Nel 1963 Bill Evans registrò «Conversations With Myself», il «mostruoso» disco in cui sovrappose tre parti di pianoforte. Il disco si è per questa ragione portato sempre dietro un’aura di terribilità («il Finnegan’s Wake del jazz», lo definì negli anni Settanta Nino De Rose) che in realtà non merita. Anzi: ben lontano dagli esperimenti di Lennie Tristano, in cui le parti di pianoforte di sovrapponevano in un lutulento gorgo atonale (Descent into the Maelstrom) o viceversa si componevano in un mosaico illusionistico di metri che finivano per diventare indiscernibili nel loro incastro (Turkish Mambo), Evans mise in atto in «Conversations» delle tradizionali strategie di orchestratore, con un pianoforte al centro e due ai lati, e si abbandonò a una vena esornativa (è senz’altro il disco di Evans con più note…) e perfino easy listening.
Come esperimento di overdubbing si dovrà dire musicalmente più rimunerativo questo del 1967, «Further Conversations With Myself», dove le parti di pianoforte sono limitate a due e una sia pure fittizia dialettica vivacizza le esecuzioni.
The Shadow Of Your Smile (Mandel-Webster), da «Further Conversations With Myself», Verve. Bill Evans, piano. Registrato il 9 agosto 1967.
martedì 26 luglio 2016
lunedì 25 luglio 2016
One For Nini (Bobby Hutcherson & Harold Land)
Uno dei più bei complessi jazz degli anni Sessanta, quello di Harold Land e Bobby Hutcherson, in un blues speziato da insolite complicazioni armoniche, con un Land in vena coltraniana.
One For Nini (Land), da «The Peace-Maker», Cadet LPS 813. Harold Land, sax tenore; Bobby Hutcherson, vibrafono; Joe Sample, piano; Buster Williams, contrabbasso; Donald Bailey, batteria. Registrato l’11 dicembre 1967 o il 26 febbraio 1968.
One For Nini (Land), da «The Peace-Maker», Cadet LPS 813. Harold Land, sax tenore; Bobby Hutcherson, vibrafono; Joe Sample, piano; Buster Williams, contrabbasso; Donald Bailey, batteria. Registrato l’11 dicembre 1967 o il 26 febbraio 1968.
domenica 24 luglio 2016
Doin’ It – Cameo (Frank Tusa)
Degli anni Settanta, soprattutto della prima metà, sono alcuni dischi jazz americano che su di me esercitano un fascino particolare. Prendi questo del contrabbassista Frank Tusa, che già ti ho presentato anni fa. Musica molto intima, intimamente originale e con una dimensione di espressione collettiva che nel jazz di oggi trovo raramente.
Nell’occasione, a suonare le composizioni di Tusa era il complesso Lookout Farm di cui Tusa era membro e di cui era leader Dave Liebman.
Doin’ It (Tusa), da «Father Time», Enja Enj-2197 2. Dave Liebman, sax tenore; Richie Beirach, piano; Frank Tusa, contrabbasso; Jeff Williams, batteria; Badal Roy, percussioni. Registrato nel 1975.
Cameo (Tusa), ib. Liebman, sax soprano; Beirach; Tusa.
Nell’occasione, a suonare le composizioni di Tusa era il complesso Lookout Farm di cui Tusa era membro e di cui era leader Dave Liebman.
Doin’ It (Tusa), da «Father Time», Enja Enj-2197 2. Dave Liebman, sax tenore; Richie Beirach, piano; Frank Tusa, contrabbasso; Jeff Williams, batteria; Badal Roy, percussioni. Registrato nel 1975.
Cameo (Tusa), ib. Liebman, sax soprano; Beirach; Tusa.
sabato 23 luglio 2016
Blues For Attila (Don Friedman)
Vedo che Don Friedman è morto di recente: l’ho scoperto solo ora perché mi è capitato in mano questo disco, che anni fa mi era piaciuto, e ho appunto avuto la curiosità di vedere se Friedman fosse ancora con noi.
Mi consola che in questi anni si sia sentito più volte su Jnp, anche se una volta sola a proprio nome, in trio. Era un gran bel pianista. Il dedicatario del blues non è il noto unno, ma il chitarrista ungherese Attila Zoller (1927-1998), di cui Friedman fu frequente collaboratore e a cui questo disco in piano solo è interamente dedicato.
Blues For Attila (Friedman), da «From A To Z», ACT 9755-2. Don Friedman, piano. Registrato nel novembre 2005.
Mi consola che in questi anni si sia sentito più volte su Jnp, anche se una volta sola a proprio nome, in trio. Era un gran bel pianista. Il dedicatario del blues non è il noto unno, ma il chitarrista ungherese Attila Zoller (1927-1998), di cui Friedman fu frequente collaboratore e a cui questo disco in piano solo è interamente dedicato.
Blues For Attila (Friedman), da «From A To Z», ACT 9755-2. Don Friedman, piano. Registrato nel novembre 2005.
venerdì 22 luglio 2016
Fun (Modern Jazz Quartet & Jimmy Giuffre)
Al Music Inn di Lennox, Massachusetts, il jazz lo volevano cervellotico in quella tarda estate del 1956! Comunque piuttosto bello; fun, ecco, questo non saprei. Apprendo dalle note di John S. Wilson che Jimmy Giuffre e John Lewis arrivarono a questa collaborazione a seguito di una round table discussion tenutasi a Lennox.
Effettivamente quest’origine, diciamo così, «più voluta che sentita», appare.
Fun (Giuffre), da «Modern Jazz Quartet At Music Inn, Guest Artist: Jimmy Giuffre» [Atlantic] Lonehill Jazz LHJ10203. Jimmy Giuffre, clarinetto, con The Modern Jazz Quartet: Milt Jackson, John Lewis, Percy Heath, Connie Kay. Registrato il 28 agosto 1956.
Effettivamente quest’origine, diciamo così, «più voluta che sentita», appare.
Fun (Giuffre), da «Modern Jazz Quartet At Music Inn, Guest Artist: Jimmy Giuffre» [Atlantic] Lonehill Jazz LHJ10203. Jimmy Giuffre, clarinetto, con The Modern Jazz Quartet: Milt Jackson, John Lewis, Percy Heath, Connie Kay. Registrato il 28 agosto 1956.
giovedì 21 luglio 2016
[Guest post #63] Alessandro Achilli & Ed Blackwell (+ Branford Marsalis)
Grazie ad Alessandro Achilli il guest post conosce una puntata di particolare impegno e interesse, diversa dalle altre, che ha richiesto al nostro amico non poco lavoro (e con questo caldo). Del resto, è un lavoro che consuona non solo con le passioni musicali di Achilli ma con la sua inesausta attività radiofonica.Caro Marco,
ti invio questo guest post perché so che condividiamo la predilezione per Ed Blackwell.
Si tratta di una trasmissione radiofonica su di lui, condotta da Branford Marsalis (il cui padre aveva suonato con Blackwell negli anni cinquanta), probabilmente per la National Public Radio: non direi una serie, anche se in rete non la si trova tutta unita ma frammentata in spezzoni che variano dal minuto e mezzo ai quattordici e rotti, per un totale di un’oretta scarsa.
Provando a riunire gli spezzoni, ho visto che spesso il finale di uno spezzone era ripetuto all’inizio del successivo o talvolta accadeva il contrario, cioè pareva mancare un qualcosa tra la fine di uno spezzone e l’inizio del successivo. Nel primo caso è stato facile giuntare eliminando la ripetizione; nel secondo non ho potuto fare altro che tenere il salto così com’era. La qualità di registrazione è bassa, soprattutto nelle interviste, che paiono registrate su cassetta con un walkman economico. Non escludo che la trasmissione risalga proprio al 1992, anno della morte di Blackwell.
Branford Marsalis racconta Ed Blackwell
mercoledì 20 luglio 2016
Projecting (Hadley Caliman)
Sveglia energetica oggi con l’eccellente Hadley Caliman (1932-2010), al suo esordio su Jnp, e sidemen, credo californiani, a me oscurissimi ma up to snuff. Il pianoforte che si ascolta qui credo sia uno degli strumenti più dilapidati mai consegnati al disco, ed è tutto dire.
Projecting (Caliman), da «Projecting», [Catalyst] Fresh Sound FSRCD 896: Hadley Caliman, sax tenore; Hotep Cecil Barnard, piano; Kenny Jenkins, contrabbasso; Brent Rampone, batteria. Registrato nel 1976.
Projecting (Caliman), da «Projecting», [Catalyst] Fresh Sound FSRCD 896: Hadley Caliman, sax tenore; Hotep Cecil Barnard, piano; Kenny Jenkins, contrabbasso; Brent Rampone, batteria. Registrato nel 1976.
martedì 19 luglio 2016
I’ve Got You Under My Skin (Bill Evans & Jim Hall)
Bill Evans e Jim Hall andavano così bene insieme perché avevano la stessa delicatezza armonica e lo stesso istinto ritmico; Hall, anche per lo strumento che suonava, aveva tuttavia un’indole meno introversa di quella di Evans, il che equilibrava le esecuzioni.
Come che fosse, quando Evans suonava con Hall – qui senti dalla seconda delle loro collaborazioni discografiche in duo – dimostrava un abbandono tranquillo e fiducioso che, come ben si sente qui, lo induceva a demandare tutte al chitarrista le mansioni di accompagnamento durante i suoi assoli (un’altra ragione, naturalmente, potrebbe esserne stata l’aver voluto evitare sfasature armoniche fra i due strumenti) a vantaggio di un drive maggiore del suo solito, quasi da strumento a fiato.
Il tema di Cole Porter viene enunciato solo alla fine.
I’ve Got You Under My Skin (Porter), da «Intermodulation», Verve 833 771-2. Bill Evans, piano; Jim Hall, chitarra. Registrato il 7 aprile 1966.
Come che fosse, quando Evans suonava con Hall – qui senti dalla seconda delle loro collaborazioni discografiche in duo – dimostrava un abbandono tranquillo e fiducioso che, come ben si sente qui, lo induceva a demandare tutte al chitarrista le mansioni di accompagnamento durante i suoi assoli (un’altra ragione, naturalmente, potrebbe esserne stata l’aver voluto evitare sfasature armoniche fra i due strumenti) a vantaggio di un drive maggiore del suo solito, quasi da strumento a fiato.
Il tema di Cole Porter viene enunciato solo alla fine.
I’ve Got You Under My Skin (Porter), da «Intermodulation», Verve 833 771-2. Bill Evans, piano; Jim Hall, chitarra. Registrato il 7 aprile 1966.
lunedì 18 luglio 2016
Go Down Moses (Hampton Hawes)
L’estate non è il momento giusto per prendere questo genere di decisioni, quindi non so dirti se riapro «Jazz nel pomeriggio» o se questo post è una tantum, o se chiuderò il blog perché forse ha fatto il suo tempo (= non ho più voglia).
Per adesso c’è Hampton Hawes che suona meravigliosamente, meravigliosamente accompagnato da Vinnegar e da Levey, al quale ultimo io avrei però sequestrato il triangolo che molesta head e outro, qui e in altri pezzi del disco, ma che pure dev’essere stata un’idea di Hawes, che chissà che cosa aveva per la testa: erano i suoi ultimi giorni di libertà prima di entrare a San Quentin per non uscirvi prima del (mi pare) 1963, graziato da JFK in persona. Non aveva mica ammazzato nessuno, eh, e nemmeno rapinato un drugstore: semplicemente, in quegli anni, in California ci andavano giù pesanti, ma pesanti, con chi anche «solo» si drogava.
Non so se il file si eseguirà in streaming o se invece ti toccherà scaricarlo per sentirlo, com’è capitato sovente negli ultimi tempi di segni vitali del blog; visto che comunque io non ci posso fare proprio niente, evita di lagnartene con me.
Go Down Moses (Trad.), da «The Sermon», Contemporary C 7653. Hampton Hawes, piano; Leroy Vinnegar, contrabbasso; Stan Levey, batteria. Registrato il 25 novembre 1958.
Per adesso c’è Hampton Hawes che suona meravigliosamente, meravigliosamente accompagnato da Vinnegar e da Levey, al quale ultimo io avrei però sequestrato il triangolo che molesta head e outro, qui e in altri pezzi del disco, ma che pure dev’essere stata un’idea di Hawes, che chissà che cosa aveva per la testa: erano i suoi ultimi giorni di libertà prima di entrare a San Quentin per non uscirvi prima del (mi pare) 1963, graziato da JFK in persona. Non aveva mica ammazzato nessuno, eh, e nemmeno rapinato un drugstore: semplicemente, in quegli anni, in California ci andavano giù pesanti, ma pesanti, con chi anche «solo» si drogava.
Non so se il file si eseguirà in streaming o se invece ti toccherà scaricarlo per sentirlo, com’è capitato sovente negli ultimi tempi di segni vitali del blog; visto che comunque io non ci posso fare proprio niente, evita di lagnartene con me.
Go Down Moses (Trad.), da «The Sermon», Contemporary C 7653. Hampton Hawes, piano; Leroy Vinnegar, contrabbasso; Stan Levey, batteria. Registrato il 25 novembre 1958.
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