L’ultima volta che ho scritto qui sopra di Conrad «Sonny» Clark (1931-1963) ho ammesso di non avergli mai dato la considerazione dovuta; riconosco di essermi anche abbandonato, sempre qui, a pisquanesche superficialità, videlicet «apprezzo Clark come accompagnatore (…); non mi ha mai entusiasmato come solista». Non posso nemmeno invocare l’ignoranza per attenuante, perché quando pensavo, scrivevo e dicevo così, i dischi più importanti di Clark li conoscevo già abbastanza bene. Di lui, come di altri del resto, mi sfuggiva tuttavia la cosa importante.
Farò ammenda infine, ma la prenderò alla lontana, anche perché il blog riapre, inopinatamente in primo luogo per me stesso (costanza degli aggiornamenti: non prometto nulla), e mi va di passeggiarvi divagando, senza premura di arrivare al punto.
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Sono diversi i jazzisti che hanno ricevuto l’omaggio postumo di una composizione da parte di colleghi: due istanze note a tutti, I Remember Clifford e Django, hanno trasceso l’occasione funebre e sono diventate quasi immediatamente degli standard del jazz, le belle ed elegiache canzoni che sono.
A Sonny Clark è toccato un omaggio d’altro genere, più complesso, ambiguo e irreplicabile. Clark morì la mattina del 13 gennaio 1963 di una morte quanto poche altre annunciata, e il caso volle che fosse fra l’una e l’altra delle sedute che a Bill Evans servirono per registrare «Conversations with Myself». Ti parlo di quel disco strano in cui Evans ha sovrapposto tre parti di pianoforte e che per questo è rimasto immeritamente circonfuso di un’aura di terribilità: sulle pagine di Musica Jazz, Nino De Rose lo definì«Il Finnegans Wake del jazz moderno», nonché disco «mostruoso» e «inascoltabile».
De Rose esagerava: al di là della pratica dell’overdubbing, all’epoca ancora un po’ malfamata, nel disco Evans mise in atto delle tradizionali strategie di orchestratore, con un pianoforte al centro e due ai lati, e si abbandonò a una vena esornativa (è senz’altro il disco di Evans con più note) e perfino, direi, easy listening, in un repertorio che comprendeva sei standard e tre composizioni di Monk, ma poi, a fare dieci, una composizione di Evans assai particolare, numero 7 della tracklist finale. Questa non fa davvero corpo con il resto di «Conversations with Myself», in primo luogo perché il suo inserimento non vi poté essere calcolato.
È NYC’s No Lark, l’omaggio all’amico e collega morto di cui dicevo. Secondo una prassi della titolistica di Evans, punster impenitente (RE: Person I Know > Orrin Keepnews; Yet Ne’er Broken > Robert Kenney), il titolo anagramma “Sonny Clark” in una frase, «New York City non è uno scherzo», quasi una riflessione aforistica sulla vita di un jazzista a New York. Ha un carattere di dirge, di nenia funebre, che a me ha ricordato gli ultimi due dischi di Booker Little, un altro caro agli dèi; musicalmente rappresenta l’istanza più articolata di Bill Evans compositore e improvvisatore modale.
Evans dispone sei elementi di due battute in tempo ordinario, largo, con quattro accordi per battuta su pedale ora di un intero ora di due minime, elementi da ripetersi ad libitum ma reciprocamente proporzionati secondo istruzione dello spartito pubblicato, che riporta appunto i sei ostinati, così Evans li chiama: il secondo deve durare la metà del primo, il terzo e il quarto la metà del secondo, il quinto il doppio dei due precedenti, il sesto (identico al primo) non ha altra indicazione che diminuendo. I cinque elementi suggeriscono altrettanti modi sulla scala di do, rispettivamente eolico (minore naturale), dorico, ionico, lidio, locrio e infine ancora eolico a chiudere. Chiosa il pianista in calce allo spartito: «[nell’LP] (…) sovrappongo due tracce a una prima che in questo caso era un ostinato, improvvisato, simile a quello riportato qui. La seconda traccia è essenzialmente un’improvvisazione melodica sull’ostinato e la terza un “commento” sulle prime due».
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Va bene, diranno i miei piccoli lettori, ma in tutto ciò, Sonny Clark… ? La sua musica non presenta somiglianze apparenti con l’epicedio dedicatogli da Evans, né del resto è facile trovare somiglianze di NYC’s No Lark con altre musiche, fossero pure di Bill Evans stesso; quella summentovata con Booker Little è appena di tono o d’intenzione. L’omaggio di Bill Evans sarebbe dunque esclusivamente sentimentale, risolvendosi nella dedica, nell’intenzione appunto? Io penso di no, perché sono persuaso che la musica di Sonny Clark e quella di Bill Evans abbiano delle radici estetiche e psicologiche comuni (non mi soffermo invece sugli accidenti biografici che avvicinavano i due e in ragione dei quali la morte di Clark, in quel gennaio già rigidissimo del ’63, dovette mettere il gelo nelle ossa di Evans).
Mi è piaciuta un’osservazione che ho letto di Nate Chinen: «Se mai c’è stato un jazzista che combinasse un’estrema chiarezza con un’oscurità estrema, questo è stato Sonny Clark», e anche un’altra di Ben Sidran sulla «costruzione quasi letteraria delle idee musicali [di Clark]». Trovo che tutte e due potrebbero bene applicarsi anche a Bill Evans per motivi che mi sembrano lampanti. C’è poi da dire ancora che Clark ed Evans erano entrambi ammiratori di Lennie Tristano e non soltanto, che i due sono fra i non molti pianisti nel cui stile quello di Tristano effettivamente riecheggi, per quanto in Sonny Clark più «per li rami» (altri pianisti reminescenti di Tristano, al di là della sua cerchia ristretta – Sal Mosca, Ronnie Ball, Connie Crothers – , sono stati Herbie Hancock con Miles, Paul Bley e per tramite di questo Keith Jarrett, Denny Zeitlin, Franco D’Andrea).
Il pianismo di Clark, in cui io percepisco anche l’influsso di Kenny Drew, vedeva la mano destra filare melodie a momenti anche attorte ma sempre sostenute da una logica narrativa di sviluppo (così interpreto l’osservazione di Ben Sidran) e a uno swing potente: ascoltando i suoi fraseggi interminabili ma che, a differenza di quelli di altri pianisti di lungo respiro, non restano né lasciano mai a corto di fiato, viene da pensare alla frase di Ugo Foscolo/Didimo Chierico davanti alle onde del mare: Così vien poetando l’Ariosto!
Clark, nativo della Pennsylvania, veniva da una scuola pianistica illustre, Pittsburgh, distinta dal rilievo canoro conferito alla melodia all’interno di un impianto strutturale anche concettoso e a una particolare sensibilità testurale: Earl Hines, Mary Lou Williams, Erroll Garner, Ahmad Jamal (e ora che ci penso, Hines non fu forse un’ispirazione importante per Lennie Tristano?). E se è vero che la preferenza che accordavo ai suoi accompagnamenti rispetto agli assoli era una baggianata, è pur anche vero che Clark era accompagnatore di qualità uniche. Portare esempi non serve, perché in quella veste brillò in tutti i pezzi che incise, da leader o da sideman. Sotto il solista, Clark non sembra sollecito dell'interplay, di integrare cioè o di prevedere quanto il fiato va enunciando; a quel livello di esecuzione d’insieme, quel tipo d’interplay è quasi una goffaggine. Clark accompagna, fa la sua parte tenendosi accosto non alle note del solista, che è la cosa più facile per dei musicisti professionisti, ma alla radice dell’impulso ritmico condiviso, alla radice dello swing, a un impulso naturale come il respiro.
Sonny Clark aveva vissuto e lavorato piuttosto a lungo, in due riprese, sulla West Coast, a Nord e a Sud, molto richiesto come collaboratore dai musicisti più in vista di quell’area e di quella temperie stilistica di successo breve e intensissimo. Ebbe a dire poi in interviste che quella musica non gli apparteneva; che nel jazz della costa Est trovava «più fuoco», che quel jazz gli pareva – affermazione capitale – più vicina al «traditional meaning», insomma ai caratteri idiomatici, folkorici, orali, etnici se vogliamo, della musica. In questo, dunque, più che nei modi della sua espressione, è la sua vicinanza all’hard bop, categoria generica e troppo vaga per definire tanti musicisti così diversi.
Ti lascio per oggi con una notula alla quale voglio tu rifletta: prima che Sonny Clark venisse riscoperto negli ultimi quindici-vent’anni negli Stati Uniti e in Europa, la sua popolarità era sempre stata forte, of all places, in Giappone. La fantasia corre.
NYC's No Lark (Evans), da «Conversations with Myself», Verve 821 984-2. Bill Evans, piano. Registrato nel febbraio 1963.
Nica (Clark), da «Max Roach, Sonny Clark, George Duvivier», Time Records S/2101. Sonny Clark, piano; George Duvivier, contrabbasso; Max Roach, batteria. Registrato il 23 marz0 1960.
Second Balcony Jump (Eckstine-Valentine), da «Go», Blue Note BLP 4112. Dexter Gordon, sax tenore; Sonny Clark, piano; Butch Warren, contrabbasso; Billy Higgins, batteria. Registrato il 27 agosto 1962.