz), non saper leggere la musica equivale a non conoscerla. E quindi Django diventa, nella mitologia corrente, una specie di idiot savant, un genio istintivo che crea senza averne la consapevolezza. Storia, del resto, ben nota a chi si occupi di jazz.
La realtà è ben diversa. La tecnica strumentale di Django, ad esempio, era immacolata, forgiata da anni di studio paziente e meticoloso. Tutti i partner testimoniano del suo orecchio infallibile, della sua finissima sensibilità armonica, del suo perfezionismo maniacale, di come bastasse una nota sbagliata, un’intonazione calante o un accento fuori tempo per farlo montare su tutte le furie. Era in grado di dettare le parti a un’intera big band semplicemente suonandole sulla chitarra: evidentemente sentiva la musica, con le orecchie e con le dita, e non aveva tutto questo bisogno di vederla sulla pagina. Ed era un grande appassionato di musica classica, da Bach a Debussy passando per Berlioz.
Ecco, tutto ciò per introdurre questo Bolero, inciso nel 1937 con una sorta di estensione orchestrale del suo quintetto: tre trombe, due tromboni, flauto, tre violini, contrabbasso e due chitarre, oltre a quella di Django. Una roba del genere, nel jazz di allora, era assolutamente out of this world, frutto di un pensiero armonico, timbrico e compositivo che stava avanti di almeno vent’anni. E nemmeno un assolo di chitarra.
Alla faccia dell'analfabeta.
Bolero (Reinhardt), da «Paris and London: 1937 - 1948, Vol. 2», JSP-CD904. Philippe Brun, Gus Deloof, André Cornille, trombe; Guy Paquinet, Josse Breyère, tromboni; Maurice Cizeron, flauto; Michel Marlop, Paul Bartel, Joseph Swetschin, violini; Django Reinhardt, chitarra solista, arrangiamento; Joseph Reinhardt, Eugène Vées, chitarre ritmiche; Louis Vola, contrabbasso. Registrato a Parigi il 14 dicembre 1937.
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3 commenti:
dovremmo conoscere più storie di analfabeti. e non perché questa sia straordinaria, ma perché continuamente facciamo l'equazione
colto uguale intelligente. non è così. c'è una donna. una contadina, che sì, sapeva scrivere, ma forse non conosceva più di cento parole. e non aveva nemmeno la carta per scrivere. e scrisse una delle più belle storie di una vita su un lenzuolo matrimoniale.
Bellissimo post. Non sapevo di questa "lacuna" di Reinhardt e trovo la cosa parecchio interessante, soprattutto per chi cerca di sminuire sempre il genio degli altri con nozioni del proprio bagaglio culturale.
Sto leggendo un libro su Carla Bley, che a un certo punto azzarda un'ipotesi sul perché molta della musica da lei scritta in gioventù sia stata interpretata e incisa da così tanti jazzisti importanti: «I guess it had a slightly different edge, due to my unorthodox background. I had managed to retain my ignorance, something you can never get back once you lose it».
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